Perché una società neoliberista non può sopravvivere

Torniamo ancora una volta a occuparci dell’approccio teorico all’ideologia neoliberista. T.J. Coles, ricercatore presso il Cognition Institute dell’Università di Plymouth e autore di diversi libri, tra cui Human Wrongs (2018, iff Books), in questa analisi critica sostiene, sulla base di una serie di studi socio-psicologici, che le politiche neoliberiste portano alla distruzione della società e hanno come risultato una situazione di caos ed anarchia diffusi, da cui solo pochi possono trarre vantaggio, ma che in ultima istanza porta all’autodistruzione della civiltà così come la conosciamo. In questo contesto, l’inversione di tendenza che si afferma con sempre più forza a livello globale è incoraggiante. Tuttavia è necessario conoscere e capire i fenomeni attuali per poter combattere il declino sociale dell’egoismo e utilitarismo di politiche di austerità ultra-liberiste.

fonte:  Voci dall’Estero ( http://vocidallestero.it/2018/11/02/perche-una-societa-neoliberista-non-puo-sopravvivere/ )

T.J. Coles, 25 ottobre 2018

Gli esseri umani sono creature complicate. Siamo sia cooperativi che settari. Tendiamo a essere cooperativi all’interno di gruppi (ad es. un sindacato) mentre competiamo con gruppi esterni (ad esempio, una confederazione di imprese). Ma società complesse come la nostra ci costringono anche a cooperare con gruppi esterni – nei quartieri, nel lavoro e così via. Negli ecosistemi sociali, la selezione naturale favorisce la cooperazione. Inoltre, esiste una preferenza per i comportamenti etici, quindi la cooperazione e la condivisione sono qualità apprezzate nelle società umane.

Ma cosa succede quando siamo obbligati da un sistema economico che ci vuole competitivi a tutti i livelli? Il risultato logico è il declino o il collasso della società.

IL DOGMA NEOLIBERISTA NEL XX SECOLO

Ne “L’individuo nella società“, Ludwig von Mises, insegnante di Friedrich Hayek (il padre del moderno neoliberismo), scriveva che, nel contratto sociale, il datore di lavoro è alla mercé della folla. Ma in un’economia di mercato improntata all’utilitarismo, “il coordinamento delle azioni autonome di tutti gli individui scaturisce dal funzionamento del mercato“. Quindi, in questo mondo fantastico, i datori di lavoro possono licenziare i lavoratori e sostituirli con quelli più economici senza incorrere nei costi sociali dei sistemi di contratto sociale.

Questo tipo di pensiero ha iniziato a permeare la cultura dei pianificatori del “libero mercato” nei corsi di economia delle università di Ivy League, in particolare dopo gli anni ’70.

Robert Simons della Harvard Business School nota come l’economia sia di gran lunga la disciplina accademica dominante negli Stati Uniti oggi, e che molti laureati trasferiscono questa ideologia dell’interesse personale acquisita all’università nella loro attività lavorativa di gestione patrimoniale, hedge fund, assicurazioni, credito e così via. Simons critica ciò che definisce “l’accettazione universale e indiscussa da parte degli economisti dell’interesse personale – degli azionisti, dei manager e dei dipendenti – come fondamento concettuale per la progettazione e la gestione aziendale“. Simons nota che i lavoratori sono una classe utilitaristica, come lo sono i manager, nel senso che cercano di ottenere maggiori benefici. “Per rimediare a questa situazione potenzialmente catastrofica” dei diritti dei lavoratori, “gli economisti di mercato tentano di canalizzare comportamenti sbagliati usando la teoria dello stimolo-risposta” ossia attraverso una legislazione antisindacale, tagli ai servizi sociali e la minaccia dell’outsourcing. Gli economisti di mercato “hanno elevato l’interesse personale ad ideale normativo”.

IL CONTAGIO DELLA SINISTRA

Nel 1988 l’allora cancelliere Tory Nigel Lawson scrisse che negli anni ’70, “il capitalismo, basato sull’interesse personale, è ritenuto moralmente deplorevole” dalla maggioranza dei britannici. Ma altrettanto immorale per Lawson era l’intervento statale: “Non c’è nulla di particolarmente morale in un’azione governativa pesante“, sosteneva (a meno che non si tratti di salvare le grandi imprese). Ma, fortunatamente per i Tories, “l’ondata ideologica è cambiata“, consentendo loro di ritornare al governo e imporre ulteriori riforme neoliberiste.

Forse l’aspetto peggiore del neoliberismo è il fatto di aver contagiato il partito laburista. Per fare alcuni esempi: un neoliberista statunitense, Lawrence Summers (in seguito il Segretario al Tesoro di Bill Clinton), fece da tutore al giovane Ed Balls, che presto sarebbe diventato il consigliere economico del futuro cancelliere britannico Gordon Brown. Quando era ancora un semplice deputato, Brown ebbe degli incontri con il presidente della Federal Reserve statunitense, Alan Greenspan. Ciò diede inizio nel Regno Unito a un periodo di ulteriore deregolamentazione finanziaria sotto l’egida del sedicente “New Labour”.

Vi furono tuttavia economisti che, a metà degli anni 2000, poco prima del crack finanziario, iniziarono a vedere crepe nell’ideologia, e osservarono:

Vediamo nel pubblico un diffuso disagio riguardo le soluzioni di mercato. Il libero scambio e la globalizzazione, la privatizzazione della previdenza sociale e la deregolamentazione del mercato dell’energia suscitano l’opposizione di molti consumatori, a volte argomentata ​​ma spesso inadeguata. Non è un caso che il sostegno alle soluzioni di mercato sia concentrato tra le classi di maggior successo economico, e l’opposizione tra chi ne ha meno. La libera scelta ha un fascino morale, ma l’aspetto morale è più forte quando non è mescolato all’interesse personale“.

Nel 2008 gli Stati Uniti, e quindi l’economia globale, sono entrate in crisi. Greenspan testimoniòalla Camera dei rappresentanti: “Ho commesso un errore nel ritenere che l’interesse personale delle organizzazioni, in particolare delle banche e di altri, fosse tale da essere in grado di proteggere i propri azionisti e le proprie società azionarie“. Eppure interesse personale significa proprio interesse personale. Gli amministratori delegati e gli alti dirigenti non vedevano la necessità di onorare i loro presunti doveri verso i loro azionisti, per non parlare della popolazione in generale.

CONSEGUENZE SOCIALI
Le conseguenze politiche di decenni di neoliberismo hanno portato all’espropriazione democratica, in particolare durante il periodo di espansione (dagli anni ’70 al 2008), segnato dal declino o stagnazione dell’affluenza elettorale e dall’affermarsi di politiche cosiddette estremiste all’indomani della crisi (dal 2009 a oggi). Ma l’ideologia è radicata nella classe dominante. Così, anche dopo l’inevitabile incidente del 2008, sia la Banca Centrale Europea che la Banca d’Inghilterra hanno continuato a portare avanti il neoliberismo imponendo austerità rispettivamente ai popoli europei e al Regno Unito.

In questo contesto, le istituzioni finanziarie transnazionali predatorie traggono profitto dal caos. Il fallimento del gigante immobiliare Carillon ne è un esempio calzante. La società fu lasciata fallire e il suo declino avvantaggiò diversi hedge fund, compresi alcuni con sede negli Stati Uniti.

Le conseguenze sociali del neoliberismo sono ancora più gravi. La classe media americana si è ristretta dagli anni ’70, poiché i singoli individui sono diventati o molto poveri o molto ricchi. Uno studio del Harvard Business Review ha rilevato che all’inizio degli anni ’80 almeno il 49% degli americani pensava che la qualità dei loro prodotti e servizi fosse diminuita negli ultimi anni. I tassi di suicidio maschile e femminile hanno continuato a salire a partire dalla metà degli anni ’90. Uno studio recente suggerisce che l’aspettativa di vita è scesa ovunque tra i paesi ad alto reddito.

Nel Regno Unito, l’austerità guidata dai Tory ha causato oltre centomila morti in un decennio, secondo il BMJ. Le popolazioni dei paesi più fragili ne hanno risentito ancora di più. Tra il 1990 e il 2005, i paesi sub-sahariani i cui governi hanno chiesto prestiti di adeguamento strutturale al Fondo monetario internazionale e alla Banca di sviluppo africana hanno visto un incremento da 231 a 360 ​​casi di decessi da parto per 100.000 nati vivi, rispettivamente. Secondo un altro rapporto del BMJ, nei paesi dell’America latina un incremento di solo l’1% della disoccupazione tra il 1981 e il 2010 si è tradotto in “significativi peggioramenti nei risultati di salute“, tra cui un incremento di 1,14 decessi infantili su 1.000 nascite. Tutto questo equivale a un bollettino di guerra di milioni di morti.

Come documentato altrove, le società più vulnerabili, vale a dire le comunità indigene dedite al mantenimento dei loro modi di vita tradizionali, si stanno letteralmente estinguendo man mano che la “civiltà” avanza.

CONCLUSIONI
Se questo modello decennale continua imporsi in tutto il mondo, specialmente in nazioni con popolazioni massicce come l’India e la Cina che sempre più si stanno allineando a politiche neoliberiste, le attuali condizioni di divisione sociale ed infrastrutture fatiscenti sembreranno al confronto solo un minimo inconveniente, in particolare in contesto di sempre maggiore scarsità di risorse e cambiamenti climatici. Solo se il mutamento culturale contro il neoliberismo cui si assiste oggi, che viene espresso un po’ dappertutto dai movimenti sociali progressisti agli scioperi dei lavoratori, riuscirà a sopravvivere ed espandersi, allora si potrà immaginare un futuro più equo.

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