DISCORSI DI GIUSEPPE FERRARI SULL’ ANNESSIONE DELLE DUE SICILIE

Propongo di seguito un documento che dimostra come mentre oggi i nostri governanti non hanno dubbi su come siano andate le cose , nello stesso 1860 dubbi ce ne erano. Il documento che richiamo alla vostra attenzione è del deputato Giuseppe Ferrari:

Giuseppe Ferrari (Milano, 6 marzo 1811 – Roma, 2 luglio 1876) è stato un filosofo e politico italiano. Federalista, di posizioni democratiche e socialiste, fu deputato della Sinistra nel Parlamento italiano per sei legislature dal 1860 al 1876, e senatore del Regno dal 15 maggio 1876.

Riporto qui solo alcuni passaggi:

DISCORSI  DI GIUSEPPE FERRARI SULL’ ANNESSIONE DELLE DUE SICILIE PRONUNZIATI AL PARLAMENTO ITALIANO
nelle tornate dell’8 e dell’11 ottobre 1860  (TORINO data alle stampre nel 1860 dalla tipografia  TIPOGRAFIA EREDI MOTTA palazzo Carignano)

(..)

lo posso asserirlo, io che sono in parte estraneo al sistema (…)

Io non dirò verun uomo necessario nel mondo; nessun capo sarà mai assolutamente indispensabile, in veruno Stato; non innalzerò alcuna statua ad un vivente; ma dico che lo spirito, l’idea che consacra Garibaldi crea sola l’entusiasmo dei popoli per il regno di Vittorio Emanuele nell’alta Italia.

In che consiste adunque il dissentimento momentaneo, ma pure incontestabile, tra l’alta e la bassa Italia? Esso nasce dal modo con cui venne iniziata l’attuale liberazione, e nulla di più urgente che l’esame accurato e coscienzioso delle cause prime, le quali, disconosciute, potrebbero condurre a luttuosi disastri.

Voi mi conoscete riverente per le vostre leggi, rispettoso per le tradizioni vostre, alieno da ogni discussione di persone, e spero quindi che non darete un’interpretazione ostile alle mie espressioni. Mi sia adunque concessa la facoltà di liberamente parlare del sistema piemontese. L’attuale liberazione ha cominciato colla scuola piemontese, le cui idee furono svolte con eloquenza e lealtà, furono ridotte a dettami popolari, meritarono di essere propagate e accettate con entusiasmo, ma alla fine come ogni cosa mortale erano condannate a svanire dopo compiuta la loro carriera. Queste idee, primamente annunziate dal conte Balbo e più tardi ampliate dall’abate Gioberti, sono poi diventate il retaggio di altri scrittori che per principio io non nomino, essendo essi viventi, quantunque rimangano pur sempre nella sfera tracciata dai loro defunti maestri. Il loro sistema consiste nel dire ai Lombardi, ai Veneti, ai Modenesi, ai Romani, ai Napoletani, a tutti i popoli italiani: insorgete; i vostri gravami contro il pontefice, contro l’Austria, contro i principi sono giusti; ma, appena appena l’insurrezione sarà fatta, non vi sia cambiamento né discussione, siate immediatamente Piemontesi.

(…)

Per tal guisa si è inaugurata la libertà con armi, con impiegati, con ministri, con generali, con governatori, scelti a Torino; e come mai credere che il Governo piemontese giungendo coi propri mezzi, non volesse rendere piemontese la Lombardia, Modena, Parma, l’intera Italia?

(…)

l’intera Europa ha accettata la celebrità dei capi piemontesi, che arditamente si presentarono agli Italiani onde dirigerli nella gran guerra contro il pontefice e l’imperatore;

(…)

Ma questo, signori miei, è un sistema che vi espongo; questi sono fatti non dipendenti dalla mia volontà, questa è la storia, pura storia; desidero che siate capaci d’intendere la nostra propria storia.

(…)

Napoli è abbagliante di splendori, e voi volete prenderla incondizionatamente, volete che si dia a voi, che si dia a Torino. (Bisbiglio)

Non dico che voi vogliate, intendiamoci; ma il moto economico Io vuole, la vostra politica lo esige, la geografia del Piemonte e delle sue ambizioni ingenite lo richiede, ed, astrazione fatta dalle volontà individuali, il vostro principio conduce alla confiscazione immediata e incondizionata della più grande tra le città italiane a profitto di una città senza dubbio coltissima e dotata di invincibili attrattive, ma della metà inferiore alla grandezza di Napoli. (Mormorio)

Quando diceste che Napoli deve darsi incondizionatamente, voi avete pesato le vostre parole, e mi permetterete di pesarle anch’io sulla vostra stessa bilancia, non sulla mia.

La dedizione incondizionata significa che sarà libero al Piemonte di distruggere tutte le leggi napoletane per sostituirvi tutte le leggi piemontesi... (Mormorio prolungato)

(…)

Incondizionatamente, signori; io sono nella parola, nella stretta parola: io non sindaco alcun pensiero, né alcuna intenzione; io non nomino il Governo in questo momento; io sto nella parola, come se fosse stata scritta da persona invisibile.

Chi mi dice annessione incondizionata, mi dice che vuole che lo Stato si dia in modo tale che ne possa disporre a proprio placito lo Stato che lo prende… (Rumori)

(…)

Sarò nell’errore, ma la parola incondizionata implica che il regno napoletano si troverà in balia di un Re o di un Senato piemontesi: la cosa è la stessa.

(…)

Bisogna osservare il fatto, che probabilmente alcuni ignorano, ma che riconobbi io stesso nella capitale del mezzodì. Io ho trovato in Napoli la memoria di un regno odiato; ho inteso mille giustissime accuse contro il governo borbonico; Garibaldi era accolto col massimo entusiasmo. Lo ripeto: sotto l’aspetto politico la sua rivoluzione era accettata e fatta superiore ad ogni discussione; era inteso da tutti che un Governo nuovo succederebbe all’antico e nuovi capi alla stirpe borbonica; ma io non intesi alcun Napoletano dirmi: abbiamo cattive leggi, noi chiediamo impazienti altri codici, un altro regime civile. Le leggi delle Due Sicilie sono ottime, paragonate con quelle delle altre nazioni incivilite; esse sono da preferirsi a tutte; in una parola i codici francesi sono vigenti nella bassa Italia, e voi volete che Napoli si sottometta incondizionatamente e subito ad occhi chiusi a un regno i cui codici sono dubbio della discussione,

(…)

Qual disastro nascerebbe adunque se l’annessione fosse ritardata di un mese, di un anno? Qual disgrazia se gli abitarti del mezzodì riflettessero sulle proprie loro sorti? E se esitassero a darsi in vostra balìa, che fareste voi?

Havvi un altro punto che non posso pretermettere, e giacché l’onorevole presidente del Consiglio l’ha accennato, mi pare che, avendo la sventura di parlare il primo in questa discussione, io debba dichiarare che le ragioni dette per accelerare l’annessione delle due Sicilie non sono né ottime, né decorose.

(…)

Del resto, voi lo sapete meglio di me, non ispetterebbe a me il dirlo, le Due Sicilie sono regolate col miglior governo-che si possa in quest’istante immaginare. (Ilarità)

Parlo colle vostre idee, non colle mie; giudico il dittatore colle vostre leggi, colle vostre istituzioni, coi vostri esempi, e non con utopie da me inventate; e onde meglio apprezzare il dittatore mi costituisco spettatore imparziale. Esaminiamo adunque i grandi atti del suo Governo, esaminiamoli l’uno dopo l’altro considerati nella loro importanza storica. Primo suo atto fu di conquistare la Sicilia alla libertà, e mi accorderete che in questo primo atto si comportò eroicamente. Passiamo innanzi. La Sicilia liberata gli serve di base d’operazione per assalire la tirannide che opprimeva il regno di Napoli, ed essa lo soccorre d’uomini e di danaro, Io festeggia in mezzo al duro travaglio della guerra, mantiene 35 mila combattenti, e i soldati del Borbone sono sconfitti in Reggio. A partire da quest’istante Garibaldi marcia su Napoli, giunge fino sotto Capua: e tutto cede, tutti obbediscono, tutti proclamano la sua dittatura, tutti accettano i suoi governatori, tutti lo assecondano nella sua guerra di Capua; nessuna sedizione, nessun disordine né a Palermo, né a Napoli, benché il regno muti di forme e di regime.

(…)

Direte: noi governiamo meglio. Ebbene, vediamo se governate meglio. Voi siete andati a Milano un anno fa, dodici anni fa; siete andati a Modena, a Parma, nell’Emilia; avete proceduto coi dittatori, col governo arbitrario delle rivoluzioni, colle inseparabili proscrizioni dei rivolgimenti politici. Avete voi fatto meglio di Garibaldi? Devo io ricordare i vostri atti di Milano? Non ch’io voglia difendere la mia città nativa, né suscitare lotte municipali o gare terrazzane, ma giacché mi traete su questo terreno, giacché mi fate scendere in questo campo, dirò che nel 1848, nell’atto che Carlo Alberto entrava in Milano, vi erano disordini tali che andarono sino ad una grave sommossa. Il commissario piemontese Cibrario dovette essere difeso a Venezia da Manin, che lo involava ai furori del popolo. Credete d’altro lato perfette le dittature di Ricasoli, di Farini, e scevra d’ogni disordine la vostra influenza sull’Italia centrale? Non voglio ricordarvi nessun atto disaggradevole, ma vi scongiuro, a nome della pace, a riconoscer ottimo il Governo della Sicilia, e la bilancia tra voi e Garibaldi sarà compensata.

(…)

Or bene, vi fu un ministro che voleva portare il dittatore a promulgare immediatamente tutte le leggi piemontesi. (Denegazioni al banco dei ministri)

lo posso nominare il troppo zelante ministro, ma desidero tacere il suo nome, avvertendo solo che è affezionato al Piemonte, Toglio dire al Governo, al sistema piemontese…

Una voce. Lo nomini!

FERRARI. Volete che lo nomini?

(Si! si!)

PRESIDENTE DEE, CONSIGLIO. Lo nomini!

FERRARI. Pisanelli!

MANCINI. Perché conosce le leggi del Piemonte meglio che gli altri.

FERRARI. lo non accuso nessuno, ma dico che il sistema di Cavour, il sistema piemontese, è sostenuto nelle Due Sicilie da un partito (al quale i capi del Piemonte saranno estranei), ma che si mostra impazientissimo di precipitare l’annessione, e che si sforza di far decretare misure, le quali riescono anarchiche. Questo partito, per rendere necessaria, indispensabile la immediata, la subita annessione, diffonde arditamente il disordine, impediendo le misure più urgenti, più necessarie

FERRARI. Io parlo nella profonda indipendenza delle mie opinioni; ho consacrato la vita alla patria; non vengo qui a chiedere impieghi (Vivi rumori di disapprovazione)

(…)

Io non muto d’avviso: sono stato avversario dell’unità italiana, la credo tragica nell’azione sua, destinata a creare immemorabili martirii e crudelissimi disinganni, benché necessaria come gli scandali alla storia, come i sacrifizi e gli olocausti alle religioni. Ma al certo i ministri che non dividono questa mia opinione, non hanno mai parlato di unità italiana nel 1848, ancora meno dopo la battaglia di Novara; e nei recenti protocolli del 1859, quando accusavasi l’unità austriaca nei ducati italiani, ogni nota del Gabinetto piemontese non era forse federale?

Vi direte voi ministri della federazione? In verità io trovai nel progetto di legge una dichiarazione la quale mi colmò di gioia. Io credo alle federazioni; le credo potenti quanto l’unità, sia nell’associare le forze militari, sia nella resistenza alle invasioni, sia nel favorire lo sviluppo della libertà, sia nel proteggere le arti, le scienze, l’industria, il commercio.

Quando lessi nel vostro progetto che volevate fare una monarchia scentrata, io non poteva trovare una dichiarazione più favorevole alla federazione.

Una monarchia scentrata, nella quale ogni città pesi del giusto peso del suo valore economico, deve essere detta federazione, e da Aristotile fino a noi questo nome fu sempre applicato ai corpi politici, per qualsiasi ragione non dotati di capitale. Ogniqualvolta più Stati non possono sottostare al centro, comunque siano essi riuniti, qualunque sia il Governo loro, formano sempre un corpo federale, che sarà poi buono o cattivo, come ci sono buone o cattive monarchie. Scentràlizzare uno Stato e federalizzarlo sono due termini corrispettivi.

D’altronde yoi vi proponete di riconoscere le autonomie. Ogniqualvolta riconoscete le autonomie voi cadete nel sistema federale. La federazione non mira ad altro, se non a conservare le autonomie sia delle antiche capitali, sia degli Stati costituiti, sia delle regioni condizionalmente indipendenti. Date il significato che vorrete alla parola autonomia, e non potrete sottrarla dal sistema federale. Che se in vostra sentenza pochissimi sono i federali, io credo al contrario che ve ne siano troppi; e qualora nessuno difendesse la federazione italiana, i due miei amici, il Po e gli Appennini, non l’abbandoneranno mai.

(…)

Io credeva che un economista come il signor conte di Cavour avesse lasciati questi luoghi comuni ai giornalisti della antica reazione (Si ride), agli uomini della legittimità, che sospirano il ritorno di un duca di casa d’Este o di Lorena. Come mai il signor conte di Cavour, che attende la rivoluzione di Roma e quella della Venezia, vuol egli chiudere l’era delle rivoluzioni? (Ilarità ed applausi dall’estrema sinistra)

Una teoria già adottata da uomini rispettabili alla vigilia del 1848 propugnava l’indipendenza italiana in odio di ogni rivoluzione, e dicevasi: «Noi non vogliamo rivoluzioni; non vogliamo esautorare alcun principe, spodestare alcun capo italiano: uniamoci tutti; combattiamo l’Austria.» Il Ministero, che non rappresenta né l’unità, né la federazione, né la rivoluzione, sarebbe egli l’erede di questa senile utopia, ripudiata dagli stessi suoi propugnatori? Sarebbe egli il Ministero dell’indipendenza pura, senza rivoluzioni?

(…)

Ma egli ha fatta una guerra di rivoluzione al Borbone anche diplomaticamente; ha fatto una guerra di rivoluzione alla famiglia d’Este, a quella di Parma, a quella di Toscana. I suoi principii erano rivoluzionari, benché moderati, benché esposti colla massima abilità.

Io non posso dunque considerare il conte Cavour come ministro né dell’indipendenza, né della spedizione di Roma, né di quella della Venezia… Forse lo sarà egli dell’influenza francese? (Mormorio di disapprovazione)

Io rispetto altamente la generosa nazione che da secoli si è associata a tutti gli sforzi in favore della libertà italiana, né io penso che alcun uomo politico possa adontarsi di rappresentare l’influenza francese nei limiti richiesti dalla patria nostra. Ma io vedo nel Governo elementi i quali escludono la possibilità anche di rappresentare la parte benefica dell’influenza francese, perché infine le tradizioni de’ suoi membri rimontano altrove, e l’uno di essi considerava il soccorso che per avventura la Venezia avesse potuto invocare dalla Francia nel 1848 come una pubblica calamità, come un’ignominiosa maledizione. Voi d’altronde considerate l’influenza francese come l’atto personale o, direi anche, capriccioso di un uomo, dell’imperatore dei Francesi, e nel proclamare la vostra gratitudine al capo della Francia voi avete concentrato nel solo Luigi Bonaparte la ragione dell’Italia attuale. Con ciò si costituisce un nuovo sistema imperiale; l’imperatore, il Cesare antico, è precisamente l’uomo isolato che scende dall’alto, che s’invoca come liberatore, astrazione fatta dalla nazione alla quale appartiene; che sia Carlo IV di Boemia, o Ludovico di Baviera, che sia francese o tedesco, nessuno parla della patria sua, e tutti gli chiedono di rendere felici le nazioni, e le vostre espressioni eccessive di gratitudine, le vostre frasi smodate di riconoscenza mi annunziano che, respinto l’impero tedesco, voi ricadete nell’impero rivolgendovi al Cesare francese.

(…)

Riconosco che il soccorso della Francia, la sua protezione assicurata varrebbe quanto il sostegno morale di una maggioranza frammentaria, e sarebbe per me un’obbiezione gravissima, benché non insormontabile. Ma il Ministero gode egli della confidenza, della Francia? Io non domando rivelazioni, non domando documenti; io voglio fondarmi sulle dichiarazioni pubbliche, sulla storia contemporanea, la quale non può essere falsata da alcun documento o da alcuna nota diplomatica. Gli ambasciatori di Francia sono ritirati da Napoli e da Torino; la Francia non ha né garantito, né approvato, né legittimato l’annessione dell’Italia centrale, e non vuole quella delle Due Sicilie; e, ciò che più rileva, l’imperatore dei Francesi ha consigliato continuamente ed ostinatamente all’Italia una forma federale. Né mai su questo punto le dichiarazioni dell’imperatore dei Francesi hanno variato, e benché lasci ora libera l’Italia di costituire la propria unità, le sue dichiarazioni non debbono essere poste in non cale.

La Francia vi lascia liberi di distrarre tutti i nemici d’Italia, che sono pure i nemici suoi; vi spingerà ancora forse più in là del limite a cui siete giunti; ma le conseguenze di tale spinta e delle sue riserve voi le conoscete, l’avete nel sistema francese, e saranno che ad ogni annessione italiana corrisponderà un’annessione francese. (Mormorio)

(…)

Ho visto una città colossale, ricca, potente: innumerevoli sono i suoi palazzi, costrutti con titanica negligenza sulle colline, sulle alture, nei vieni, nelle piazze, quasi che indifferente fosse la scelta del luogo in una terra da per tutto incantevole.

Ho visto strade meglio selciate che a Parigi, monumenti più splendidi che nelle prime capitali dell’Europa, abitanti fratellevoli, intelligenti, rapidi nel concepire, nel rispondere, nel sociare, nell’agire. Napoli è la più grande capitale italiana, e quando domina i fuochi del Vesuvio e le mine di Pompei sembra l’eterna regina della natura e delle nazioni.

Or bene, s’io avessi l’onore d’essere nato nella patria di Vico, e se l’alta Italia volesse annettersi senza condizione e subito, io direi: no, non confondiamoci, ma confederiamoci. (Segni di disapprovazione)

E diffatti, giacché la storia non volle che l’Italia appartenesse alla classe delle nazioni unitarie, colla federazione possiamo giungere ogni più gloriosa meta. Colla federazione ogni città si trasforma in capitale e regna sulla sua terra (Rumore);

colla federazione ogni Stato italiano si riconosce con una propria assemblea erede delle patrie glorie; poi ogni assemblea nomina i rappresentanti della nazione nella dieta dove l’intera patria sottrae ai pontefici la sua ragione per riflettere alla fine sui propri destini. Colla federazione si ottiene l’unità d’un esercito, perché non vi fu mai lega il cui scopo non fosse di riunire le disperse forze degli Stati, come lo mostrano gli esempi della Germania e degli Stati Uniti; colla federazione si ottiene l’unità della diplomazia, la quale trae dalla dieta un unico pensiero e la direzione unica degli Stati in faccia alle estere nazioni.

Fu sparso l’errore che la federazione volesse dir divisione, dissociazione, separazione. Ma la parola federazione viene da foedus; foedus vuoi dire patto, unione, reciproco legame; e il legame delle federazioni è si flessibile e potente che sa congiungere in Germania repubbliche e principati, e può elevare il presidente della dieta dal grado di semplice cittadino a quello d’imperatore o di re. Arrogi che la federazione è il sistema costituzionale preso nella più pura espressione,

Stiamo ai fatti: il generale giunge in Sicilia e destituisce in massa tutti i municipi. Ecco un inescusabile disordine, una incontestabile anarchia; non v’ha modo di dissimularne gli strazi. Ma se lasciamo sussistere i municipi, la rivoluzione è perduta; Garibaldi dovrebbe ritornare a Genova, e forse non lo potrebbe.

Procediamo adunque; alle destituzioni dei municipi succede quella dei magistrati, e resta l’isola senza governo alcuno; la vita, la libertà, i beni dei cittadini cadono in balia di nuove e forse sconosciute persone. Ma, signori, siamo sulla terra dei Vesperi siciliani; un minuto perduto reca la morte. Innanzi.

Si danno i pascoli ai militi; e mai e poi mai il signor conte ci Cavour avrebbe sottoscritto quel decreto che da alle bande inorganiche di un generale gli immensi pascoli della Sicilia, terre che saranno la ricchezza avvenire dell’isola.

Le da ai militi…

(…)

CAVOUR, presidente del Consiglio. Io no. (ilarità generale)

FERRARI. Garibaldi le da. Questo è disordine, misura che nessun Governo regolare avrebbe precipitata, nessun Parlamento sanzionata; ma se la rivoluzione non la decreta, la rivoluzione è perduta. Quindi ai militi le terre, quindi nuovi soldati sorgono da un suolo dove si ignora la coscrizione e si abborre ogni servizio militare; quindi nasce terribile e confusa nelle moltitudini quest’idea, che comincia ornai la guerra del popolo contro i borghesi. Voi piangete sul disastro di Bronte, dove cadono pugnalati trenta cittadini, prime vittime della guerra sociale. Piangete pure: ma dove vedrete voi in un Governo un progresso qualsiasi, senza disordine, senza spargimento di sangue, senza tragedie cittadine? Questa è cosa umana. Il generale è giustificato. (Applausi dalla sinistra)

Voi mi direte per avventura: il generale atterrisce l’isola, il genio suo ne spaventa i tranquilli abitanti, gli onesti borghesi cercano uno scampo, si parla di annettersi immediatamente al Piemonte, l’oro diventa annessionista, i più ricchi tra i Siciliani sono impazienti di veder cessare lo sconvolgimento; e chi non sarebbe stato impaziente? Ma il demonio della rivoluzione è spietato. Bisogna andare sul continente, bisogna andare a Reggio; se gli annessionisti fossero ascoltati, se l’annessione fosse fatta (cosa forse ottima per l’avvenire), giungerebbe subito il Governo regio di Torino, la rivoluzione si fermerebbe, e Reggio sfuggirebbe. Innanzi. Si moltiplicano i disastri, le lotte e le tragedie; ma voi dovete a questa tragedia il regno di Napoli, dove, vinta una piccola resistenza a Reggio, la rivoluzione vola subitamente di città in città, il generale Garibaldi può entrare solo a Napoli con sette ufficiali. (Bene!)

originale in pdf qui: DISCORSI  DI GIUSEPPE FERRARI SULL’ ANNESSIONE DELLE DUE SICILIE PRONUNZIATI AL PARLAMENTO ITALIANO

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