In questo articolo l’economista Servaas Storm, dell’Università di Delft, in Olanda, passa al vaglio e fa a pezzi uno dei molti studi scientifici – ritenuti di alto livello – che sostengono che le leggi che proteggono i lavoratori regolamentando il mercato del lavoro in realtà danneggerebbero l’economia e i lavoratori stessi. Studi come questo, pieni di falle eppure alacremente “macinati nel mulino neoliberale”, portano poi a raccomandazioni al sistema politico sulla massima deregolamentazione del mercato del lavoro, naturalmente per il bene dei poveri. Non sorprenderà che l’autore riveli un mondo di pubblicazioni economiche basate su pregiudizi ideologici scarsamente o per nulla suffragati dai dati. Ma pomposamente lodati, pubblicati e utilizzati per indirizzare strategie politiche disastrose per i lavoratori, nel mondo in via di sviluppo e non solo.
di Servaas Storm, 6 febbraio 2019
Traduzione di Andrea Wollisch
Per anni, i governi in India e in buona parte del mondo in via di sviluppo hanno seguito i consigli di un articolo nel quale si sostiene che le regolamentazioni del mercato del lavoro in realtà danneggino i lavoratori stessi. Il problema? La ricerca era piena di falle.
“Le leggi create per aiutare i lavoratori spesso li danneggiano”.
Si sostiene spesso che forti protezioni del lavoro per i lavoratori non qualificati rappresenterebbero “lussi che i paesi in via di sviluppo non possono permettersi”. L’idea è che le leggi che regolano i salari e le condizioni di lavoro o che facilitano la contrattazione collettiva debbano far aumentare il costo del lavoro e i prezzi, e quindi portare danno ai profitti delle imprese e agli investimenti; facendo questo, si distruggono gli stessi posti di lavoro che si intendeva proteggere.
“…le leggi create per aiutare i lavoratori spesso li danneggiano” sono le parole con cui la Banca Mondiale (2008, p.8) riassume il concetto.
Questo particolare effetto perverso è stato invocato numerose volte nel dibattito indiano sull’impatto della regolamentazione del mercato del lavoro sulla performance registrata dall’industria che ha imperversato per decenni (Bhattacharjea 2006; Srivastava 2016; Storm and Capaldo 2018; Karak and Basu 2019). Per giustificare le politiche di deregolamentazione del mercato del lavoro, i governi indiani che si sono succeduti, di vari colori politici, hanno sostenuto che l’arcaica e restrittiva regolamentazione del lavoro in India nell’industria ufficiale danneggia la performance industriale – le recenti riforme contro i lavoratori intraprese dal governo di Narendra Mody guidato dal Bharatiya Janata Party (BJP) sono solo le ultime manifestazioni di quello che è stata la politica standard da almeno la metà degli anni ’80.
Presumibilmente, nessuno studio è stato più utile nel propagare in India il concetto che una legislazione del lavoro a favore dei lavoratori finisca per colpire i lavoratori stessi dell’articolo pubblicato nel 2004 sul Quarterly Journal of Economics da Timothy Besley e Robin Burgess; gli autori, basandosi su risultati econometrici, concludono che “una regolamentazione del lavoro a favore dei lavoratori si è tradotta in minor produzione, minor occupazione, meno investimenti, e in un abbassamento della produttività nel settore dell’industria registrata. È cresciuta la produzione nel settore sommerso.” (Besley and Burgess 2004, p. 92-93). Il loro articolo è stato quindi macinato nel mulino neoliberale ed è stato usato dal governo indiano nel suo Economic Survey 2006 per giustificare la deregolamentazione del mercato del lavoro. Lo studio è stato citato con favore nel World Development Report 2005, e la misurazione de jure della regolamentazione del mercato del lavoro sviluppata da Besley e Burgess è stata ampiamente utilizzata nelle ricerche successive.
Che cosa hanno trovato Besley e Burgess?
L’articolo di Besley e Burgess (2004) si basa sulle relazioni tra le performance dell’industria ufficiale indiana e la regolamentazione del mercato del lavoro nei diversi stati, per valutare gli impatti di quest’ultima su produzione, occupazione, investimenti e produttività. Per misurare il grado di regolamentazione del mercato del lavoro, gli autori hanno creato un nuovo indicatore di regolamentazione (che io chiamo BB-index) basato su variazioni a livello statale nella direzione degli emendamenti che i diversi stati indiani hanno portato all’Industries Disputes Act (IDA) del 1947.
I due autori hanno classificato le modifiche alla legge come “pro-lavoratori”, “neutre”, o “pro-imprenditori,” assegnando un punteggio relativo rispettivamente di +1, 0 e -1. I punteggi relativi a ogni stato sono sommati nel tempo per ottenere una “misurazione normativa” per ogni stato in ciascun anno. Usando due differenti set di dati – uno basato sui dati della produzione industriale aggregata per 16 stati (1958-1992) e uno che usa dati a tre cifre sul livello delle industrie per gli stessi stati (1980-1997). Così Besley e Burgess stimano l’impatto della regolamentazione del lavoro sulla performance dell’industria: quello che trovano è che la regolamentazione pro-lavoratore è sistematicamente associata a minore produzione, minore occupazione, minore produttività e minori investimenti nel settore dell’industria formale; mentre le leggi sul lavoro vantaggiose del lavoratore non avrebbero modificato significativamente i guadagni per il dipendente.
Besley e Burgess sostengono che le loro scoperte sono molto significative dal punto di vista economico. Per esempio affermano che la produzione industriale in Andhra Pradesh sarebbe stata solo il 72% del suo vero livello nel 1990, generando 199.000 posti di lavoro in meno, senza le riforme pro-imprenditori sottoscritte da questo stato. Il loro secondo controfattuale riguarda il Bengala occidentale, dove le loro stime indicano che, senza le riforme pro-lavoratori, la produzione industriale sarebbe stata del 24% superiore rispetto al suo livello nel 1990 e che l’occupazione sarebbe stata più alta di 180.000 posti di lavoro.
Persuasi dai loro risultati, Besley e Burgess (2004, p.124) concludono che è “evidente che molto del ragionamento alla base della regolamentazione del lavoro era sbagliato e ha condotto a risultati che sono stati opposti rispetto ai loro obiettivi originari” e che “i tentativi di porre rimedio al bilanciamento di potere tra capitale e lavoro possono finire per danneggiare i poveri”. I due economisti dell’LSE concludono scrivendo che il “grido di battaglia a favore di una regolamentazione del mercato del lavoro è spesso che le politiche del mercato del lavoro pro-lavoratore pongono rimedio allo sfavorevole bilanciamento di potere tra capitale e lavoro, conducendo a un progressivo effetto di distribuzione del reddito. Noi non abbiamo trovato nessuna evidenza di questo – anzi gli effetti redistributivi sembra abbiano lavorato a svantaggio dei poveri.” Insomma, la retorica della reazione in pieno svolgimento.
Problemi concettuali non banali
L’articolo di Besley e Burgess (2004) ha ricevuto critiche sostanziali (Bhattacharya 2006; D’Souza 2010; Roychoudhury 2014; Karak and Basu 2019). Un primo problema riguarda il BB-index. Besley e Burgess (2004, p.98) ammettono che la costruzione dell’indice richiede un certo numero di decisioni discrezionali, ma riportano con sicurezza di avere “trovato sorprendentemente pochi casi di incertezza”. Altri esperti non sono d’accordo, comunque, ed evidenziano diversi problemi, inclusa una classificazione palesemente inappropriata dei singoli emendamenti alla legge (basata su interpretazioni errate dei cambiamenti normativi e sbagliando la datazione degli stessi) e la codifica come +1 o -1 di cambiamenti non misurabili (Bhattacharjea 2006). Ma c’è di più, il BB-index si concentra esclusivamente sugli IDA ed ignora le altre leggi sul lavoro esistenti, l’impatto delle quali spesso supera quello degli IDA stessi.
Una seconda perplessità è che la maggior parte degli emendamenti pro-lavoratori sono stati realizzati durante gli anni ’80 – questo è riflesso dal fatto che 30 cambiamenti su 43 nel BB-index sono avvenuti in quel decennio. Ma, paradossalmente, gli anni ’80 sono stati un periodo di grande indebolimento del potere dei lavoratori e di un aumento dell’inosservanza delle leggi sul lavoro. Il potere in calo dei lavoratori sindacalizzati è reso evidente dal costante declino post-1980 della quota salari. Nel 1980, la quota salari sul valore aggiunto nel settore manifatturiero ufficiale dell’India era del 44%; successivamente nel 1992-93 la quota salari scese al 32%, per arrivare al 26% nel 1998-99 – uno sconcertante declino di 18 punti percentuali in meno di 20 anni (Jayadev and Narayan 2018). I salari sono aumentati molto più lentamente della produttività del lavoro, mentre il tasso di sindacalizzazione è sceso, la sicurezza sociale per i lavoratori protetti è stata ridimensionata e la disuguaglianza dei redditi è aumentata bruscamente (Srivastava 2016). Paradossalmente, la quota salari sul prodotto aggiunto dell’industria è diminuita maggiormente negli stati classificati come pro-lavoratori – del 19% durante il periodo 1980-81/1998-99. Parlare di un aumentato potere di contrattazione dei lavoratori sindacalizzati di fronte ad un declino senza precedenti della quota salari nell’industria ufficiale appare forzato.
Tutto questo suggerisce un altro limite del de jure BB-index: l’inosservanza delle regole sul lavoro è pervasiva e de facto il rispetto delle stesse è debole o assente (Chatterjee and Kanbur 2015; Srivastava 2016). Inoltre, i datori di lavoro nell’industria ufficiale in India hanno aggirato massicciamente le (vecchie e nuove) leggi sul lavoro, assumendo sempre più lavoratori a contratto (temporanei), i quali non sono inclusi in queste leggi (D’Souza 2010; Jayadev and Narayan 2018). La quota di lavoratori a contratto temporaneo sul totale degli occupati nell’industria ufficiale è aumentata da un livello trascurabile all’inizio degli anni ’70 a circa il 12% nella metà degli anni ’80 fino a quasi il 20% nel 1998-99 (Srivastava 2016). Tutto questo suggerisce un indebolimento secolare del potere di contrattazione dei lavoratori – che è avvenuto nonostante gli emendamenti agli IDA.
Serie perplessità econometriche
Le regressioni di Besley e Burgess sono state giustamente criticate per la distorsione dovuta a variabili omesse – e per il fatto che le loro variabili “di controllo” non sono statisticamente significative e non controllano per niente. Besley e Burgess riportano che l’inclusione di trend di periodo specifici nei singoli stati spazza via l’impatto negativo della regolamentazione del lavoro: il coefficiente del loro indice diventa statisticamente non significativo. Ma loro interpretano questo fatto come una prova che la loro misurazione della regolamentazione del mercato del lavoro è un fattore chiave di questi trend di periodo specifici negli stati. Questo ragionamento però puzza di bias di conferma; una conclusione più appropriata è che qualunque impatto delle leggi sul lavoro sulla manifattura è più che compensato da altri fattori.
Ho provato a replicare i risultati di Besley e Burgess sulla produzione del settore industriale ufficiale riportati nella loro tabella 3, usando i dati resi disponibili online da Economic Organisation and the Public Policy Programme (EOPP) dell’LSE (Besley and Burgess 2019). Curiosamente, il dataset online non permetteva di replicare i risultati, prima di tutto perché il numero di osservazioni era ben minore di quello riportato da Besley e Burgess. Quindi, ho creato un panel dataset alternativo usando i dati (per il periodo 1960-1992) da Besley e Burgess (2019) combinati con i dati di Karak e Basu (2019).
Con il mio dataset ho scoperto che l’impatto della regolamentazione del lavoro sulla produzione industriale è negativo nella regressione base, diventa positivo quando includo trend temporali specifici per ogni stato (in contrasto con quello che hanno trovato Besley e Burgess), ed è insignificante quando si escludono le osservazioni relative al Bengala Ovest o quando si restringe il periodo temporale al 1981-1992. Appare insomma che solo particolari specificazioni del modello possono portare a risultati simili a quelli ottenuti da Besley e Burgess.
Andare oltre le critiche esistenti: i risultati empirici contraddicono la teoria
In una sezione non sufficientemente sviluppata intitolata “considerazioni teoriche”, Besley e Burgess menzionano i meccanismi attraverso i quali la regolamentazione pro-lavoratori finirebbe per colpire la performance industriale. Primo, la regolamentazione pro-lavoratori si dice che aumenti il costo del lavoro per le imprese, che quindi sostituiranno lavoro con capitale. Secondo, si sostiene che un costo per unità di lavoro più alto renda i beni industriali più costosi e questo riduce la domanda e la produzione. E terzo, c’è il buon vecchio “effetto espropriazione”: una regolamentazione del lavoro pro-lavoratori permette agli stessi di appropriarsi di un quota maggiore del rendimento degli investimenti esistenti (già effettuati), scoraggiando così gli investimenti futuri. Gli investimenti saranno più bassi e quindi il capitale sociale sarà inferiore – riducendo la crescita della produzione e dell’occupazione. Besley e Burgess non mostrano alcuna consapevolezza del fatto che le tre “spiegazioni” siano vicendevolmente incoerenti: la sostituzione del lavoro con il capitale significherebbe un aumento dell’intensità di capitale, mentre secondo il terzo argomento la stessa dovrebbe diminuire. Non puoi farti una nuotata e contemporaneamente restare asciutto.
Usando i risultati stimati da Besley e Burgess, si può dimostrare che nessuna di queste tre spiegazioni regge. Secondo gli impatti stimati della regolamentazione pro-lavoratori, le imprese indiane hanno fatto l’esatto opposto di quello che sostengono Besley e Burgess: le imprese hanno ridotto l’intensità di capitale della produzione e aumentato l’intensità di lavoro! Le imprese hanno sostituito capitale con lavoro, piuttosto che il contrario. Riguardo la seconda spiegazione: mentre è vero che si è trovato che la regolamentazione pro-lavoratori ha aumentato il costo per unità di lavoro, l’impatto di questo sui prezzi dei prodotti industriali (e quindi sulla domanda e sulla produzione) è stato quasi trascurabile, perché il costo del lavoro rappresenta uno scarso 10% dei costi totali di produzione. Questo implica che un aumento del 10% dei costi del lavoro per unità di lavoro aumenta i prezzi dei manufatti solo dell’1%. Ed è fin troppo chiaro che la “storia dell’esproprio” è un mito, perché non si è trovato che la regolamentazione pro-lavoratori aumenti i salari e i supposti lavoratori “protetti” sono stati completamente inermi di fronte al forte incremento della quota profitti delle imprese. Come possono i lavoratori ottenere una quota maggiore dei profitti quando de facto l’applicazione delle leggi sul lavoro è debole o anche nulla – o dove le imprese aggirano la legge assumendo lavoratori temporanei? E perché mai le imprese, che si suppone siano spaventate dal potere espropriativo dei lavoratori protetti dalla legge, aumentano l’intensità di lavoro della produzione?
Infine, io dimostro che i risultati di Besley e Burgess (2004) non sono economicamente significativi, ma completamente irrealistici e mettono a dura prova la possibilità di crederci. Per capirci, usando le stime e la media del BB-index cumulato di Besley e Burgess, ne segue che se il Bengala occidentale non avesse adottato nessuna riforma pro-lavoratori, la sua produzione industriale ufficiale sarebbe stata superiore del 1.000% al suo livello reale nel 1990! In altre parole, il Bengala sarebbe potuto diventare la prossima tigre asiatica se non fosse stato per quegli emendamenti dell’IDA pro-lavoratori, i quali non solo hanno limitato gli investimenti, ma in realtà hanno asfissiato l’industria. Non ha veramente senso.
Un caso di “utile economista”
Quindi questo articolo di Besley e Burgess (2004) è compromesso da errori fatali di omissione e ossequio agli ordini. La ricerca, realizzata da due utili economisti, mostra un ingiustificato empirismo nel quale i pregiudizi calpestano le prove. La ricerca non riesce a essere utile da nessun punto di vista riguardo a suggerimenti di politiche pubbliche “basate sulle prove”. Ma quello che voglio sottolineare in particolare è che questa ricerca di alto profilo non è certo l’unica che fallisce la prova della ripetizione dei risultati e/o che si disintegra a un più attento esame. Il problema in economia è endemico, benché così spesso si proclami di fare ricerca sociale “libera da pregiudizi ideologici” e di provvedere a consigli di politiche pubbliche “basati sulle prove”.
Permettetemi di fare qualche esempio. L’articolo del QJE di Botero et al. (2004) che mostra impatti negativi delle leggi sul lavoro sulla performance economica, sono stati sbugiardati da Kanbur e Ronconi (2016) che dimostrano che l’impatto diventa statisticamente non significativo dopo avere controllato con l’aiuto del buon senso il punto “applicazione delle leggi”. Similmente, attente repliche delle analisi da parte di Howell, Baker, Glyn e Schmitt (2007), Baccaro e Rei (2007), e Vergeer e Kleinknecht (2012) congiuntamente sbugiardano una dozzina di studi econometrici di alto profilo, pubblicati su riviste soggette alla peer-review (rilettura da parte di altri accademici e ricercatori prima della pubblicazione, ndt), i quali riportavano tutti impatti negativi della regolamentazione pro-lavoratori sulla disoccupazione nelle economie appartenenti all’OECD, incluse ricerche pubblicate su The Economic Journal. I risultati pubblicati sono stati trovati essere robustamente non robusti, con i segni (+/-) dell’impatto capovolti e la loro significatività statistica invalidata in seguito a piccole modifiche nelle procedure di stima.
La sostanziale inconsistenza dell’approccio e dei risultati di questo filone di ricerca è in netto contrasto con le sue più che ampie, e socialmente costose, raccomandazioni verso politiche pubbliche volte ad abolire la regolamentazione del mercato del lavoro con norme a vantaggio dei lavoratori. Il fatto che tutte queste ricerche siano passate attraverso il processo di peer review suggerisce che questo processo soffra di una distorsione che spinge alla conferma, ovvero definire “eccellenza scientifica” qualsiasi cosa che sia il più vicina possibile alle loro convinzioni e ai loro metodi accademici (D’Ippoliti 2018). Ma quello che è peggio, allontanandosi dalle pratiche scientifiche corrette, le riviste più importanti generalmente non ritengono necessario pubblicare gli studi che dimostrano il fallimento dei tentativi di replicare i risultati come correttivo alle ricerche pubblicate. I pregiudizi continuano a dominare rispetto ai risultati e alle solide pratiche di ricerca. Dobbiamo chiederci, come scrivono Thomas Ferguson e Robert Johnson (2018), “se non ci sia qualcosa di radicalmente sbagliato nella struttura della disciplina stessa, che ha condotto al mantenimento di un sistema di convinzioni ristretto attraverso l’imposizione di regole di ortodossia e l’erezione di barriere contro argomenti migliori e prove contrarie.”
Permettetemi di concludere ribadendo quello che vorrei che il lettore portasse a casa da questo articolo: che l’economia deve esercitare la massima cautela e umiltà nel costruire e interpretare evidenze empiriche e nell’usarle per sostenere suggerimenti di politiche pubbliche. Come l’esempio di Besley e Burgess (2004) chiarisce, il danno economico e sociale causato da suggerimenti di politica del tutto sbagliati per milioni di lavoratori dell’industria può essere sostanziale. Non sono a conoscenza di nessuna prova credibile che suggerisca che la regolamentazione del lavoro con norme che proteggono i lavoratori sistematicamente finisca per colpire gli stessi e che potrebbe giustificare le ondate di deregolamentazione del mercato del lavoro che si abbattono ovunque per il mondo (Storm and Capaldo 2018). Questo mi porta a chiudere il cerchio con Beatrice e Sidney Webb, i fondatori della London School of Economics and Political Science, dove Besley e Burgess lavorano, i quali hanno sostenuto esattamente la visione opposta, dicendo che “ciò che è più urgentemente necessario… è un’estensione del forte braccio della legge a protezione dei lavoratori oppressi nelle difficili trattative” (Webb and Webb 1902, p. xvii). I Webbs hanno sostenuto i salari minimi, il determinare un limite massimo delle ore lavorative, e un consistente aumento del potere dei lavoratori di contrapporsi per metter fine al parassitismo dei datori di lavoro, e spingendo per portare la “democrazia” nell’industria attraverso i sindacati e la contrattazione collettiva. E questo è quanto, per il progresso dell’ economia.
Bibliografia
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Servaas Storm è un economista e saggista olandese (Università di Delft); lavora nel campo della macroeconomia, del progresso tecnologico, della distribuzione del reddito & crescita economica, finanza, sviluppo e riforme strutturali e cambiamento climatico.