Facebook’s Follies

DAVID ROSEN – counterpunch.org

Incompetenza, cecità volontaria o voglia di profitto?

L’uccisione di 50 persone in due moschee a Christchurch, in Nuova Zelanda, il 15 marzo, ha nuovamente sollevato i mea culpa, nelle varie aziende che si occupano di social network, dei dirigenti di Facebook, YouTube e Twitter. Sono stati accusati di aver contribuito a facilitare la diffusione capillare dei video delle uccisioni.

Facebook ha diffuso in streaming il video di 17 minuti girato dall’assassino e, come riferito dal Guardian, lo ha tenuto online per 6 ore (e YouTube per 3 ore) dopo i massacri, per poi dichiarare di aver rimosso 1,5 milioni di copie del video della strage. La direttrice operativa della società, Sheryl Sandberg, ha affermato di aver identificato 900 diverse varianti del live streaming originale di Christchurch. Il Guardian ha anche riferito che alcuni siti hanno pubblicato tutte le 74 pagine del manifesto del killer.

Sulla scia delle crescenti critiche sul suo ruolo a sostegno della promozione degli attacchi alle moschee, l’amministratore delegato di Facebook, Mark Zuckerberg, ha pubblicato il 30 marzo un editoriale sul Washington Post dove ha sottolineato l’incapacità della società, e delle aziende che si occupano di tecnologia della comunicazione, di gestire sui social network il contenuto dedicato alla promozione dell’ideologia nazionalista e separatista bianca, che può sfociare in uccisioni di massa.

Mostrando tutta la sua disperazione di fronte alle continue critiche, Zuckerberg ha momentaneamente cambiato la sua, da lunga data, pro-libero mercato e anti-regolamentatoria attitudine e ha scritto:

Credo che i governi e gli organi regolatori debbano avere un ruolo più attivo. Aggiornando le regole di Internet, potremo preservare ciò che in esso vi è di migliore, la libertà per le persone di esprimersi e per gli imprenditori di costruire cose nuove, proteggendo al contempo la società da danni maggiori.

Da quello che ho imparato, credo che abbiamo bisogno di una nuova regolamentazione in quattro aree: contenuti dannosi, integrità elettorale, privacy e portabilità dei dati.

Annaspando su come rispondere ad un sistema fuori controllo, Zuckerberg lancia idee a raffica, sperando che qualcuna funzioni. Chiede la creazione di una “corte suprema”indipendente per la supervisione dei contenuti e per l’adozione globale di un regolamento generale sulla protezione dei dati sul tipo di quello europeo. Il 27 marzo, la società ha posto il divieto di “lode, supporto e rappresentazione del nazionalismo e del separatismo bianco su Facebook e Instagram”.

Molti sono rimasti scioccati, dopo gli omicidi di massa di Christchurch, dal modo in cui Facebook ed altri siti di social network avevano celebrato gli eventi. Purtroppo, è probabile che non saranno queste le ultime uccisioni che verranno facilitate da un atteggiamento del genere.

La cosa è stata dimenticata dai media ma, un anno fa, nell’aprile 2018, Zuckerberg era apparso davanti al Congresso degli Stati Uniti sulla scia delle rivelazioni secondo cui a 87 milioni di utenti di Facebook sarebbe stato violato il diritto alla privacy. Scortato dalla sua squadra di lobbisti da 12 milioni di dollari, l’imbarazzatissimo miliardario aveva placato i legislatori con una serie di nobilissime ciance tecnologiche.

“Facebook è un’azienda idealista ed ottimista. Per la maggior parte della nostra esistenza, ci siamo concentrati su tutto il bene che può fare la connessione tra le persone”, aveva detto Zuckerberg. Aveva poi continuato, “non basta solo connettere le persone, dobbiamo assicurarci che le connessioni siano positive. Non basta solo dare alle persone una voce, dobbiamo assicurarci che le persone non la usino per ferire altre persone o per diffondere disinformazione.”

Zuckerberg poi aveva ammesso che non sarebbe cambiato quasi nulla, quando aveva affermato che “ci vorrà del tempo per mettere a punto tutti i cambiamenti che dobbiamo apportare, ma mi impegno a farlo nel modo giusto”. Un anno dopo, è rimasto di stucco davanti all’orrore di Christchurch.

Ma non era questo lo stesso atteggiamento meravigliato di Zuckerberg, otto mesi prima della sua apparizione davanti al Congresso, quando la sommossa e l’omicidio erano avvenuti sulla scia della manifestazione di Charlottesville, VA, “Unite the Right,” nell’agosto 2017? Allora aveva scritto, “non c’è posto per l’odio nella nostra comunità”. Aveva poi aggiunto, “è per questo che abbiamo sempre rimosso qualsiasi post che promuovesse o celebrasse crimini di odio o atti di terrorismo, incluso quello che è successo a Charlottesville”. Facebook, Twitter, Spotify, Squarespace, PayPal, GoDaddy, YouTube ed altre reti online avevano affermato di aver sospeso centinaia di utenti associati all’estrema destra.

L’Amministratore Delegato di Facebook aveva rifiutato di ammettere che il Southern Poverty Law Center gli aveva fornito un elenco di ‘gruppi di odio’ e che, come riportato dal Guardian, nel luglio 2017 “almeno 175 di questi link erano ancora attivi”.

Questi sono solo alcuni dei sempre più numerosi e discutibili episodi in cui Facebook si è trovato coinvolto negli ultimi due anni e che hanno avuto conseguenze molto preoccupanti, che la compagnia ha sempre fatto finta di non vedere. Nel 2018, il New York Times aveva divulgato la notizia secondo cui l’azienda aveva assorbito una società che effettuava indagini sui rappresentanti del Partito Repubblicano, la Definers Public Affairs, per screditare le organizzazioni di attivisti, in particolare Colour of Change che fa parte della coalizione Freedom From Facebook, e il filantropo “liberale” George Soros e la sua Open Society Foundations. Zuckerberg aveva negato qualsiasi conoscenza di una tale strategia, affermando di “averlo saputo leggendo ieri il New York Times. E poi c’è stato il ruolo di Facebook nel promuovere “false notizie” durante la campagna elettorale presidenziale del 2016, il Russia-Gate e lo scandalo Cambridge-Analytica, quest’ultimo ancora sulla scena.

Altrettanto preoccupante il fatto che, nel febbraio 2018, come riportato dal Times, un ragazzo di 19 anni che aveva confessato gli omicidi alla Marjory Stoneman Douglas High School di Parkland, Florida, avesse due account su Instagram, una sussidiaria di Facebook. I compagni di classe avevano detto che gli armadietti dell’assassino erano pieni di immagini di armi, così come i cappellini e le bandane che indossava a scuola. L’assassino avrebbe scritto di odiare “ebrei, negri, immigrati” e avrebbe parlato di uccidere i Messicani, di tenere i neri in catene e di tagliare loro la gola.

Facebook e gli altri servizi di social network si trovano in una condizione tipicamente americana: sono aziende private che possono distribuire (quasi) qualsiasi tipo di contenuto, a condizione che lo desiderino o finchè pensano di poterne ricavarne denaro. Non sono reti di telecomunicazioni, ma piattaforme per la distribuzione di contenuti; sono più simili ad Amazon e a Walmart, aggregatori di prodotti, piuttosto che a strade o parcheggi che ne facilitano il trasporto. Pertanto, le piattaforme online non devono necessariamente rispettare i (comunque blandi) requisiti di neutralità della rete. Devono quindi rispettare ben pochi regolamenti federali, sono liberi di perseguire l’antica arte della diffamazione pubblica.

Queste società sono disciplinate dal Communications Decency Act (CDA), adottato nel 1996, e, in particolare, dal paragrafo 230. Questo protegge gli operatori di piattaforme online da denunce per diffamazione e da qualsiasi responsabilità associata ai contenuti generati dagli utenti. Lo statuto recita: “Nessun fornitore o utente di un servizio interattivo computerizzato sarà considerato l’editore o il relatore di qualsiasi informazione fornita da un altro fornitore di contenuti”. La Electronic Frontier Foundation (EFF) avverte, “Sebbene ci siano importanti eccezioni per alcune rivendicazioni basate su proprietà criminali ed intellettuali, il CDA, paragrafo 230, fornisce un’ampia protezione, che ha permesso all’innovazione e alla libertà di espressione online di prosperare”.

Nell’aprile 2018, il presidente Trump aveva firmato un atto che modificava il paragrafo 230.[Questa modifica] combinava l’Atto del Senato che consentiva agli stati e alle vittime di combattere il mercato del sesso online (FOSTA) con la legge del Congresso per la repressione della prostituzione (SESTA). Era un provvedimento apparentemente mirato a colpire il mercato della prostituzione, ma, in realtà, intendeva criminalizzare ulteriormente tutte le forme di prestazioni sessuali a scopo commerciale. Il Dipartimento di Giustizia aveva unificato lo sfruttamento della prostituzione con il lavoro sessuale, nel tentativo, riuscito, di chiudere il sito web backstage.com.

Facebook è in caduta libera e la cosa riflette le contraddizioni fondamentali del capitalismo postmoderno. È una società privata che fornisce un servizio sociale, è un’azienda degli Stati Uniti in un’economia sempre più globalizzata ed è impegnata a massimizzare i profitti.

The Intercept ha portato a termine un’operazione riservata, che ha esposto in modo chiaro e netto questa contraddizione. Ha usato il termine “teoria cospiratoria del genocidio bianco” come criterio per un “targeting particolareggiato” predefinito e ha pubblicato due articoli indirizzati a 168.000 utenti di Facebook. Questi erano stati selezionati come “persone che avevano espresso interesse o favore verso pagine relative alla teoria del complotto sul genocidio bianco”. L’esperimento ha dimostrato che la promozione a pagamento era stata approvata dalla sezione pubblicitaria di Facebook. L’articolo [su The Intercept] termina informando i lettori che “dopo aver contattato l’azienda per un commento, Facebook aveva prontamente eliminato la categoria targettizata, si era scusata e aveva detto che, in primo luogo, [questa categoria] non avrebbe mai neanche dovuto esistere”.

Incompetenza, cecità ostinata o volontà di profitto? Scegliete voi.

David Rosen

Fonte: counterpunch.org
Link: https://www.counterpunch.org/2019/04/05/facebooks-follies/
05.04.2019

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