Ho deciso di riprendere lo strumento di scuola di dottrina sociale che -in modo lungimirante – sta fornendo l’Osservatorio Van Thuan e Nuova Bussola Quotidiana. Ritengo che l’impostazione di risposta che sta dando alla confusione e divisione attuale che caratterizza il mondo cosiddetto moderno -ovvero la comprensione del ”cosa”, sia il modo più proficuo per una reale comprensione dei nostri tempi e per poi decidere il ”come” porci.
[su_icon_text icon=”icon: spinner”]patrizio ricci @vietatoparlare.it[/su_icon_text]
Autore di numerosi saggi sui risvolti sociali e politici della teologia, nelle Lezioni di dottrina sociale della Chiesa (Cantagalli editore, 2018, 148 pagine) l’arcivescovo Giampaolo Crepaldi, vescovo di Trieste e presidente dell’Osservatorio internazionale sulla Dottrina sociale della Chiesa, ci offre una magistrale sintesi di tale dottrina, intrecciata con un lavoro ermeneutico che ne mostra le potenzialità non pienamente considerate dagli studiosi, ecclesiastici o laici, e quindi parzialmente inespresse.
Accanto a una sistematizzazione del metodo e dei fondamenti, il valore principale di questo libro risiede appunto nell’interpretazione delle implicazioni politiche della dottrina sociale, sempre in conformità con quello che Crepaldi chiama “il deposito della fede”, quel patrimonio cioè formato e fissato da Scrittura, Tradizione e Magistero.
Rivelando una vasta conoscenza delle strutture filosofiche e sociologiche della modernità, ispirandosi ai grandi dottori antichi della Chiesa e ai princìpi enunciati da San Giovanni Paolo II (in particolare nell’encliclica Centesimus annus) e da Benedetto XVI (il riferimento principale è all’enciclica Caritas in veritate), Crepaldi ha il coraggio, rimarchevole soprattutto nel momento di grave confusione che sta vivendo oggi la Chiesa, di toccare i punti fondamentali della vita sociale in generale e di quella occidentale (o europea) in special modo.
Cristianesimo e capitalismo
Uno dei molti pregi di questa accurata opera di ricostruzione e rielaborazione teorica consiste infatti nella esplicitazione del rapporto fra la dottrina cristiana e il sistema socio-economico occidentale, fra Cristianesimo e capitalismo. In controtendenza rispetto a recenti accelerazioni che, anche all’interno della Chiesa, spingono verso una critica radicale del nostro sistema economico e verso una (piuttosto fumosa ma non poco inquietante) prospettiva di redistribuzione della ricchezza, l’arcivescovo triestino, in piena sintonia con le tesi di San Tommaso sul rapporto della fede con i beni materiali, precisa in forma teorico-teologica il nesso con il mondo della produzione, in tutti i suoi aspetti.
Egli pone mano a una materia che, per le sue sfumature etiche, dev’essere trattata con estrema cautela, e lo fa con un’accuratezza e un equilibrio esemplari. La sua riflessione getta, indirettamente ma efficacemente, luce su alcune zone grigie che attraversano l’attuale magistero sociale di Papa Bergoglio e che lo rendono oscuro a gran parte dei cristiani occidentali, che ne sono scossi e disorientati.
In particolare, esaminando la cosiddetta opzione preferenziale per i poveri, partita dalla teologia della liberazione e fatta propria dall’episcopato latinoamericano, della quale Bergoglio ha fatto uno dei perni teorici del suo pontificato, Crepaldi elabora una proposta che contiene impliciti riferimenti alla nostra attualità politica: “I poveri sono i deboli della società e quindi il potere politico deve pensare in modo particolare a loro”, però “questo deve avvenire in modo indiretto piuttosto che diretto, secondo una solidarietà sussidiaria, evitando forme di assistenzialismo e cercando di mettere in moto la responsabilità individuale, familiare e dei gruppi sociali”. La sussidiarietà non ha nulla a che vedere con il sussidio garantito, bensì suscita in ciascuno e a ciascun livello, a cascata, il senso di responsabilità attivo e produttivo. In questo senso la povertà si supera sia con il lavoro sia con la coscienza della produttività, che sono le due condizioni di possibilità per qualsiasi benessere sociale, in una circolarità virtuosa fra dimensione materiale e sfera spirituale.
Il lavoro dunque, l’operosità, è uno dei pilastri concettuali su cui si erige la dottrina sociale. Nella Centesimus annus, Giovanni Paolo II aveva già fissato la cornice teorica, che il pauperismo latinoamericano ha ora scardinato: il rapporto dell’uomo con la terra è determinato dal lavoro, perché, sosteneva il Papa polacco, “è mediante il lavoro che l’uomo, usando la sua intelligenza e la sua libertà, riesce a dominarla e ne fa la sua degna dimora. In tal modo egli fa propria una parte della terra, che appunto si è acquistata con il lavoro. È qui l’origine della proprietà individuale”.
Se confrontiamo queste proposizioni di San Giovanni Paolo II con le recenti tesi di Papa Bergoglio sulla necessità di una qualche forma di collettivizzazione delle risorse (e quindi della produzione), possiamo misurare tutta la torsione che quest’ultimo ha impresso alla dottrina sociale in tema di lavoro e proprietà. La “destinazione universale dei beni” riguarda infatti l’assegnazione che Dio ha fatto all’umanità, ma non ha nulla a che fare con la redistribuzione forzata dei beni che ciascuno si è acquistato con il proprio lavoro, alla quale sembra spesso alludere la teoria bergogliana del diritto universale a “terra, tetto e lavoro”.
“Lo scopo del lavoro è la proprietà privata”
Inserendosi perfettamente nella linea che era stata tracciata già nel 1891 da papa Leone XIII con la Rerum Novarum, l’enciclica che fondò appunto la dottrina sociale e nella quale veniva affermato che “lo scopo del lavoro è la proprietà privata”, Crepaldi porta il concetto del “diritto naturale alla proprietà privata” a un punto di massima elevazione etica e di grande attualità, anche politica.
I cattolici europei hanno da sempre viva la coscienza della proprietà (basti solo pensare ai contadini, dotati di quello che Sandro Fontana chiamava elogiativamente “l’istinto proprietario”), perché la loro vicenda è una storia di libertà ovvero di ricerca della libertà nella società borghese e non contro di essa. Questo legame di reciprocità essenziale è stato svalutato o addirittura negato da chi coniuga fede religiosa cristiana e teoria marxista della società, ma si tratta di una forzatura ideologica che disconosce la verità storica dell’Occidente, la quale mostra che la civiltà europea, anche nelle sue strutture economiche, è sorta in simbiosi con la religione cristiana e con il cattolicesimo che di essa è la pars magna: il sistema delle libertà civili si alimenta nello spirito dal sistema religioso ebraico-cristiano, il quale a sua volta viene difeso e assicurato sul piano storico-sociale concreto dall’azione protettrice svolta dal primo. La libertà religiosa viene quindi protetta dalla libertà politica e, anche, da quella economica, il cui principio fondamentale è appunto quello della proprietà.
Su questo nodo cruciale della civiltà occidentale, Crepaldi non ha esitazioni: tutte le risorse, quelle materiali e quelle spirituali, le risorse naturali e le doti intellettuali, devono essere valorizzate, e “il modo per metterle a frutto è il lavoro, il quale legittima la proprietà privata”. La redistribuzione della ricchezza è una falsificazione ideologica dello spirito cristiano, perché “i beni non sono dati a tutti in fettine uguali, ma sono messi a disposizione di tutti perché tutti vi abbiano accesso con il proprio lavoro, accedendo così alla proprietà privata”.
E quindi, conclude Crepaldi, il sistema proprietario come sistema non solo economico ma anche culturale è perfettamente organico con il paradigma teologico ed etico del Cristianesimo, perché in tale sistema i talenti che Dio ha assegnato a ciascun uomo possono essere sviluppati individualmente secondo le capacità e il senso di responsabilità di ciascuno.
Perciò “la diffusione della proprietà privata è il modo corretto con cui realizzare la destinazione universale dei beni”, perché destinazione non significa ripartizione egualitaria, bensì crescita della ricchezza generale grazie all’iniziativa individuale. E infine Crepaldi tocca il nervo scoperto dello statalismo: la messa a frutto dei talenti non deve essere inquinata da interventi extrapersonali e quindi “la soluzione non sta nel concentramento nello Stato e nella sua distribuzione, ma nel favorire la partecipazione, tramite il lavoro, alla produzione della piccola proprietà privata”. Solo così si può mirare al bene comune, ad arricchire non solo materialmente ma pure, e soprattutto, spiritualmente la società, la nazione.
Bene comune e logica imprenditoriale
Il bene comune infatti esprime in primo luogo “l’ordine naturale delle cose”, e a differenza del “progressismo”, secondo cui “la costruzione del futuro passa attraverso il rifiuto di un ordine naturale dato”, la visione cattolica concepisce il futuro a partire dalla tradizione, la quale, come una forza motrice retrostante, ci fornisce la possibilità di procedere verso il futuro costruendolo sulle solide fondamenta del nostro passato. Nei cardini concettuali del bene comune, che sono l’analogicità (sussidiarietà) e la verticalità, si manifesta l’esigenza di rafforzare rispettivamente la prossimità fra le persone e la cura della trascendenza ovvero l’affermazione del fine trascendente ultimo, Dio, punto teleologico fisso in base al quale ordinare i fini dell’uomo nella società, poiché “se manca il fine ultimo, si destabilizzano anche i fini intermedi”.
Il bene comune è principalmente “un bene eticamente finalistico”, avversato dal pensiero anti-tradizionalista e anti-identitario, che disconosce non solo il ruolo della tradizione ma anche quello di una prospettiva teleologica dell’essere umano e delle società occidentali in particolare, e che vuole distruggere il rapporto fra ordine naturale e princìpi non negoziabili: “Se pensiamo a come oggi il progressismo voglia addirittura cambiare la natura umana, ci rendiamo conto come questa frattura tra fini e ordine naturale sia giunta a piena – e drammatica – maturazione”.
Pur non equivalendo al benessere materiale, sul piano sociale concreto il bene comune dev’essere conseguito non solo con la riflessione sul piano spirituale e morale, ma anche con l’azione su quello economico, e quindi secondo il criterio dell’impegno per la produttività, che come abbiamo visto è la declinazione economica della responsabilità etica. Anche su questo punto Crepaldi è limpido: la logica imprenditoriale “va applicata ad una impresa privata, come a una del terzo settore, come a una di proprietà statale”, e se “il titolare di una impresa privata agirà diversamente dal presidente di una cooperativa o dal dirigente di una partecipata statale”, perché tali realtà produttive hanno caratteristiche specifiche che le differenziano l’una dall’altra, tutti costoro dovranno agire “in modo ugualmente imprenditoriale”.
Qui, descrivendo la logica d’impresa, Crepaldi legittima, ancora una volta in sintonia con San Tommaso, il profitto, quel nodo che molti teologi anche contemporanei non hanno risolto e, anzi, respingono come un male.
La Chiesa e l’economia di mercato
Di conseguenza, bisogna affermare che la dottrina sociale della Chiesa non rifiuta l’economia di mercato, come invece l’orientamento vaticano di questi ultimi tempi sembra sostenere, ma al contrario ne accoglie il valore per la crescita della società, affermando la necessità di una scelta generale di campo nel quale situarsi. Pur ribadendo l’esigenza di porre sempre l’uomo (la persona) al centro dell’agire economico e l’idea della trascendenza divina come fine spirituale, la dottrina sociale dichiara che il sistema di mercato non è un avversario della fede cristiana e della Chiesa stessa, bensì è un suo alleato, perché “non è l’economia a produrre la povertà e non è la povertà economica a produrre la povertà morale, ma il contrario: la povertà morale produce povertà materiale e quindi mette in crisi l’economia”.
Intaccare il principio della proprietà privata, che secondo Leone XIII è “un diritto naturale” ed “è sancita dalle leggi umane e divine” è la premessa della dissoluzione dell’intero impianto della società umana. Infatti, come stabilisce la Rerum novarum, “i socialisti, attizzando nei poveri l’odio ai ricchi, pretendono si debba abolire la proprietà, e far di tutti i particolari patrimoni un patrimonio comune, da amministrarsi per mezzo del municipio e dello Stato. Con questa trasformazione della proprietà da personale in collettiva, e con l’eguale distribuzione degli utili e degli agi tra i cittadini, credono che il male sia radicalmente riparato. Ma questa via, non che risolvere le contese, non fa che danneggiare gli stessi operai, ed è inoltre ingiusta per molti motivi, giacché manomette i diritti dei legittimi proprietari, altera le competenze degli uffici dello Stato, e scompiglia tutto l’ordine sociale”.
Fra i princìpi non negoziabili è incluso dunque, come l’arcivescovo Crepaldi sottolinea con piena legittimità teologica e morale, anche quello della proprietà privata, con il connesso corollario della sua necessità e della sua intangibilità, a dimostrazione che la dottrina sociale della Chiesa, da un lato, contiene principi che sono in stretta sintonia con il liberalismo non progressista o di sinistra espresso, solo per citare una figura tra molte, da Lord Acton, e dall’altro lato è tanto distante dal socialismo nel senso pragmatico e specifico del termine quanto lo è dall’ideologia marxista in senso teorico e generale, a confutazione di qualsiasi tentativo, che venga dalla lontana America Latina o dall’epicentro della cristianità, di collegare due prospettive inconciliabili.
Renato Cristin
(da: opinione.it)
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