Verità, bene comune, libertà. Articolo di Riccardo Zenobi

Il riferimento al “bene comune” è una costante nella Dottrina sociale della Chiesa e anche nel dibattito politico odierno compare spesso sulla bocca di eletti o candidati[1]. Vi sono però differenze sostanziali tra il riferimento che ne fa la Chiesa e quello che ne fa la politica; in essa il bene comune viene inteso in senso ideologico e totalmente sganciato non solo dalla prospettiva religiosa, ma anche da ogni riferimento ad una verità esterna alle idee dei vari partiti, ognuno dei quali ha in fondo un concetto privato di bene comune, il quale rischia di trasformarsi in un male comune, evocato solo a difesa dei propri interessi (politici, di gruppo, etc.).

La parola che monopolizza il discorso politico attuale – almeno nella versione mediatica – è “diritto”, termine declinato in tutti i modi possibili, dal “diritto alla legittima difesa” al “diritto degli immigrati di sbarcare in Italia”, fino allo ius soli come diritto. L’uso di tale terminologia porta degli indubbi vantaggi a livello retorico: chiunque sia contrario ad un qualsiasi diritto diventa all’istante un mostro, specie se contesta diritti altrui – “a te cosa cambia?” è sempre sulla bocca degli attivisti di qualsiasi tipo.

Fare un frequente riferimento ai “diritti” è un ottimo espediente per non discutere, poiché mentre è sempre discutibile quale bene la società debba perseguire, in quanto ciò che è bene per qualcuno può non essere visto come tale da un altro, di fronte ai diritti veri o presunti di una minoranza “oppressa” non si può discutere senza partire con la nomea del mostro oppressore. Questa è una prima notevole differenza che si ha se si tornasse a mettere il bene comune al centro del dibattito politico: ogni persona ha delle idee su ciò che rappresenta un bene per sé e per il proprio gruppo di riferimento, per quanto ognuno sia fallibile nel proprio giudizio. In tal modo mettere in discussione un bene particolare di un semplice gruppo in nome di un bene più generale riguardante un settore più ampio della popolazione non porta alcun pregiudizio su chi propone la critica – cosa che il dibattito attuale sui diritti delle minoranze non rende possibile.

Quanto detto rende evidente una caratteristica peculiare al discorso incentrato sui “diritti”: in ultima analisi, questi ultimi rimandano solo a sé stessi e al bene particolare del gruppo di riferimento, mentre non hanno alcun fondamento o rilevanza al di fuori. Ciò è risultato palese nella parabola dei moderni movimenti di attivismo per i diritti: sono iniziati con un riferimento alla propria libertà per non essere socialmente condannati, passando poi a chiedere che la loro condotta e identità fosse equiparate alle altre, finendo col vietare le critiche alle proprie idee, identificandole come “hate speech[2].

Tale dinamica può sembrare contraddittoria e far chiedere come sia possibile che partendo dalla richiesta di libertà per un gruppo si sia giunti al chiudere la bocca agli altri gruppi; ma la contraddizione è solo apparente, e persiste unicamente se il discorso rimane legato alla “libertà d’opinione”. Se la libertà è il fondamento della società (vedi i famosi slogan dell’89) ogni critica alla libertà è liberticida e quindi non si può criticare nessun utilizzo della libertà[3], da ciò la richiesta di censurare l’altrui critica verso il proprio utilizzo della libertà. Tale contraddizione è inevitabile se il discorso resta si apre e si chiude nell’orizzonte della libertà assurta ad assoluto, ma viene del tutto evitato se la libertà afferisce a qualcosa di superiore: il bene/vero/giusto.

Non è infatti possibile evitare la contraddizione precedente ricorrendo alla “libertà di parola” perché in tal modo si avvia una dinamica identica, e alla fine l’affermarsi dell’una o dell’altra è solo questione di potere o di interesse personale. Ogni schieramento può rinfacciare all’altro di essere “intollerante” e “contro i diritti umani” se la libertà, la tolleranza e i diritti stessi si riducono a cose che rimandano a sé stesse. Non è un caso che il dibattito politico, tra riferimenti vari a bene comune e diritti civili/umani, ha portato la politica a ridursi ad un gioco di schieramenti e di potere che rimanda solo a sé stesso – in base a quanto esposto sopra, era del tutto logico e implicito nel ritenere fondativa la libertà.

Il solo modo per uscire da questa impasse si ottiene passando ad un livello qualitativamente superiore, capace di fondare ogni distinzione tra diritto e non diritto, libertà e preclusione: la fondamentale distinzione tra bene e male reale. Chiedersi cosa è vero e cosa no permette di definire cosa è bene e cosa non lo è, consentendo un discrimine tra ciò che si può accettare, ciò che si può tollerare e cosa non è consentito. La contraddizione esiste solo quando la tolleranza non si fonda su qualcosa di diverso da essa, riducendosi così ad una parola vuota sotto la quale ogni comportamento, idea o azione è indifferentemente accettata – così da svuotare di ogni significato la tolleranza stessa: se tutto è indifferente, come possono la libertà e la tolleranza essere un bene?

Se il discorso pubblico sul bene comune si agganciasse alla verità (in quanto tale superiore ad ogni partito ed ideologia) non solo si dipanerebbero le varie contraddizioni dovute al chiudersi nella retorica sui “diritti”, ma si donerebbe un fondamento e un contenuto oggettivo a ciò che è un vero diritto, preservandolo da ciò che è solo espressione di un interesse politico di parte; definiti in tal modo i contenuti del bene comune che si intende raggiungere e promuovere si determinano al contempo i contenuti del male da evitare e che non costituisce diritto – difatti se esistesse un diritto a compiere il male avremmo di fronte un diritto nocivo e fondato sul falso, quindi da considerare intollerabile per chiunque.

Definita la verità a cui fa riferimento un programma politico risulta più agevole discutere non solo i contenuti proposti, ma anche argomentare lo stesso fondamento da cui deriva tale visione del bene comune, perfino lo stesso manifesto del partito non in nome di una opinione differente o per via di un interesse personale, ma a causa di qualcosa di superiore, ossia la verità da cui discende ogni idea di bene comune che si voglia perseguire. Valutare le dottrine politiche in base alla parte di verità che propongono e quale idea di bene comune intendono perseguire sarebbe un grande vantaggio per la scena politica contemporanea, nella quale il dibattito raramente va oltre lo slogan o promesse elettorali varie.

Una volta definito cosa si ritiene bene da perseguire e da istituire socialmente, il discorso sui diritti trova la sua naturale implicazione: il diritto è poter permettere a tutti di perseguire un dato bene, mentre tutto ciò che si frappone tra l’uomo, il gruppo o la società civile, facendo da ostacolo all’ottenimento di quel bene, è un male. Questo modo di ragionare potrà sembrare inusuale, ma è sottinteso allo stesso discorso sui vari diritti civili: poiché nessun gruppo può tollerare ciò che ritiene essere un male o nocivo ai suoi interessi, tale movimento sta proponendo (o imponendo) la sua visione di “bene”, chiamando “diritto” ciò che costituisce un male qualora venisse loro negato; da ciò è palese che hanno una visione propria di “bene comune”.

Perché dunque non incentrare il discorso su tale idea di bene/male che i vari diritti comportano e discutere la visione della realtà sulla quale si fondano? Gli unici motivi sono gli interessi mediatici legati alla legittimazione della critica verso certe ideologie, poiché mettere in discussione un diritto è quasi improponibile, mentre sulla bontà o meno di qualcosa è più agevole discutere e proporre i propri interessi.

Se i fautori dei “nuovi diritti civili” ritengono che il loro discorso sia del tutto avulso da questioni di bene/male si illudono: se così fosse tali diritti non sarebbero un bene e la loro negazione o preclusione non costituirebbe un male; cosa che però non viene ammessa da chi invece invoca la censura alle critiche. Se la negazione di un diritto è un male si sta implicitamente affermando che è una questione di bene/male, e di far valere un bene sulla società. L’ultimo passo di tale ragionamento consiste nel capire che è impossibile non fare riferimento ad una verità verso la quale si hanno degli obblighi sia a livello sociale che personale.

Per quanto possa sembrare paradossale, è l’approdo necessario di ogni speculazione sulla società: poiché il riferimento al bene/male è inevitabile, ed essendo questi dei perfezionatori della persona e della società, si fa riferimento a qualcosa di ulteriore rispetto la realtà attuale, a qualcosa di progettuale e ad un fine da raggiungere, intorno al quale costruire e formare la convivenza umana.

Ogni libertà fa riferimento al bene che si vuole proporre, in quanto rappresenta una permissione di qualche azione o modo di essere che vuole essere socialmente accettato. Poiché i diritti e le libertà non finiscono in sé stessi ma hanno ripercussioni (a volte enormi) sulla realtà sociale, il discorso politico non può rimanere chiuso nella gara “chi afferma più diritti”, ma deve spostarsi ad un livello ulteriore. L’uomo ha diritto al bene e alla verità, ogni essere umano ha diritto di accedere e di fruire di essi e di vivere in una società che permetta e faciliti l’accesso a tale bene e al proprio perfezionamento personale. La società ha dunque degli obblighi verso il bene e il vero, il cui mancato adempimento la rendono in qualche misura malvagia verso i suoi componenti, ai quali tale accesso viene precluso.

È questo il male originale della nostra società: mettere sullo stesso livello vero e falso, ritenendoli indifferenti e secondari rispetto alla “libertà” e ai “diritti”. Ma un diritto fondato sul falso è un falso diritto, che comporta un falso obbligo sociale e personale al suo riconoscimento. Ogni vero diritto implica l’obbligo di non impedirne la fruizione agli altri, ma se tutto rimane chiuso nel livello puramente individuale nessuno ha obblighi verso nessuno, così ognuno può decidere di concedere o meno un diritto o di tollerare o meno una condotta.

In tal modo non si fonda alcuna colpevolezza, perché non c’è alcuna mancanza verso un bene, dato che i diritti non fanno riferimento ad alcun bene (comune o individuale). Per cui, o si riconosce e accetta una verità ed un bene comune con i vari doveri umani e sociali verso di essi il cui mancato adempimento è un male, oppure diritti e doveri sono solo vuote parole, contrattualistici giochi di potere in mano a chi governa, senza che nessuno renda conto a nessuno del proprio agire e delle decisioni che prende.

Riccardo Zenobi

 

[1] Hanno parlato di “bene comune”, ad esempio, Sergio Mattarella, Luigi di Maio, Nicola Zingaretti, Matteo Renzi, Emma Bonino, Bruno Tabacci, Silvio Berlusconi.

[2] “Incitamento all’odio”. Espressione inglese composta da hate (‘odio’) e speech (‘discorso’).

[3] Ciò implica che l’idea stessa di “libertà assoluta” è contraddittoria: se ognuno può fare ciò che vuole nessuno può essere criticato, e quindi nessuno ha la libertà di criticare qualunque condotta.

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