Signor ministro Lamorgese, se non è un’invasione che cos’è?

di Francesco Lamendola – 13/09/2019

Fonte: Accademia nuova Italia

Mentre prosegue il pressing delle navi delle varie O.N.G. attorno a Lampedusa, il nuovo ministro degli Interni, Luciana Lamorgese, già capo di gabinetto di Angelino Alfano (a volte ritornano…), ha detto, per salvare la faccia e vista l’impossibilità di una inversione di centottanta gradi in ventiquattro ore, che i porti, per adesso, restano chiusi, ma che verso i migranti verrà usata una maggiore “umanità”. Non comprendiamo bene – sarà un nostro limite – in che cosa il precedente governo abbia dimostrato scarsa umanità nei loro confronti: ci risulta che tutti i minorenni, tutte le donne in stato interessante, tutte le persone con qualsiasi problema di salute sono state fatte sbarcare senz’altro; gli altri, hanno subito il terribile oltraggio di aspettare alcuni giorni fuori del porto, fino a quando la Carola di turno (che ora si prende la rivincita querelando l’ex ministro Salvini) non li ha fatti sbarcare a viva forza, magari speronando una imbarcazione della Guardia di Finanza e mettendo in pericolo l’incolumità degli uomini in uniforme.

Tuttavia appare chiaro, dal fatto che la primissima mossa del neogoverno giallo-fucsia, quasi ancora prima di giurare fedeltà alla Repubblica (di Pulcinella) è stata l’annuncio di avere impugnato le leggi sull’immigrazione adottate dalla regione Friuli Venezia Giulia, perché “discriminatorie” nei confronti, appunto, dei migranti (cioè discriminatorie non verso dei cittadini regolarmente recensiti ma verso dei clandestini che non si sa neppure chi siano e con quali intenzioni pretendano d’entrare illegalmente nel nostro territorio) quale sia la filosofia sottesa alla nuova linea politica verso l’immigrazione clandestina. Filosofia riassunta mirabilmente, si fa per dire, dal ministro Lamorgese, nell’affermazione che d’ora in poi ogni singolo caso sarà valutato in sé e per sé, d’intesa con il premier Conte, partendo dal presupposto che l’Italia non sta subendo alcuna invasione. Ecco, il punto è proprio questo: il fatto che il medesimo fatto viene giudicato dai politici della sinistra con un metro talmente diverso da quello usato dalla stragrande maggioranza degli italiani – come è provato dal massiccio sostegno popolare al Decreto Sicurezza Bis dell’ormai defunto governo Conte 1 – da far pensare che non si tratti nemmeno dello stesso fatto. Signor ministro, se quella che sta subendo l’Italia ormai da una trentina d’anni, prima dall’Albania, poi da altri Paesi dell’est e infine dall’Africa e dal Medio Oriente, non è un’invasione, allora che cos’è? Come la chiama lei? Che cos’è un’invasione secondo lei e secondo i membri del governo di cui lei fa parte?

Partiamo dal presupposto che la lingua italiana, come del resto ogni altra lingua, non esprime una corrispondenza fra parole e concetti tanto precisa quanto le scienze matematiche, e tuttavia che essa è suscettibile di fornire definizioni ampiamente condivise; che non è stata inventata artificialmente da qualche azzeccagarbugli per confondere le idee all’interlocutore; ma che, al contrario, è stata affinata dall’uso di tante generazioni affinché gli uomini si comprendano vicendevolmente e si comprendano sempre meglio.

Prendiamo allora il vocabolario Treccani e vediamo quale definizione dà della parola “invasione”: invaṡióne s. f. [dal lat. tardo invasio -onis, der. di invadĕre «invadere»]. – 1. a. Ingresso nel territorio di uno stato da parte delle forze armate di uno stato belligerante, per compiervi operazioni belliche, con o senza l’intenzione di occuparlo stabilmente: l’i. della Polonia, nella 2a guerra mondiale; fare, tentare un’i.; respingere un’invasione. b. Con riferimento soprattutto alla storia medievale, la penetrazione in un territorio di popoli che migrano in cerca di nuove sedi: le i. barbariche; l’i. degli Unni, o di Attila; l’i. della Spagna da parte dei Vandali; l’i.longobarda, in Italia. c. Irruzione violenta o arbitraria di persone in un luogo: i. di aziende agricole o industriali, considerata come reato contro la pubblica economia; i. di terreni o edifici altrui (pubblici o privati), considerata reato contro il patrimonio, quando sia fatta con lo scopo di occuparli o di trarne altrimenti profitto; scherz.: ma questa è un’i., quando molte persone, per lo più amiche, entrano inaspettatamente tutte insieme in un luogo. In giochi a squadra, e soprattutto nel calcio, i. del (o di) campo, irruzione degli spettatori sul terreno di gioco durante o alla fine di una partita, per protesta; i. pacifica, quella effettuata per entusiastica acclamazione dei giocatori della propria squadra. d. Nella pallavolo, sconfinamento di un giocatore (o di una parte del suo corpo) nel campo di gioco avversario durante lo svolgimento di un’azione. 2. a. In relazione ai sign. estens. e fig. di invadere, di qualsiasi cosa che irrompa in un luogo occupandolo o diffondendovisi in gran quantità: un’i. di cavallette, di topi; arginare l’i. delle acque; l’i. del morbo, di un’epidemia; c’è un’i.di prodotti (o anche di cantanti) stranieri, di film polizieschi, di fumetti pornografici. Raro col senso di usurpazione, ingerenza arbitraria e sim.: i. di un potere, di un diritto; l’i. del sentimento nel dominio della ragione. b. In patologia, la diffusione nell’organismo di agenti infettivi o di cellule tumorali (i. metastatica). In partic., nel decorso di alcune malattie infettive, periodo d’i., quello caratterizzato da febbre, comparsa più o meno brusca dei sintomi caratteristici, ed eventualmente positività dell’emocoltura.

 E dunque, o noi non conosciamo la lingua italiana e la adoperiamo malissimo, in senso del tutto improprio, e inoltre non sappiamo riconoscere i fatti che accadono sotto i nostri occhi e che ci toccano più da vicino, non sappiamo ragionare, non sappiamo comprenderli, oppure ci sembra che il secondo significato descriva perfettamente ciò che sta accadendo, da circa tre decenni, sulle coste e lungo i confini terrestri del nostro Paese. Un’invasione è la penetrazione in un territorio di popoli che migrano in cerca di nuove sedi; e non è detto che debba avvenire manu militari.

A noi sembra che si possa e si debba definire “invasione” uno spostamento di popolazioni (perché, sommando il numero degli sbarchi e degli sconfinamento quotidiani, si arriva al valore di centinaia di migliaia, più i milioni d’immigrati “regolari”: cioè d’intere popolazioni) al quale non sia possibile opporsi. In questo caso, ciò che rende impossibile il rifiuto d’ingresso a chi giunge illegalmente nel territorio della nostra Patria è il carattere di emergenza umanitaria: difficile negare lo sbarco a persone che giungono in vicinanza dei nostri porti a bordo di canotti o imbarcazioni di fortuna; difficile anche se vi giungono comodamene traghettati dalle navi delle o.n.g., il cui medico di bordo non esita a compilare falsi certificati medici attestanti gravi patologie, per affrettare lo sbarco di persone che, visitate dal medico a terra, risultano perfettamente sane. Vi sono casi assolutamente documentati in proposito: perché sappiano, i signori buonisti in pantofole, che abbiamo a che fare con gente senza scrupoli, disposta a sfruttare il naturale senso di solidarietà e umana compassione per prendere per i fondelli sia il personale sanitario dei centri di accoglienza, sia l’intera opinione pubblica italiana, alla quale vengono rifilate commoventi narrazioni di emergenze sanitarie che in realtà non esistono.

Inoltre, assurdi trattati internazionali, che andrebbero totalmente riscritti, assicurano tutti i diritti a queste persone che si fingono naufraghi e si fingono profughi, ma il cui vero obiettivo è stabilirsi definitivamente in un Paese non loro, costringendo la popolazione locale ad accettarli, e le autorità statali a regolarizzarli, anche se è evidente che un vero naufrago si accontenta di essere salvato dal mare e poi aiutato a fare ritorno a casa sua, e che un vero profugo è animato dallo stesso identico desiderio: ritornare a casa propria il più presto possibile, non appena si siano attenuate le circostanze eccezionali che l’hanno costretto a cercar rifugio all’estero. Rifugio nel più vicino Paese oltre le proprie frontiere: non in uno di sua scelta, preso di mira con protervia e scartando ogni soluzione alternativa, come quella di esser fatto sbarcare in un porto più vicino e assolutamente sicuro, come è il caso dei porti della Tunisia, geograficamente più vicini alla Tripolitania di quanto non lo siano le piccole isole italiane poste nel Canale di Sicilia, o addirittura le coste della Sicilia stessa.

Ora, come si deve chiamare una quotidiana penetrazione di stranieri, che si prolunga da anni, da decenni, e investe cifre dell’ordine di milioni; penetrazione alla quale non è possibile opporsi, sia per ragioni umanitarie, sia giuridiche (il soccorso in mare ai profughi e l’ospitalità dovuta ai rifugiati), anche se tutto si basa su una grossa menzogna neanche tanto ben dissimulata, perché ciascuno sa che non si tratta né di veri naufraghi, né di veri profughi, almeno nel 95% dei casi? A casa nostra una cosa del genere si chiama invasione; ma evidentemente a casa del ministro Lamorgese, del premier Conte e del signor Bergoglio ha un altro nome.

Abbiamo detto che il problema dell’invasione non riguarda solo i clandestini, ma anche gli stranieri regolari. Ebbene sì: bisogna che qualcuno lo dica. Non si tratta di razzismo e neppure di criminalizzare tutte quelle persone, la maggioranza delle quali, senza dubbio, si comporta bene, rispetta le leggi e non crea problemi alla società che le ospita. Ma il fatto è che sono troppe, decisamente troppe, e arrivate troppo in fretta: senza un piano economico e lavorativo, così, alla carlona, e senza alcuna selezione in base alla nazionalità, alla cultura, eccetera, in nome del politically correct e del dogma antirazzista: negando, in compenso, il diritto evidente di uno Stato di decidere chi entra in casa sua, in quanti entrano, perché entrano, per fare che cosa.

Invece, mentre viene presentata come emergenza una situazione che si protrae da circa trent’anni, nulla è stato fatto per stabilire delle quote, sia di provenienza dei rispettivi Paesi, sia di competenze lavorative e professionali. Di quante badanti ha bisogno la società italiana, per esempio, in questo momento storico? Si fa una stima, basandosi sui dati relativi all’età e alla struttura dei nuclei familiari dei cittadini italiani, e si stabilisce un “tetto”. Di quanti operai, di quanti lavoratori agricoli, di quanti commercianti l’Italia ha bisogno, o, per dir meglio – visto che di questi tempi lavoro non ce n’è neanche per gli italiani – quanti stranieri l’Italia può accogliere, sia pure con una certa fatica, sistemandoli dignitosamente in unità abitative convenienti, e ripartendoli nei vari settori lavorativi nei quali vi è una domanda? Invece si continua ad accogliere domande d’ingresso totalmente slegate dalle reali necessità e possibilità di assorbirli e d’integrarli: si fanno venire decine e centinaia i migliaia di persone che non trovano lavoro, che vivono di lavori precari, che perdono il lavoro, ad esempio perché le fabbriche in cui lavoravano sono fallite, ma non vengono rimpatriati, restano in Italia non si sa perché, a vendere fazzoletti di carta per le strade, nel migliore dei casi, se no a spacciare e rapinare.

E intanto s’intasano i servizi pubblici, particolarmente quelli sanitari; e si mandano giù per buone le balle colossali che dei personaggi come Tito Boeri rifilano all’opinione pubblica, ossia che è solo grazie alla presenza degli stranieri se lo Stato riesce ancora a pagare le pensioni ai lavoratori italiani. Senza pensare che quegli stranieri fanno dei figli, e ne fanno parecchi, e che fra un certo numero di anni lo Stato italiano dovrà pagare la pensione anche a loro: sì o no? Quanto al contingentamento della nazionalità, non c’è nulla di scandaloso: gli Stati Uniti, culla della democrazia, lo hanno sempre fatto.

Non si può permettere a milioni di africani islamici di stabilirsi permanentemente in Italia, per una ragione semplicissima, che non c’entra né col razzismo, né con l’intolleranza religiosa: ossia perché l’Italia ha una sua identità, una sua fisionomia, e quelle persone non sono minimamente intenzionate ad adattarsi, ad integrarsi, a fare propri i valori e gli stili di vita del nostro popolo. E dunque, a che titolo essi chiedono, anzi pretendono, di venire a stabilirsi in Italia? Per formare delle isole etniche, dei ghetti, come già avviene in tante città e regioni del Belgio e della Francia? Isole e ghetti che un po’ alla volta, grazie al loro forte incremento demografico, si espanderanno: e alla fine saranno gli italiani, gli ultimi, sempre più vecchi e sempre più deboli, a formare delle isole e dei ghetti, a malapena tollerati, finché non spariranno anch’essi, e una civiltà africana ed islamica si sarà stabilita per sempre nel nostro Paese, sulla terra dei nostri padri, sostituendo il popolo italiano e facendo con lui quel che fa il cuculo con i pulcini del nido in cui sceglie di stabilirsi: sloggiandoli e restando padroni del campo, al loro posto.

Noi non abbiamo nulla né contro l’Africa, né contro l’islam: ci permettiamo però di osservare che l’Africa e l’islam c’entrano poco con la civiltà italiana, così come si è costruita nel corso dei secoli e come essa si presenta al presente. Non c’è niente che giustifichi questa sostituzione di popoli, se non gli oscuri interessi dell’oligarchia finanziaria mondiale, che così ha deciso e così ha ordinato di fare agli uomini politici europei, sostenuti da una pletora di giornalisti e pseudo intellettuali i quali ripetono incessantemente le stesse frasi, gli stesi slogan fritti e rifritti: che non c’è alcuna invasione; che la società multietnica è una meraviglia; che siamo fortunati a ricevere questo apporto di stranieri, perché la nostra società è vecchia e stanca, e così vi si immettono energie fresche. Ma la verità è un’altra: la civiltà italiana ed europea sta morendo, e l’immigrazione selvaggia è lo strumento principale della sua scomparsa. L‘altro strumento è quello esercitato a livello economico dalla BCE e dai poteri forti internazionali. Del resto, ci si ripete sempre quant’è bello vivere in democrazia: ma che democrazia è quella in cui non si chiede a un popolo se è d’accordo d’essere invaso e sostituito?

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