1. Nonostante le continue battaglie locali tra SAA, SNA e SDF, la linea di demarcazione delineata nei colloqui tra Putin ed Erdogan sta gradualmente prendendo forma. Data l’inadeguatezza dei tirapiedi “verdi” di Erdogan, il processo non sta francamente procedendo senza intoppi – dopo il cessate il fuoco, i miliziani filo-turchi sono riusciti a mettere insieme decine di uccisi, feriti e prigionieri, ma nel complesso queste formazioni non sono andate oltre i valori consentiti [dalla parte turca e russa]. L’inizio di pattuglie a pieno titolo dell’esercito russo e turco sono un presagio della graduale normalizzazione che non è ancora stata raggiunta. La Russia è riuscita a ottenere una parziale docilità da parte dell’SDF, che è stato costretto a ritirare le proprie truppe da una parte significativa dei territori di interesse per la Turchia, accettando la presenza dell’esercito Siriano (SAA) e della polizia militare russa.
Tuttavia, i curdi continuano ad aggrapparsi agli americani, questo rischierà in futuro di costargli di nuovo un caro prezzo. Assad ha sottolineato più di una volta che considera coloro che hanno collaborato attivamente con gli americani i traditori della Siria, e se le conseguenze potrebbero non arrivare immediatamente, difficilmente questo momento sarà dimenticato.
2. Finora gli americani continuano a servire la tesi che “ora siamo in Siria per il petrolio” e stanno rafforzando il loro contingente nella provincia di Deir ez-Zor con veicoli corazzati aggiuntivi e mezzi di ingegneria. Apparentemente, questo è il massimo che la lobby della difesa è stata in grado di spremere da Trump chiedendo di annullare l’uscita dalla Siria [dalle località più importanti]. Invece di tutta la Siria nord-orientale, gli Stati Uniti stanno ora cercando di giocare un’opzione minima incentrata nel favorire un deterioramento della situazione politico-militare nella provincia di Deir ez-Zor come descritta già in modo analogo nell’enclave di At-Tanf. È comprensibile che non appena i siriani avranno il controllo del confine con la Turchia e il confine della “zona di sicurezza”, la pressione su questa enclave inizierà ad aumentare, nello stesso stile di Al-Tanf. La domanda chiave è se i siriani saranno in grado di limitare il traffico di petrolio da queste aree, per rendere la conservazione dello status quo imposto dagli USA non redditizio – per fare questo, è necessario bloccare il confine con la Turchia e l’Iraq, che in cooperazione con l’Iran può essere raggiunto costringendo i curdi a fare ulteriori concessioni, o costringendo gli americani a investire nel possesso di questi territori, che Trump categoricamente non vuole fare alla ricerca di opportunità per mettere il pagamento dell’avventura siriana su qualcun altro. In questo caso, il conto può essere presentato ai curdi.
3. In Idlib è prevista un’importante offensiva dell’SAA. Fonti siriane, così come fonti di militanti, notano non solo lo scambio di violenti attacchi nella montagnosa Latakia, ma anche la preparazione delle truppe siriane per operazioni nel sud di Idlib. Anna-News riferisce che i comandanti militari hanno fatto di nuovo ispezioni ravvicinate sulle prime linee e sul campo di battaglia, che di solito precedono l’uscita di video incendiari su come il gen. Suheil, con il supporto dell’Aeronautica Russa e delle forze di terra russe, irrompe sulle difese dei militanti.
Le possibili opzioni sono un attacco a Jisr al-Shugur o il taglio dell’idlib sud-orientale insieme all’autostrada Hama Aleppo, Sarakib e Marat en Numan. SAA e gli alleati hanno forze sufficienti per questo, i bombardamenti a South Idlib non si fermano. Molto probabilmente, i tempi di inizio dell’offensiva dipenderà dal lavoro iniziato dal Comitato costituzionale. Se si faranno progressi lì, l’offensiva può essere ritardata. Se ci sarà slealtà e mancanza di volontà di dialogo e reale volontà costruttiva durante i lavori, verrà lanciata l’offensiva, anche per fare pressione sulla Turchia, affinchè a sua volta faccia pressione sui militanti, rendendoli più negoziali.
4. Avendo fallito in Siria, gli oppositori dell’Iran ora sostengono fortemente le proteste in Libano e Iraq contro i governi locali, che sono abbastanza accondiscendenti con l’Iran. L’Iran negli anni precedenti ha instaurato convenienti relazioni con le élite libanesi e irachene, esse garantiscono le potenti posizioni di Hezbollah e Hashd Shaabi in questi paesi. Ma è chiaro che questi governi sono abbastanza corrotti e incapaci di garantire una crescita economica seria, sia a causa delle sanzioni contro il Libano sia a causa della devastazione in Iraq.
Chiunque sostituisca gli attuali governi, non ci sarà comunque alcun serio miglioramento nell’economia – le circostanze oggettive, francamente, non favoriscono la crescita del tenore di vita. Ma per la guerra per procura in corso nella regione, un cambio di potere in Libano e Iraq, crea ulteriori difficoltà per l’Iran, che dovrà compiere sforzi significativi per mantenere una posizione comoda durante la riconfigurazione delle autorità in questi paesi.
Certo, Teheran non sarebbe contrario al mantenimento dello status quo (quindi Hezbollah si è opposto alla partenza del filo-saudita Hariri, e Hashd Shaabi e aiuta la polizia irachena a sparare ai manifestanti a Baghdad), ma gli Stati Uniti non concederanno loro un tale lusso.
Israele e Arabia Saudita intanto continueranno a gustare l’odiato corridoio sciita verso il Mediterraneo. Nei prossimi anni, la lotta attorno a questo progetto influenzerà un certo numero di stati nella regione. Per l’Iran, questo significherà che dopo aver vinto il round in Siria e Iraq, procederà alla fase successiva della lotta, dove dovrà difendere le sue “conquiste” da invasioni [eventi distruttivi] di natura esterna e interna.
La normalizzazione parziale tra Teheran e Riyadh potrebbe indebolire la tensione dello scontro, ma finora le parti si sono limitate a stabilire termini di negoziazione e l’Iraq, in virtù di ciò che sta accadendo a Baghdad, non è molto interessato al ruolo di mediatore. Rimane l’opzione del Pakistan, che ha normali relazioni con l’Iran e l’Arabia Saudita e può fungere da utile mediatore. E’ tramite la mediazione del Pakistan che finirà finalmente la guerra in Yemen e si ridurrà il grado di guerra per procura tra i paesi chiave della regione.