L’Europa non esiste?

fonte: Italicum

Il ritorno del crollismo

Dinanzi al dilagare della pandemia e all’espandersi di una crisi che, oltre che sanitaria, è anche economica, sociale e politica, assistiamo anche alla diffusione epidemica di esternazioni mediatiche dettate da superficiale velleitarismo, secondo cui “l’Europa è crollata”, “Gli stati si riappropriano della sovranità”, “E’ finita l’era della globalizzazione”. In questa crisi si ripropongono velleità ribelliste, fughe utopiche dalla realtà, speranze in eventi epocali che generino trasformazioni sistemiche, coltivate da un dissenso da troppo tempo emarginato e privo di adeguata rappresentanza politica.

In realtà assistiamo al riproporsi di una corrente di pensiero che era assai diffusa nell’ambito ideologico marxista del ‘900 denominata “crollismo”. Essa consisteva nell’interpretare ogni crisi ciclica del capitalismo come la fase finale che avrebbe determinato il crollo definitivo del sistema capitalista. Tali profezie ideologiche si rivelarono puntualmente infondate. Anzi, fu invece il comunismo storico novecentesco ad essere investito non dal crollismo, ma da un crollo reale, storico ed epocale.

L’Europa non esiste?

Un ulteriore mantra, ripetuto mediaticamente fino all’ossessione è quello secondo cui “l’Europa non esiste”. L’Europa è semmai una entità geopolitica irrilevante e marginalizzata nel contesto mondiale. La UE non è uno stato, è invece una istituzione sovranazionale di carattere economico – finanziario, ma, dal punto di vista politico una unione di stati a sovranità limitata, in quanto membri Nato e quindi subalterni alle strategie geopolitiche degli USA. Stati Uniti, che invece non hanno mai fatto mistero della loro aperta ostilità nei confronti di qualunque velleità autonomista dell’Europa.

Infatti gli USA avversano anche questa Europa liberista ma a trazione tedesca, considerata un temibile concorrente economico – commerciale (vedi la politica trumpiana dei dazi all’importazione). Gli USA inoltre contestano all’Europa la cooperazione con la Russia nel campo energetico e gli accordi commerciali con la Cina (vedi “la via della seta”). Questa pandemia offre agli USA l’occasione propizia per mettere in atto manovre politiche volte alla destabilizzazione dell’Europa.

Ma la UE, sebbene da sempre oggetto di strategie ostili da parte degli USA, è strutturalmente un’area geopolitica inclusa nell’Occidente americano. La UE è fondata sul modello economico neoliberista ed è subalterna alla Nato in politica estera. In questo periodo si è accresciuta peraltro la presenza americana in Europa in uomini ed armamenti in funzione antirussa. Anche se gli interessi europei si contrappongono economicamente e politicamente agli USA, la UE è e resta filoamericana in economia, nella cultura e nei costumi. Ha scelto di essere americana anche contro l’America.

Per quanto concerne invece la struttura economico – politica interna, invece l’Europa esiste e in questa crisi vengono alla luce tutti gli effetti della sua politica economica, che con l’imposizione di politiche di austerity ha depauperato i popoli e dissolto la sovranità degli stati. Anzi, è proprio questa crisi a mettere in ulteriore evidenza l’invasività europea nelle politiche degli stati e a riaffermare la presenza oppressiva della gabbia finanziaria eurocratica.

Da questa crisi non emergerà la validità e l’indispensabilità del progetto europeo, ma semmai renderà evidente ai popoli la natura egemonica ed oligarchica dell’Unione europea.

Gli annunci mediatici, ripetuti con enfasi asfissiante, secondo cui l’Europa allenta i vincoli di bilancio e sospende il patto di stabilità, non fanno che riconfermare una volta di più la sussistenza della UE ai danni dei paesi più svantaggiati dalla crisi quali l’Italia. Le dichiarazione della Von der Leyen, secondo cui “Oggi proponiamo di applicare con la massima flessibilità le nostre regole, in modo da consentire ai nostri governi nazionali di sostenere tutti: i nostri sistemi sanitari, il nostro personale e le persone così gravemente colpite dalla crisi. Voglio assicurarmi di rispondere sia alla dimensione umana che alla dimensione socio – economica della pandemia da coronavirus nel miglior modo possibile” è affiancata però da un’altra dichiarazione, di questo tenore: “La deviazione degli obiettivi di bilancio deve essere temporanea. Gli Stati membri devono utilizzare la piena flessibilità prevista dal quadro di bilancio per affrontare la crisi sanitaria e le sue conseguenze economiche dirette”. I vincoli di bilancio europei, sebbene sospesi, sussistono con la loro efficacia coattiva che potrebbe rivelarsi devastante nella fase post crisi.

Il bazooka della BCE e le politiche fiscali degli stati

La riproposizione del QE di Draghi, il bazooka potenziato dalla Lagarde fino a 750 miliardi per l’acquisto di titoli pubblici e privati, congiuntamente alla abrogazione temporanea del limite del 33% per l’acquisto di titoli di stato, sono, come si sa, misure che denunciano evidenti limiti. La trasmissione di liquidità all’economia reale si è rivelata in passato assai scarsa e per quanto riguarda i tassi di interesse, già in territorio negativo, non esistono ulteriori margini di manovra. Occorre comunque rilevare che il QE di Draghi, oltre a raffreddare le tensioni speculative sui debiti sovrani, rappresentò una misura che contribuì al risanamento delle banche tedesche e francesi, già falcidiate dalla crisi del 2008, che investirono una rilevante quota della liquidità offerta dalla BCE nell’acquisto dei debiti pubblici della Grecia e dell’Italia, che offrivano tassi di interesse remunerativi, in quanto paesi devastati dalle crisi del debito sovrano e costretti a rigide politiche di austerità con relativi costi sociali elevatissimi.

Pertanto, le politiche fiscali di risanamento post crisi gravano sugli stati. E gli stati devono dunque fare ricorso a risorse proprie disponibili in bilancio, o reperibili sul mercato mediante l’estensione del debito pubblico, o acquisite mediante a fondi concessi dal MES.

La Germania, che ha messo in atto una manovra di oltre 500 miliardi, può disporre di risorse di bilancio assai elevate per finanziare l’economia con manovre a debito. L’Italia invece, che ha spazi di bilancio assai ristretti a causa dell’elevato debito pubblico, ha potuto erogare misure per 50 miliardi e le prospettive per l’immediato futuro sono assai preoccupanti, in considerazione anche del calo del Pil, che secondo recenti previsioni, potrebbe registrare una diminuzione del 6,5%.

A meno che nel post crisi non si dia luogo in Italia ad una formidabile, quanto improbabile crescita del Pil, un eccessivo ampliamento del debito italiano avrebbe un impatto sui conti pubblici difficilmente governabile e la sua stessa sostenibilità sarebbe dubbia. Certo è che l’Italia in futuro non potrà, al fine di sostenere il debito, procedere a politiche di drastica tassazione / espropriazione patrimoniale del risparmio privato (che è oggi 5,5 volte il Pil). In tal caso si provocherebbe un depauperamento generalizzato dei risparmiatori a discapito degli investimenti e dei consumi, con l’innesco inevitabile di una recessione senza fine. L’Italia inoltre non potrà più alimentare il proprio bilancio mediante sempre nuove emissioni di titoli di stato con tassi remunerativi, che si rivelerebbero alla lunga insostenibili.

Il MES: una partita di giro, anzi di raggiro

Il ricorso al MES è per l’Italia, così come per molti altri paesi membri della UE (esclusa la Germania e altri paesi del Nord), una scelta impraticabile. Il MES, la cui riforma già ampliamente osteggiata in Italia è stata rinviata, è un organismo istituito al fine di erogare prestiti ai paesi membri in difficoltà.

Tuttavia l’accesso al MES è condizionato all’osservanza di rigidi parametri di bilancio, a garanzia del debito. Pertanto, per accedere al MES i paesi in difficoltà finanziaria e non in regola con i parametri stabiliti, dovrebbero mettere in atto gravose politiche di austerity per il riordino dei conti pubblici, che potrebbero comportare anche la ristrutturazione del debito. L’accesso al MES della Grecia nel 2012 implicò inoltre l’affidamento della governance della crisi alla Troika. Quindi, l’adesione al MES determina anche una rilevante devoluzione della sovranità dello stato debitore.

Senza contare poi, che il MES per essere operativo deve essere capitalizzato dagli stati e l’Italia è il terzo contribuente del MES dopo Germania e Francia. In caso di utilizzo del MES, si verificherebbe il singolare paradosso secondo cui l’Italia potrebbe vedersi restituiti i propri conferimenti o poco più. A tal riguardo così si esprime Giulio Tremonti: “Assumendo che il MES cubi 700 miliardi, e che all’Italia venga data solo la sua quota di competenza, nel dare e nell’avere mettere 100 vorrebbe dire avere solo qualcosa in più in termini finanziari”, ed aggiunge: “Ma pagando un altissimo prezzo politico. Sarebbe una partita di giro, anzi in realtà è una partita di raggiro”.

Del tutto irrealistica appare infine l’ipotesi di un MES che procedesse ad erogazioni di prestiti senza condizioni, data la situazione di emergenza pandemica. Il MES è stato istituito mediante un trattato internazionale la cui modifica sarebbe possibile mediante l’approvazione parlamentare da parte di 18 stati, condizione che oltre a richiedere un improbabile unanime assenso, potrebbe realizzarsi solo con tempi biblici.

Il “nein” dell’Europa germanizzata ai Coronabond

Gli USA, oltre ad emissioni illimitate di liquidità da parte della Fed, per affrontare la crisi, hanno varato un piano di emissione di 2.000 miliardi di dollari da erogare a cittadini ed imprese. Ma i paesi dell’Eurozona non dispongono della sovranità monetaria, che è stata devoluta alla UE.

Per far fronte alla crisi scaturita dall’emergenza pandemica, si rende dunque necessaria l’emissione dei Coronabond da parte della Banca europea per gli Investimenti, titoli cioè non inclusi nel deficit degli stati e che dovrebbero salvaguardare i debiti sovrani dei paesi membri dalle ondate speculative. I Coronabond dovrebbero quindi essere acquistati dalla BCE per finanziare, oltre che le spese sanitarie per l’emergenza, la crescita, gli investimenti in infrastrutture e contribuire al sostentamento dei cittadini in difficoltà.

Analogo progetto fu sostenuto anni fa da alcuni paesi per la creazione degli Eurobond, nel contesto della realizzazione di una Unione fiscale europea. Ma tali progetti si scontrarono con l’ostilità tedesca. La Germania ha infatti sempre respinto l’idea degli Eurobond, in quanto ostile all’idea di una mutualizzazione del debito con gli altri stati europei.

Occorre inoltre rilevare che la proposta degli Eurobond, così come ogni altro progetto europeo, per ottenere l’assenso tedesco, è sempre soggetto all’approvazione del Bundestag e, per quanto riguarda proposte che abbiano rilevanza costituzionale, alla corte costituzionale tedesca. La germanizzazione dell’Europa è dunque una realtà oggettiva: la UE dipende dalla corte di Karlsruhe.

Anche il progetto dei Coronabond si è scontrato con l’ennesimo “nein” dell’Europa germanizzata. Al vertice europeo del 26 marzo scorso, si sono dichiarati contrari all’emissione dei Coronabond la Germania, l’Olanda, la Finlandia, l’Austria e i paesi del patto di Visegrad, paesi questi ultimi, con governi sovranisti, ma che tuttavia sono colonie economiche consenzienti della Germania. Dopo un aspro scontro tra gli schieramenti del Nord, di orientamento finanziario rigorista ed un Sud che reclama la solidarietà europea nell’attuale emergenza, i 27 leaders della UE hanno deciso di dare mandato all’Eurogruppo per deliberare nuove strategie anti – crisi entro 14 giorni.

La UE si dissolve?

Tale scontro ai vertici europei in questa situazione di emergenza, potrebbe preludere ad un dissolvimento della UE? Ci si chiede a questo punto se la UE non si sia già materialmente dissolta quando la Germania autonomamente, ha varato un piano di espansione della liquidità per oltre 500 miliardi con l’implicito divieto, per i paesi che non abbiano disponibilità di bilancio, di potersi dotare di risorse adeguate per fronteggiare la crisi. Molti hanno interpretato la politica economica emergenziale della Germania e dei suoi alleati come una secessione unilaterale dalla UE. Il che comporterebbe di fatto il recesso, anch’esso unilaterale, dai trattati istitutivi della UE da parte dei paesi del Sud, che in tal caso si riapproprierebbero della propria sovranità nazionale.

La crisi pandemica ha determinato l’emersione di una crisi ed una conflittualità già in atto in una Europa dominata dall’asse franco – tedesco (anch’esso in via di dissoluzione), e dai satelliti della Germania ai danni dei paesi dell’area mediterranea. Crisi, che con l’emergenza coronavirus, è giunta alla sua naturale implosione. Tale situazione è così commentata da Giulio Sapelli: “Una situazione inedita si staglia dinanzi a noi. Per la prima volta nella storia europea un Consiglio si è chiuso senza neppure la votazione del comunicato finale. Eppure sono tempi pandemici: di allarme pandemico! Di solito i finlandesi e gli olandesi preparavano un testo che tutti approvavano con mugugni e ribellioni solo a parole. Questa volta è successo l’imprevedibile. Nove nazioni europee hanno presentato una dichiarazione comune in cui di fatto sconfessavano le stesse istituzioni economiche europee chiedendo una condivisione del debito. I firmatari sono: Spagna, Italia e Francia – che assume di fatto la guida di una potenziale Europa Latina (ricordate Alexandre Koyré?) – e poi Malta, Portogallo, Grecia, Slovenia e Irlanda”.

Lo scontro interno all’Europa non è solo di natura economico – politica. La costituzione della UE non ha prodotto pace, unificazione, integrazione, solidarietà tra i popoli, ma conflittualità, egoismi nazionalisti, localisti e di classe, diseguaglianze sociali, competitività selvaggia, disgregazione degli stati nazionali. La UE ha creato solo nuove divaricazioni tra gli stati europei, che si aggiungono alle antiche contrapposizioni che di carattere storico, politico, culturale e religioso che sono riemerse.

I paesi del Nord sono infatti accomunati da una identità fondamentalmente luterana / calvinista, oggi riprodottasi in versione laicista, moralista, razionalista, individualista, che rivendica il primato del proprio modello non solo economico, ma anche culturale e perfino etnico – razziale, benché non più biologico, ma politico, finanziario e sociale. I paesi del Sud sono invece accomunati da valori ispirati alla solidarietà sociale, all’integrazione e alla sintesi tra le varie identità etnico – culturali, all’universalismo, quale retaggio indelebile della cultura classica e del cattolicesimo. E’ inoltre da rilevare come il Nord dell’Europa si sia dimostrato molto più permeabile del Sud alla penetrazione dell’ideologia globalista. Il Nord infatti ha assorbito fin alle sue radici individualismo, l’economicismo, il darwinismo sociale proprio del neoliberismo anglosassone. In questo confronto – scontro intereuropeo, non è in gioco la sussistenza di una UE mai riconosciuta nella coscienza degli europei, ma la sopravvivenza stessa di molti stati e popoli europei.

La UE sussiste in quanto strumento del dominio tedesco

Saranno invece la Germania e i suoi satelliti a voler preservare coattivamente la UE. La Germania ha assunto il suo status di potenza continentale in virtù del suo primato nella UE. La struttura legislativa, finanziaria, economica e politica della UE si è rivelata un meccanismo funzionale all’espansione del dominio tedesco sull’Europa. La potenza tedesca si è potuta affermare nella misura in cui ha potuto generare il declino economico, politico e sociale dell’Europa mediterranea. Qualora la UE si smembrasse, verrebbe meno un sistema economico – finanziario che costituisce la ragion d’essere del dominio tedesco sull’Europa. Lo smembramento della UE implicherebbe necessariamente una crisi dissolutiva della Germania stessa.

Infatti la potenza economica tedesca ha potuto prevalere in virtù dell’avvento dell’euro e quindi del regime dei cambi fissi tra gli stati, che ha determinato la crescita esponenziale dell’export tedesco a danno degli altri paesi, che sono stati costretti a politiche di austerity per rendersi competitivi sui mercati. Senza che peraltro gli eccessivi surplus dell’export della Germania incorressero nelle sanzioni europee, che invece sono state imposte ai paesi subalterni con costi sociali devastanti.

L’euro ha inoltre favorito la competitività tedesca sui mercati mondiali. Infatti, dato il rilevante surplus commerciale, un marco tedesco sopravvalutato avrebbe danneggiato l’export.

L’espansione finanziaria della Germania nella UE ha prodotto ripetute crisi dei debiti sovrani, con progressivi accaparramenti da parte tedesca, delle imprese strategiche dei paesi debitori. In questa situazione di crisi sarebbe infatti necessario che l’Italia imponesse il “Golden Power” provvedimenti cioè che comportino il divieto di acquisizione da parte straniera di alcuni settori dell’economia definiti di rilevanza strategica. Il prolungarsi di questa crisi potrebbe infatti suscitare appetiti predatori da parte tedesca.

La Germania, peraltro afflitta da una decadenza non reversibile del proprio sistema politico interno, manterrà in vita la UE per preservare se stessa ed il proprio ruolo dominante. La fine della UE condurrebbe alla fine della Germania stessa. Pertanto potrebbe anche effettuare concessioni, seppur minime, verso i paesi svantaggiati in sede europea. Ma la politica del rigore finanziario tedesco è divenuta ormai inaccettabile ed impraticabile per i paesi dell’area mediterranea. Occorrono infatti provvedimenti sovranazionali immediati per contrastare questa crisi che, per dirla con Mario Draghi, potrebbe assumere “proporzioni potenzialmente bibliche”. Il ritorno al precedente status quo è ormai impossibile.

L’Italia, con molti altri stati europei, è dunque chiamata a scelte che implicano la riconquista della propria sovranità nazionale. Nonostante la volontà egemonica della Germania tesa a perpetuare se stessa, la UE è ormai destinata ad un irreversibile processo di decomposizione. Il post crisi potrebbe dischiudere nuovi orizzonti ancora del tutto sconosciuti.

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fonte:https://www.ariannaeditrice.it/articoli/la-ue-si-dissolve

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