Summit di 70 paesi amici della Siria a Istanbul: sostegno armato in vista

di Patrizio Ricci

Mentre l’inviato speciale Onu Kofi Annan sembrava aver coronato il suo sforzo ottenendo da Assad l’accettazione completa del piano di pace da attuarsi entro il 10 aprile, nel fine settimana il summit dei paesi “amici della Siria” (assenti Russia e Cina) è andato in tutt’altra direzione. Nella conferenza di Istanbul l’Arabia Saudita ha deciso di inviare armi ai ribelli e si spingerebbe, assieme al Qatar, anche ad un intervento militare diretto. Il nostro giudizio su questa scelta è chiaro: essa porterebbe ancora morte, distruzione, sofferenza e l’accentazione di un conflitto già difficile da controllare.

“Basandoci sulla nostra esperienza in Iraq, l’opzione di armare una delle parti in conflitto porterebbe ad una guerra delegata a livello regionale e a livello internazionale in Siria” ha detto il premier iracheno Maliki. Gli USA, dal canto loro, certamente non hanno mai usato toni leggeri con Assad, tuttavia hanno manifestato chiaramente la propria contrarietà all’invio di aiuti militari. Malgrado ciò, la monarchia di re Abdullah, seguita da alcuni altri paesi del Golfo, ha deciso di creare ugualmente un fondo di centinaia di milioni di dollari per sostenere l’Esercito di Liberazione della Siria. Non solo, ma si farà carico del pagamento degli stipendi ai ribelli in armi. In realtà in questo modo si favoriscono le fazioni più intransigenti escludendo i leader più moderati che hanno dato vita alle proteste iniziali, alcuni dei quali già si sono dimessi. Le intenzioni sono chiare: se la volontà tra “gli amici della Siria” fosse univoca, l’Arabia Saudita manderebbe le sue truppe a dare manforte ai ribelli (ma non si può escludere che indirettamente questo già non accada). Sempre nel corso del summit, il più longevo ministro degli esteri al mondo, il saudita Saud al-Faisal, ha detto che “armare l’opposizione in Siria è un dovere, perché non può difendersi se non con le armi”; per gratitudine i ribelli siriani hanno creato una brigata intitolata a Re Abdullah.

L’Arabia Saudita, nella crisi siriana, si mostra come portavoce delle istanze degli oppressi e portabandiera delle riforme e dei diritti umani. Ma l’anno scorso in Bahrein non si è comportata proprio così: quando le medesime rivendicazioni di libertà e democrazia sono state portate in piazza pacificamente dai cittadini, l’Arabia Saudita non ha esitato a inviare le sue truppe in soccorso all’assolutistica monarchia del Bahrein scatenando una sanguinosa repressione.

Altra singolarità è che l’Arabia Saudita, mentre è così sensibile all’anelito di libertà del popolo siriano (le cui componenti sono in realtà divise tra oppositori ad Assad e quelli a favore) , non dimostra la stessa sensibilità per i suoi 27 milioni di cittadini. A volte gli avvenimenti non serve commentarli, basta accostarli per capirne i paradossi. La forma di governo dell’Arabia Saudita è una monarchia assoluta ereditaria basata sull’Islam wahabita, un ramo dell’Islam che respinge tutte le innovazioni operate sulla dottrina originale. Tutti i circa 7.000 membri del clan della famiglia Al Saud occupano tutti i posti di rilievo della Nazione. Il Paese non ha una costituzione perché la sua carta fondamentale è il Corano. I principali diritti politici sono negati, nessun partito politico e nessuna elezione sono consentiti, la libertà di opinione è sconosciuta e chiunque esprima giudizi negativi contro la reale dinastia incorre in arresti arbitrari. Le dimostrazioni pubbliche sono vietate e così la libertà di stampa. Il sistema giudiziario ricorre alla pena di morte e alle pene corporali in maniera massiccia, dalla decapitazione alle frustrate all’amputazione di arti (come pena per il furto). Alle donne è garantito il diritto allo studio ma sono soggette a molti divieti e prescrizioni, come guidare le automobili o fare acquisti da sole e senza il permesso di un uomo; come pure non è loro consentito viaggiare, lavorare o sottoporsi ad interventi medici. La libertà religiosa è anch’essa completamente assente: nonostante più del 4% della popolazione sia cristiana (lavoratori stranieri, principalmente filippini) è vietato manifestare pubblicamente il proprio credo. E’ assolutamente interdetto portare nel paese bibbie, crocefissi o altri simboli religiosi e naturalmente farli vedere in pubblico. Nella penisola arabica sono presenti chiese cristiane in Yemen, Kuwait, Bahrain, Qatar, Oman ed Emirati Arabi Uniti ma sono proibite nel territorio saudita essendone categoricamente vietata la costruzione.

Si potrebbe continuare per dimostrare che l’ostilità dell’Arabia Saudita verso l’alauita governo siriano ha radici storiche, ma già alla luce di questi pochi ma essenziali elementi è chiaro che la motivazione umanitaria portata a giustificazione del proprio interventismo è poco credibile.

L’insistenza per il sostegno alla lotta armata è una scelta rischiosa che non va a favore del popolo siriano. Il protrarsi del conflitto sta scatenando forze radicali a forte connotazione fondamentalistica religiosa. Notizie inquietante sono state riferite negli ultimi giorni da Human Rights e dall’Agenzia Fides circa rapimenti, confessioni forzate, esecuzioni di prigionieri, torture. E non solo da parte delle forze governative verso i ribelli o chiunque sia sospettato di avere contatti con loro, ma anche da parte dei ribelli stessi verso coloro che appoggiano il governo o non appoggiano apertamente i ribelli o appartengano alle forze di sicurezza governative, e addirittura verso semplici dipendenti governativi. La situazione va lentamente peggiorando, tanto che anche verso i cristiani sono state compiute negli ultimi giorni intimidazioni, cosa che non era mai accaduta in precedenza nel paese.

 

Content retrieved from: http://www.lplnews24.com/2012/04/summit-di-70-paesi-amici-della-siria.html.

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