Cristiani perseguitati, di nuovo strage: memoria e preghiera

Cultura Cattolica ci ricorda il dramma infinito dei cristiani massacrati per persecuzione ed odio a motivo della fede:

2023 12 27 Nigeria – Di nuovo strage: 160 morti e 300 feriti

Nigeria – Di nuovo strage: 160 morti e 300 feriti
NICARAGUA – arrestato un secondo vescovo e proibiti i presepi “viventi”
MYANMAR – Il vescovo di Loikaw: ‘Chiesa viva anche nella sofferenza’
ARMENI Caucaso – I presepi vuoti del Nagorno-Karabakh.

Nigeria – Di nuovo strage (24 dicembre)

Il commissario di polizia dello stato di Plateau, Okoro Alawari, ha rilasciato martedì una dichiarazione secondo cui 96 persone sono state uccise in due delle 17 aree di governo locale (LGA) – Bokkos e Barkin-Ladi – e 221 case sono state bruciate.
“Il 24 dicembre 2023, alle 22:00, i seguenti 12 villaggi nella LGA di Bokkos sono stati attaccati: Ndun, Ngyong, Murfet, Makundary, Tamiso, Chiang, Tahore, Gawarba, Dares, Meyenga, Darwat e Butura Kampani”. Allo stesso modo, il 24 dicembre 2023, verso le 22:45, sono stati attaccati anche tre villaggi nella LGA Barkin-Ladi, vale a dire NTV, Hurum e Darawat.
“I risultati della valutazione dei brutti incidenti nella LGA di Bokkos hanno rivelato che il numero totale di villaggi attaccati è 12; 221 case sono state date alle fiamme, 27 motociclette sono state bruciate, otto veicoli a motore sono stati bruciati e oltre 79 persone sono state uccise mentre a Barkin-ladi LGA sono stati registrati 17 morti.”

International Christian Concern (ICC) ha raccontato gli attacchi contro le comunità cristiane da parte delle milizie Fulani in Nigeria e ha definito il paese come uno dei più pericolosi per i credenti. Negli ultimi 20 anni più di 50.000 cristiani sono stati uccisi nella regione della Middle Belt e milioni sono stati sfollati.
(International Christian Concern)

BILANCIO al 26 dicembre

Nigeria – scontri interetnici a cavallo del Natale: 160 le vittime

Sono almeno 160 le vittime in attacchi da parte di gruppi armati tra sabato sera e lunedì in diversi villaggi nello Stato di Plateau, nella Nigeria centrale: lo hanno annunciato le autorità locali. “Le ostilità iniziate sabato sono continuate lunedì mattina”, ha riferito Monday Kassah, presidente del consiglio governativo di Bokkos, una circoscrizione elettorale situata in questa regione che è afflitta da tensioni religiose ed etniche da diversi anni tra le tribù erranti di allevatori Fulani in prevalenza musulmane e quelle stanziali di agricoltori prettamente cristiano-animiste. “Sono stati ritrovati almeno 113 corpi”, ha aggiunto, mentre il bilancio comunicato domenica sera dall’esercito era di 16 morti. E “più di 300 persone” sono rimaste ferite e trasferite negli ospedali di Bokkos, Jos e Barkin Ladi, ha detto ancora Kassah. Gruppi armati, localmente descritti come “banditi”, hanno attaccato “non meno di 20 villaggi” tra sabato sera e lunedì mattina, ha aggiunto, sottolineando che “gli attacchi sono stati ben coordinati”. Nonostante la polizia avesse rafforzato la sorveglianza in molte regioni settentrionali, centrali e della capitale Abuja, i gruppi armati hanno agito indiscriminatamente.
Oltre a questi 113 morti nella circoscrizione elettorale di Bokkos, ci sono “almeno 50 persone uccise” in quattro villaggi della vicina circoscrizione elettorale di Barkin Ladi, secondo Dickson Chollom, membro dell’assemblea locale. (…)

La Nigeria è scenario di violenze anticristiane da anni e occupa il 6° posto della graduatoria della Ong Porte Aperte (Open doors, la mappa della persecuzione dei cristiani nel mondo. Solo l’anno scorso 5.014 cristiani sono stati uccisi in quanto cristiani, e ben oltre le 20.000 negli ultimi 5 anni (sono numeri conservativi). “Il rapimento e lo stupro di donne cristiane è stato usato come arma tanto dai terroristi di Boko Haram come da questi allevatori islamici Fulani per devastare le vittime, le loro famiglie e le loro comunità. Non bastano gli attacchi, le uccisioni, i rapimenti, ma anche l’abuso sessuale è usato in una strategia chiara per debellare la presenza cristiana dall’intera area. Lo stato nigeriano palesemente non è in grado di arginare tutto questo, lasciando spesso impuniti molti degli autori, proponendosi come un notaio di questa dinamica di estirpazione delle comunità cristiane”, afferma Cristian Nani, direttore di Porte Aperte/Open Doors in Italia.
(Avvenire Redazione Esteri martedì 26 dicembre 2023)

NICARAGUA – arrestato un vescovo. È il secondo
Isidoro del Carmen Mora Ortega, vescovo di Siuna, aveva esortato a pregare per Rolando Álvarez, vescovo di Matagalpa, condannato a 26 anni. Portati via dalla polizia anche due seminaristi

Un altro vescovo nicaraguense è stato arrestato. Ne dà notizia l’agenzia Sir, che cita siti d’informazione indipendente locali. La polizia ha arrestato il vescovo di Siuna, Isidoro del Carmen Mora Ortega, 63 anni. È il secondo vescovo a essere arrestato dal regime di Daniel Ortega, nell’ambito di una persecuzione contro la Chiesa che quest’anno ha raggiunto livelli senza precedenti. (…)

Il giorno precedente, il vescovo aveva presieduto una Messa nel 99° anniversario della creazione canonica della diocesi di Matagalpa, città vicina a Siuna nel nord del Paese. In quell’occasione aveva detto ai fedeli che la Conferenza episcopale del Nicaragua continua a pregare per monsignor Rolando Álvarez, vescovo di Matagalpa, condannato a 26 anni di carcere per reati considerati tradimento che comportano la perdita della nazionalità, la privazione dei beni e di tutti i diritti civili. Queste le sue parole all’omelia: «Vorrei esprimere i saluti della Conferenza episcopale. Siamo sempre uniti pregando per questa amata diocesi di Matagalpa, pregando per monsignor Rolando, pregando per il cammino di ognuno di voi. Siamo uniti nella preghiera, nella comunione, nella fede, nell’amore, nella tenerezza».
Non è noto dove sia stato portato il vescovo.
(Avvenire Redazione Esteri giovedì 21 dicembre 2023)

NICARAGUA – Ortega vieta anche il Natale: no ai Presepi viventi per le strade
Il presidente aveva già impedito le Via Crucis durante la Quaresima. Quest’anno il record di attacchi contro la Chiesa cattolica

Dopo le processioni della Quaresima, anche le “Posadas” sono diventate prigionieri del regime di Daniel Ortega. Il governo ha vietato i “Presepi viventi” realizzati dai bambini per le strade del Paese nei nove giorni precedenti al Natale. Una tradizione fortemente sentita nei gruppi popolari di tutta l’America Latina che, così, rivive il pellegrinaggio di Maria e Giuseppe a Betlemme. Come loro, i ragazzini bussano alle porte delle case, indicate come “Posadas”, in cerca di rifugio. In cambio dell’accoglienza, intonano canti di fronte al Presepe. Le rappresentazioni, invece, quest’anno potranno svolgersi solo dentro chiese.

Secondo la ricercatrice Martha Patricia Molina, la polizia si è presentata nelle parrocchie intimando ai sacerdoti di prevedere esclusivamente “Posadas interne”. Un copione analogo a quello seguito per impedire le Via Crucis. Cominciata dal 2018 dopo le proteste nonviolente contro il sistema, la persecuzione nei confronti della Chiesa ha subito una progressiva escalation. Il 2023 ha registrato il maggior numero di attacchi – tra chiusura di organizzazioni, università, arresti di preti e religiosi -: 275. Tre i casi più eclatanti: la condanna a 26 anni di carcere per “terrorismo” nei confronti del vescovo Rolando Alvarez lo scorso febbraio, la “sospensione” delle relazioni con la Santa Sede il mese successivo e, in estate, l’esproprio dei beni della Compagnia di Gesù.
(Avvenire Lucia Capuzzi mercoledì 20 dicembre 2023)

MYANMAR – Il vescovo di Loikaw: ‘Chiesa viva anche nella sofferenza’
La lettera di mons. Celso Ba Shwe alla sua comunità in vista del Natale, mentre l’esercito continua a mantentere il controllo sulla cattedrale. Le parrocchie sono sfollate insieme alla popolazione. Nello Stato Shan le milizie etniche che hanno lanciato un’offensiva a fine ottobre sono entrate a Namhsan, ma la gente continua a vivere nella paura.
La settimana scorsa la Ta’ang National Liberation Army (TNLA), una delle tre milizie etniche parte della Three Brotherhood Alliance che ha lanciato un’offensiva contro la giunta militare golpista del Myanmar a fine ottobre, ha riconquistato anche la città di Namhsan nello Stato Shan settentrionale.

Fonti di AsiaNews hanno dichiarato che il conflitto ha ormai raggiunto tutte le fasce della popolazione e anche tutti i luoghi di culto, cristiani e non. Almeno 660mila persone sono sfollate dal lancio dell’Operazione, affermano i dati delle Nazioni unite. I residenti di Namhsan che non sono riusciti a fuggire vivono nella paura: “Non abbiamo nessun posto dove andare. Ci sono caverne in cui nasconderci ma sono molto lontane da casa nostra”, ha dichiarato un abitante locale.

Anche la città a maggioranza cristiana di Loikaw, capoluogo dello Stato Kayah, continua a essere occupata dall’esercito birmano dopo che i soldati hanno preso possesso della diocesi e della cattedrale di Cristo Re, utilizzandoli come campo base militare e costringendo il vescovo Celso Ba Shwe e altri religiosi a rifugiarsi “in foresta”, cioè in villaggi finora risparmiati dai combattimenti.

“Siamo nel bel mezzo di un conflitto armato in cui, di fronte alla distruzione e al caos politico, tutti noi siamo fuori dalle rispettive parrocchie”, ha spiegato mons. Celso Ba Shwe. “Abbiamo dovuto abbandonare la cattedrale e lasciare praticamente tutto nel nostro centro pastorale diocesano. La situazione nel territorio della diocesi, interessato dagli scontri, è molto pericolosa, la maggior parte delle parrocchie sono state abbandonate e sono svuotate. Questo fa nascere la domanda se le chiese funzionino e se la diocesi di Loikaw ancora esista”, ha aggiunto il prelato.

Nonostante la situazione drammatica, il vescovo ha esortato i fedeli a mantenere la speranza, rivolgendosi alla comunità cristiana con una lettera pastorale rilasciata in vista del Natale: “Voglio ricordare che una diocesi è una porzione del popolo di Dio. Non è solo un’area geografica, è una comunità, in unione col presbiterio, attorno al vescovo. La dinamica principale della comunità è la proclamazione del Vangelo e la celebrazione dell’Eucaristia. Nel nostro caso, pur nella sofferenza, la Chiesa fondata da Cristo è viva e presente. È importante restare tutti uniti, vivendo in comunione spirituale solidale nella comunità che, stretta attorno al Vangelo e all’Eucarestia, attraversa questo deserto. Sappiamo che Cristo, Buon Pastore, si prende cura del suo gregge, per cui ha dato la vita”.

Oltre 20 parrocchie su 41 della diocesi si sono svuotate a causa del conflitto, e i sacerdoti e le suore sono sfollati insieme ai fedeli. E proprio ai religiosi si rivolge il vescovo nella sua lettera: “Ringrazio voi sacerdoti perché siete vicini al Pastore e al popolo, per la vostra generosa cooperazione pastorale. Grazie ai religiosi, uomini e donne, e a tutti i fedeli, autentici discepoli di Cristo, per la vostra adesione al Vangelo e la costante celebrazione dell’Eucaristia”.

Proseguendo poi rivolto ai fedeli, il presule li esorta a non farsi abbattere dopo i recenti eventi, al contrario li invita a “fare la volontà di Dio”, nel “qui e ora”, fidandosi di Lui: “Mentre viviamo questa esperienza così angosciante, possiamo chiederci se Dio non abbia una strada migliore per noi. Ma possiamo essere sicuri che questa è la Sua volontà per noi in questo momento, ed è la via migliore per renderci gloriosi nel proclamare e testimoniare la Sua potenza”.

Citando una delle omelie di San Giovanni Crisostomo, mons. Celso Ba Shwe ha ricordato inoltre: “Finché saremo agnelli, vinceremo e, anche se saremo circondati da numerosi lupi, riusciremo a superarli. Ma se diventeremo lupi, saremo sconfitti, perché saremo privi dell’aiuto del pastore. Egli non pasce lupi, ma agnelli. Per questo se ne andrà e ti lascerà solo, perché gli impedisci di manifestare la sua potenza”.

(AsiaNews 20/12/2023)

ARMENI Caucaso – I presepi vuoti del Nagorno-Karabakh. Il Natale da esuli fa male agli armeni
Da settembre l’enclave cristiana in Azerbaigian è stata spopolata dopo l’attacco azero. Più di 130mila i profughi. Tra Erevan e Baku prove di pace, ma il negoziato è in salita

Ai piedi della vertiginosa cattedrale di Strasburgo, tra luci colorate e profumi di vin brulè, per la prima volta gli artigiani armeni hanno esposto nel celebre mercatino di Natale alsaziano. Sulle bancarelle anche legni intagliati in Artsakh, il nome armeno del Nagorno-Karabakh, la regione cristiana del Caucaso meridionale che per la prima volta in molti secoli non vedrà celebrare la Natività.

A Strasburgo e Bruxelles, nelle sedi delle istituzioni europee, l’Armenia sta giocando la sua partita per l’avvicinamento all’Ue e la progressiva emancipazione dall’influenza di Mosca. E i presepi vuoti del Nagorno sono più di una denuncia. Dal 19 settembre la maggior parte della popolazione, 130mila abitanti, è stata costretta ad abbandonare le proprie case e a trasferirsi inizialmente sul confine armeno. Non c’era altra via di fuga mentre l’esercito dell’Azerbaigian in meno di un giorno riconquistava l’enclave armena, scacciando la minoranza cristiana che da decenni si batteva per l’autodeterminazione. A migliaia hanno scavalcato la catena montuosa attraverso impervie vie di fuga. Un inferno per migliaia di persone fiaccate dal blocco azero durato nove mesi, durante il quale alla maggior parte delle famiglie venivano assegnate solo piccole razioni di cibo. Il «contingente di pace» russo avrebbe dovuto proteggere i civili, ma i duemila soldati di Mosca se ne sono rimasti a guardare.

Ad esclusione della minoranza cattolica, la gran parte degli armeni celebrerà il Natale come ogni anno il 6 gennaio. E sarà forse il più triste. Il Nagorno è stato etnicamente ripulito. E la propaganda di Baku non mancherà di mostrare qualche campanile in festa per dimostrare di non aver voluto sopprimere il cristianesimo.

Il 7 dicembre in una dichiarazione congiunta veniva affermato che «la Repubblica di Armenia e la Repubblica dell’Azerbaigian condividono l’opinione che esiste una possibilità storica per raggiungere la pace», e come gesto di buona volontà, l’Azerbaigian ha rilasciato 32 militari armeni a fronte di 2 militari azeri liberati dall’Armenia. A sua volta Erevan ha deciso di sostenere Baku, gigante del gas che esporta soprattutto in Europa, ad ospitare la Cop29, la Conferenza delle Parti della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, ritirando la propria candidatura.

La strada però è accidentata. «Oggi, la diaspora armena di tutto il mondo, sta provando gli stessi sentimenti provati nel secolo scorso, durante il Genocidio degli Armeni: incredulità e incomprensione per il complice e assordante silenzio della comunità internazionale», denuncia Gayané Khodaveerdi, Segretaria dell’Unione degli Armeni. «La millenaria nazione armena, custode della culla della cristianità, aspetta un miracolo, il miracolo della verità e della difesa del proprio popolo. Chissà – è l’auspicio – se per il 6 gennaio, ricorrenza del Natale per gli armeni, l’umanità potrà farsi illuminare ed agire in difesa degli armeni dell’Artsakh». I rancori in direzione di Mosca oramai nessuno li nasconde più. Dopo avere aderito alla Corte penale internazionale, quel tribunale dell’Aja che vorrebbe processare Vladimir Putin, l’Armenia ha annunciato anche la temporanea sospensione della licenza di trasmissione alla filiale armena della radio russa Sputnik.
Molti rifugiati del Nagorno hanno raggiunto i centri armeni più grandi, come Erevan, Kotayk e Ararat. Nel Paese una persona su 30 è un rifugiato: più della metà sono donne e ragazzi, quasi un terzo i bambini e un quinto le persone anziane.
Alvina, una nonna di 65 anni, racconta di essere diventata la principale fonte di sostentamento per la famiglia. Guadagna un po’ di spiccioli vendendo i “cappelli jingalov”, un piatto tradizionale armeno fatto in casa e servito su un tagliere di legno, o il “pane verde”, una focaccia ripiena di erbe che oggi è diventata la portata della nostalgia, da secoli è un alimento base per gli armeni del Karabakh. «Dato che al momento non abbiamo altre entrate, queste bastano appena per comprare il pane», dice Narine, la giovane nuora di Alvina. Molti uomini mancano all’appello. Forse imprigionati dagli azeri, oppure gettati in qualche fossa comune. (Avvenire, sabato 23 dicembre 2023).

 

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