The Economist: ‘Chi governerà la Siria dopo la caduta di Assad?

Un articolo di The Economist “Who will rule Syria now the Assad regime has been toppled?” affronta le incertezze e le sfide che si prospettano per il futuro politico della Siria, esaminando i vari attori in gioco e le implicazioni di una transizione di potere in un paese devastato da anni dalla proxy war internazionale. Vi cito i principali punti, che mi sembrano più interessanti:

1. Opportunità o rischio di un nuovo conflitto interno

  • La caduta del regime di Assad apre scenari contrastanti:
    • Possibilità di un governo civile federale pluralistico in tutta la Siria.
    • Rischio di una nuova guerra civile tra fazioni rivali, in assenza di un nemico comune [tuttavia è in corso il tentativo di unificare tutte le sigle in unica formazione armata].
  • I ribelli, in particolare Hayat Tahrir al-Sham, sembrano aver appreso lezioni dai fallimenti di transizioni simili in Iraq e Libia, ma rimangono sfide significative.

2. Dinamiche della transizione

  • A differenza di Iraq e Libia, la transizione siriana non è gestita da potenze straniere, ma da attori locali, dice il giornale (ma su questo punto avrei i miei dubbi, segno che non ha guardato ‘dietro alle quinte. Era noto la presenza di CIA e Pentagono fin dai primi anni del conflitto). Tuttavia, The Economist dice:
    • La divisione del paese, già evidente sotto Assad, si è intensificata.
    • Ogni fazione (ribelli sunniti, curdi, gruppi sostenuti dalla Giordania, alawiti) dispone di un esercito e rivendica il controllo di risorse e territori.
    • La necessità di coordinare un governo di unità nazionale è urgente, ma manca un piano condiviso.

3. Il ruolo di Abu Muhammad al-Julani

  • Al-Julani, leader di Hayat Tahrir al-Sham, emerge come il contendente più forte:
    • Ha abbandonato il suo passato islamista, adottando un approccio più moderato e promettendo inclusività verso minoranze e donne.
    • Tuttavia, il suo passato come leader di al-Qaeda e i suoi legami con Turchia e Qatar lo rendono una figura controversa, osteggiata da altre fazioni ribelli e potenze straniere.
    • La sua ascesa potrebbe replicare un modello autoritario, questa volta di matrice islamista.

4. Divisioni territoriali e resistenze locali

  • Le quattro principali fazioni (sunniti, curdi, alawiti, ribelli del sud) mantengono il controllo su diverse aree e risorse, complicando l’unificazione del paese.
  • I curdi nel nord-est, supportati dagli Stati Uniti, combattono per preservare l’autonomia guadagnata.
  • Gli alawiti nelle regioni montuose potrebbero cercare protezione dalla Russia, che mantiene basi militari nella zona.

5. Lentezze nella roadmap internazionale

  • La Commissione negoziale siriana, prevista dalla roadmap delle Nazioni Unite del 2015, rimane marginalizzata rispetto agli sviluppi sul campo.
  • Le forze locali sembrano poco inclini a cedere il controllo alle istituzioni internazionali o a rispettare i tempi previsti per la stesura di una nuova costituzione e per elezioni.

6. Ruolo delle potenze straniere

  • Le potenze straniere, inclusa la Russia, si mantengono in disparte, concentrandosi su interessi strategici limitati.
  • Gli Stati Uniti, secondo quanto dichiarato da Donald Trump, non intendono intervenire ulteriormente: “QUESTA NON È LA NOSTRA LOTTA”.
  • Alcuni sperano che le potenze esterne possano facilitare la creazione di consigli di coordinamento per il trasferimento di potere, ma l’impegno concreto è limitato.

7. Le sfide per la pace e la ricostruzione

  • La Siria necessita di circa 200 miliardi di dollari per la ricostruzione, ma le divisioni interne complicano la ripartizione delle risorse.
  • La popolazione stremata spera in un trasferimento pacifico del potere, ma la frammentazione interna e la diffidenza reciproca rendono difficile il raggiungimento di un consenso.

L’articolo mette in evidenza come il futuro della Siria dipenda dalla capacità dei ribelli di superare le divisioni e costruire un governo che non escluda nessuno. Tuttavia, il rischio di un nuovo dittatore o di un conflitto tra fazioni rimane alto, mentre la comunità internazionale appare riluttante a svolgere un ruolo attivo nella transizione.