Siria: il gioco del domino mondiale e la variabile dei gruppi jadisti

Cosa conta veramente in Siria? La vita  dei civili e la democrazia?  La parola ai fatti, mai ascoltati…

Patrizio Ricci

I paesi della coalizione 'anti-Assad', preoccupati dal pericolo terrorismo (che minaccia ora tutti i paesi occidentali)  hanno messo in atto una campagna di bombardamenti contro i 'tagliagole' dell'Isis.
Questo nuovo capitolo (per modo di dire… sempre di bombardamenti si tratta)  non si capisce se si debba leggere come un momentaneo 'congelamento' del proposito di sostituire il governo siriano con uno 'più gradito' (all'estero) o di una rinuncia definitiva a tale proposito.
Non sfugge che 'congelamento dei combattimenti' è proprio il contenuto dell'iniziativa del mediatore Onu Steffan De Mistura e che proprio per questo, l'iniziativa è alquanto 'nebulosa' e di difficile applicazione. Infatti, sembra più una variante del piano iniziale di  "regime change" (non deciso dai siriani) che una vera iniziativa di pace.
In definitiva,  è una 'variante' più 'soft' che non muta sostanzialmente gli atteggiamenti degli attori in campo. Essi, come sempre, si muoveranno solo se ci guadagneranno qualcosa.
Desolante che la comunità internazionale ancorché preoccupata per il terrorismo, non sembra mutare radicalmente la propria strategia adottata in Siria. Contro il paese, stremato per tre anni di guerra sanguinosissima, mantiene (e recentemente ha aumentato) un embargo internazionale durissimo (sono state interrotte le attività diplomatiche e sopratutto è tuttora alimentata una lotta senza quartiere a tutto campo) mentre si sostengono i gruppi antigovernativi che saccheggiano il paese.
Se da un lato la coalizione ('gruppo di Londr'a, ex 'amici della Siria') dice di combattere il terrorismo (ma solo da quando minaccia sè stessa), dall'altro continua ad appoggiare i ribelli che combattono  il governo siriano: l'appoggio militare, logistico e di intelligence viene fornito,  in varia misura, da tutti i paesi coalizzati contro la Siria (in particolare da USA, Gran Bretagna, Francia, Turchia, Qatar e Arabia Saudita) ed è ciò che mantiene in vita il conflitto.

Il gruppo di paesi 'amici della Siria' (collettivo diplomatico internazionale convocato periodicamente sul tema della Siria al di fuori del Consiglio di Sicurezza con obiettivo dichiarato della salvaguardia della democrazia e dei diritti umani) dopo tre anni non sembra essersi ancora accorto che le tecniche di guerriglia che vengono quotidianamente adoperate dalle milizie ribelli sono esse stesse di stampo terroristico, prendendo di mira le minoranze religiose e tutti gli apparati dello stato, compresa la componente industriale, sanitaria e culturale del paese (frequentissimi gli attentati e i lanci di mortaio contro le scuole), privando la gente persino dei servizi essenziali alla sua sopravvivenza.

La comunità internazionale adotta falsi alibi ma si nasconde dietro ad un dito (grazie anche al meschino ed interessato appoggio dei media): l'interesse di questi paesi è l'assetto finale della  Siria tale da ridisegnare tutta la geografia dell'area: la Siria dovrebbe comunque risultare da questo disegno una nazione divisa, più debole ed insignificante negli equilibri regionali.
Ed è proprio sull'assetto finale della Siria che attualmente c'è grande disaccordo: gli USA sono preoccupati sopratutto per la deriva islamista della rivolta (che però loro non poco hanno contribuito ad alimentare) e per le pretese di maggiore influenza regionale accampate dalla Turchia e dall'Arabia Saudita. Per questo, la road map sul futuro assetto del paese, nella fase attuale, è continuamente rivista in corso d'opera.

La chiave di lettura della vicenda siriana è guardare senza pregiudizi alla natura della rivolta. Un esame obiettivo in questo senso, deve necessariamente partire dalla composizione dei gruppi che combattono nel paese: essi non rinunceranno ad un ruolo di primaria importanza e ci si ritroverà così  'il dejavù' dell'attuale situazione libica. Una lezione da cui non si è imparato nulla.
Questa mancanza di discernimento dei nostri governanti fa paura più della crisi economica (perchè se non si impara neanche dagli errori come si risolveranno i problemi?)

Chiarificatrice è l'analisi riportata dal Telegraph realizzata da IHS Jane's, società specializzata in intelligence e analisi in materia di Difesa e Sicurezza. Lo studio mostra che i circa 100.000 i ribelli in Siria sono suddivisi in circa 10.000 bande diverse. Di questi, almeno 10.000 jihadisti (tra cui anche combattenti stranieri) appartenenti a diverse fazioni collegate ad al Qaeda. 30-35.000 sono islamisti radicali che condividono gran parte della visione dei jihadisti. Infine a questi si aggiungono altri  30.000 'moderati' appartenenti comunque a gruppi che perseguono un cambiamento dello stato in uno stato confessionale islamico. La parte rimanente, minoritaria rispetto alla totalità dei combattenti, è  legata ai progetti occidentali o alle monarchie assolutistiche del Golfo ed è raggruppata nel Free Syrian Army ( l’Esercito libero che risponde alla Syrian National Coalition comprende diversi gruppi di diversa ispirazione tra cui il 'Fronte Islamico').

Per quando corretto, lo studio omette un particolare di notevole importanza per meglio capire l'illogicità del permanere del supporto occidentale ai cosiddetti 'gruppi moderati'. Infatti, pur avendo una struttura autonoma,  il Free Syrian Army non solo collabora spesso con Jabhat al-Nusra (gruppo qaedista) contro l'esercito siriano ma si è unito anche  in massacri di civili siriani. Di questi, ricordiamo quelli di  Kassab (21 marzo 2014) al confine con la Turchia e di Maloula (entrambi azioni terroristiche senza alcun fine strategico-militare.
Particolare non di poco conto: sono oggi circa 450.000 cristiani che dall'inizio del conflitto hanno dovuto lasciare le loro case e fuggire sperimentando una persecuzione religiosa mai conosciuta prima, in un paese la cui laicità era un esempio per tutto il medioriente.

E' chiarificatrice sulle reali intenzioni dei gruppi moderati, la dichiarazione che Hadi al Bahra, leader del Free Syrian Army, ha rilasciato nei giorni scorsi al Guardian: " La coalizione sta combattendo il sintomo del problema, che è Isis, senza affrontare la causa principale, che è il regime". Ecco questo dovrebbe essere il nuovo leader dei siriani.
Difficile capire questa argomentazione, abusata ma mai spiegata: la parola 'regime' è il capro espiatorio di tutti i mali tanto che si sente più il bisogno da parte dei leader politici di corroborare con argomentazioni ogni negatività ad esso attribuita.
Però un'osservazione possiamo facilmente farla: tre anni fa in Siria era impensabile che si decapitassero le persone per le strade: il paese  non era in condizioni imbarbarimento  da aver bisogno di un intervento occidentale, mentre è proprio l'intervento occidentale in Siria (ed in Libia) che ha causato la nascita di Al Qaeda e ISIL.