L’ISIS a Tripoli: una guerra a pochi passi dell’Italia.

L'ISIS non è solo in Iraq ed in Siria: le bandiere nere sono anche in Libia, nell'indifferenza della comunità internazionale e nel silenzio dei media.

di Patrizio Ricci

Spinti dalla furia iconoclasta gli jihadisti dell'ISIS a novembre  avevano distrutto, 'la fontana della gazzella', alla quale gli abitanti della capitale erano particolarmente affezionati.  Il 19 gennaio 2015 l'Isis, nell'enfasi di distruggere tutto ciò che 'è occidentale' si è spinto oltre:  ha devastato il più grande supermercato di Tripoli. La popolazione è sottoposta quotidianamente alla dura legge prescritta dal califfato. Il trattamento imposto alla popolazione irachena e siriana, viene riproposto in terra libica.

 I guai nella ex- 'grande Jamaria' non sono iniziati con l'avvento dello 'Stato Islamico'. L'indomani della fine dell'operazione 'Unified Protector'  anti-Gheddafi la situazione era già caotica; nel paese imperversavano circa 1700 bande armate che dettavano 'legge' (ognuna nel proprio 'protettorato' ): la maggior parte erano qaediste e spesso non rispondevano al governo centrale.

Da quel 'seme' nasce la situazione attuale. E' guerra totale, senza regole. Dopo le 20.000 incursioni aeree della Nato nel 2011, le stesse città vengono oggi bombardate dagli aerei  degli Emirati e dell'Egitto (senza alcun mandato Onu) che agiscono  nella confusione più totale, senza render conto a nessuno.
Intanto il generale golpista (contro il governo islamico 'National Congress')  Khalifa Haftar dà battaglia alle forze jadiste mentre un evanescente governo non comanda neanche più a Bengasi e si è rifugiato a Tobruk.
Le forze jihadiste sono però preponderanti e conquistano ogni giorno terreno.

Tutto avviene nel  silenzio dei media: nulla importa che le 'violenze contro i civili' di oggi sono ben superiori di quelle di ieri che servirono a determinare l'intervento della coalizione occidentale anti-Gheddafi.
Ma tant'è:  oggi i media tengono la bocca chiusa, forse per evitare un imbarazzante raffronto del prima e dopo Gheddafi.  Invece nel  2011 anche un gattino che venisse molestato avrebbe avuto grande eco mediatica:  tutti i riflettori erano puntati su Tripoli, nel tentativo di  demonizzare l'avversario e fabbricare la motivazione dell’intervento armato come unica soluzione possibile e l’appello alla protezione della popolazione civile, come ulteriore fattore legittimante l’intervento.
L'operazione aerea occidentale violerà totalmente, disinvoltamente e platealmente la risoluzione n. 1973 dell’Onu e sarà caratterizzata da una grande campagna di disinformazione e manipolazione delle notizie; questo aspetto è stato uno degli aspetti più vergognosi della campagna della Nato in Libia.
Ricordiamo che le prove 'principe' per  imporre la 'no fly zone' furono  le fosse comuni a Tripoli (in realtà un cimitero per naufraghi migranti)  e le esecuzioni di massa di civili (si disse 10.000 morti: la cifra è stata anch'essa successivamente smentita).

Ma torniamo un po' indietro: è l'8 gennaio 2011. E' l'8 gennaio 2011; il ministro degli  esteri  Frattini esprime  nella trasmissione 'Che tempo fa' la posizione italiana sulla Libia: "Se la Libia non avesse una politica antiterrorismo di controllo forte come quella che ha, nell'area di Bengasi le cellule del terrorismo sarebbero tremendamente vicine a casa nostra".  Nell'intervista Frattini giustifica gli onori della visita di Gheddafi in Italia così: "sono onori a un capo di Stato che riesce a controllare una situazione altrimenti esplosiva". (fonte Adnkronos).  I fatti e non i ragionamenti danno più misura dell'ipocrisia: è la prova che l'Italia sa perfettamente che le istanze rivoluzionarie di circa il 4 per cento della popolazione libica sono sintetizzate dalla jiahad e non da aspirazioni 'democratiche'. Sa anche che questa forte presenza fondamentalista è interamente concentrata nella zona di Bengasi  e sa anche che Derna è la patria del jahdismo mondiale.
In definitiva: tutti  insomma sanno della natura della rivolta. Ma inspiegabilmente pochi ne parlano. Uno di questi 'pochi' è il  giornalista investigativo Gianni Cipriani che scrive su The Globalist Syndication  il 5 ottobre 2011: "nella guerra libica (i paesi occidentali) stanno sostenendo una "liberazione" all'interno della quale giorno dopo giorno trovano sempre più spazio i gruppi filo-qaedisti e salafiti, ossia proprio coloro additati come il pericolo numero uno dopo l'11 settembre. Ed infatti il futuro della Libia è tutt'altro che certo. Democratica? Non sarà semplice. Unità? Non sarà semplice. Libera da un nuovo fondamentalismo? Non sarà semplice".
Gianni Cipriani come pochi altri che 'suonano un'altra campana' sarà inascoltato. Inascoltato anche il  ministro degli esteri algerino Abdel Qader Masahil che nell'ottobre 2011 denuncia che la Libia è fuori controllo ed in mano delle organizzazioni terroristiche:  ''Siamo molto preoccupati per la presenza di al-Qaeda tra i ribelli libici e il suo rafforzamento nel paese''.

Cosa è successo? I jihadisti, fortemente repressi  Moammar Gheddafi,  scoppiata la rivolta, hanno dismesso (solo provvisoriamente)  l'abito qaidista e sono stati incaricati dal Consiglio Nazionale di Transizione libico della 'difesa del paese'.  Anche l’amministrazione Obama (per bocca del consigliere sul terrorismo del presidente Barack Obama, John Brennan ) riconoscerà  che elementi di al-Qaida hanno combattuto con i ribelli libici.
 Ora a distanza di 2 anni dalla fine della primavera libica la bandiera nera di  ISIS svetta sul governatorato di Tripoli e l'Italia per bocca dei suoi leader politici, dice che deve intervenire perché 'non può rimanere indifferente'.  E'  ipocrisia allo stato puro:  non ci può essere giustizia senza verità.  E la verità non è stata detta: ancora nessuno si azzarda a raccontare che nel 2011 l'Italia ha partecipato all'annientamento di uno stato sovrano e che ciò costituisce la più grave aggressione verificatasi nel secolo in corso.

Nessuno giudica e senza giudizio si aprono le porte perché gli errori si ripetano: gli stessi leader europei siedono negli stessi posti in parlamento e il presidente Sarkozy si accinge a ripresentare la sua canditura.
Amaro che molti politici responsabili di quelle infauste decisioni ora 'mostrano la loro preoccupazione per la situazione' guadagnando consensi tra la popolazione: sono gli stessi che hanno manifestato a Parigi per la libertà ed in solidarietà a Charlie Hebdo.

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