fonte: cooperatoreseritatis
Il futuro della Chiesa può dipendere, anzi certamente dipenderà anche nel nostro tempo, dalla forza di quei credenti che hanno radici profonde, e vivono un’esistenza ricolma della luminosa pienezza della fede […].
Sarà certamente una Chiesa consapevole della sua natura di realtà religiosa, che non si accrediterà sulla base della sua potenza politica e non amoreggerà né con le «destre » né con le «sinistre ».
Avrà un’esistenza faticosa, poiché la sua nuova configurazione e il suo rinnovamento le costeranno una purificazione nella quale si consumeranno anche molte delle sue forze migliori.
Sarà una Chiesa che ha imboccato la strada della povertà, e sarà in particolare la Chiesa dei piccoli e dei deboli: un processo, questo, tanto più delicato e rischioso, in quanto dovrà guardarsi e dalla grettezza di parte e dalla testardaggine magniloquente.
Si può prevedere che ciò sarà valido per ogni tempo.
Sarà un’evoluzione lunga e tortuosa: proprio come lo è stata la via che partendo dalle false istanze progressiste, diffuse alla vigilia della rivoluzione francese, ha condotto fino al rinnovamento effettivo del XIX secolo.
In base a queste istanze, anche a dei vescovi poteva sembrare imperativo dell’attualità e inesorabile « linea di tendenza » deridere i dogmi, e addirittura lasciare intendere che l’esistenza di Dio non potesse darsi in alcun modo per certa.
Ma, dopo la prova di simili divisioni, sgorgheranno sorgenti limpide e feconde.
Gli uomini di un mondo in tutto e per tutto « programmato » si ritroveranno in una indicibile solitudine. Quando Dio sarà completamente scomparso dal loro orizzonte, essi proveranno sulla loro pelle una miseria terribile e senza confini.
Scopriranno allora la piccola comunità dei credenti come un fatto del tutto nuovo, una novità assoluta: come una speranza che è anche per loro, come la risposta a una domanda che li ha sempre nascostamente inquietati.
Per questo sono certo che si preparano per la Chiesa tempi molto difficili.
La sua « crisi » vera e propria è solo appena cominciata.
(Glaube und Zukunft, pp. 120s e 123ss)
In quell’atteggiamento molto diffuso di affrettata critica alla storia passata della cristianità torna sempre a imporsi l’idea che ci si dovrebbe sbarazzare dell’intera storia di questi duemila anni e radere così al suolo le mura dei dogmi e delle confessioni, per cominciare tutto da capo, come se Cristo comparisse per la prima volta oggi sulla soglia della nostra casa.
Per quanto ciò sia allettante, tuttavia, così facendo noi ridurremmo l’unità della Chiesa a un’opera, a un prodotto delle nostre mani, e la Chiesa a qualcosa che noi stessi possiamo costruire.
Ma di fronte a quest’opzione non c’è giustificazione che tenga: in fondo, in questa maniera eleviamo di nuovo una muraglia contro Dio e finiamo per confidare maggiormente solo in quanto è in nostro potere fare.
Il muro della legge e il muro che vuole circoscrivere lo spazio di azione di Dio non sono però stati rimossi dall’azione dell’uomo: questa semmai li ha alzati ancora di più. Essi sono stati invece rasi al suolo da colui che ha recato al mondo l’amore di Dio e, sulla croce, si è caricato del carico di impotenza e di male di ogni azione umana.
Così dunque non va.
Quando parliamo di unità della Chiesa, dobbiamo subito smettere di sognare opere audaci e grandi realizzazioni, delle quali riterremmo d’esser capaci.
La lettera agli Efesini ci offre una diversa indicazione: ci esorta a lasciarci incorporare e riedificare nell’uomo nuovo, nella nuova umanità che Cristo ha inaugurato.
Come è stato notato, « l’unità non può essere creata dagli uomini, essi possono solo riconoscerla» . La vera Chiesa non è opera nostra: ci precede ed è opera di Cristo.
Il nostro compito è quello di lasciarci incorporare a essa.
Quando lo adempiamo, lasciandoci sgrezzare umilmente dal Signore come pietre vive, quando smettiamo di « progettare a tavolino » la Chiesa, quando ci lasciamo condurre là dove non vogliamo, allora fiorisce l’unità e, anche in mezzo a divisioni, le mura diventano ostacoli superabili.
(Bollettino diocesano, 20 gennaio 1978)
Noi abbiamo perduto il senso che i cristiani non possono vivere come vive chiunque. L’opinione stolta secondo cui non esisterebbe una specifica morale cristiana è solo una espressione particolarmente spinta della perdita di un concetto base: la ” differenza del cristiano “rispetto ai modelli del mondo.
Anche in alcuni ordini e congregazioni religiose si è scambiata la vera riforma con il rilassamento della austerità tradizionale. S’è scambiato il rinnovamento con l’accomodamento.
Per fare un piccolo esempio preciso: un religioso mi ha riferito che la dissoluzione del suo convento era cominciata – molto concretamente – quando si era dichiarata “non più praticabile” la levata dei frati per la recita dell’ufficio notturno previsto dalla liturgia. Ebbene, questo indubbio ma significativo “sacrificio” era stato sostituito con uno stare a guardare la televisione sino a notte avanzata. Un piccolo caso, in apparenza: ma è anche di questi “piccoli casi” che è fatto il declino attuale della indispensabile austerità della vita cristiana. A cominciare da quella dei religiosi”.
Oggi più che mai il cristiano deve essere conscio di appartenere a una minoranza e di essere in contrasto con ciò che appare buono, ovvio, logico per lo “spirito del mondo”, come lo chiama il Nuovo Testamento. Tra i compiti più urgenti per il cristiano, c’è il recupero della capacità di opporsi a molte tendenze della cultura circostante, rinunziando a certa solidarietà troppo euforica post-conciliare.
Dunque, accanto alla Gaudium et spes (il testo del Concilio sui rapporti tra Chiesa e mondo) possiamo ancora tenere l’Imitazione di Cristo.
Si tratta, ovviamente, di due spiritualità molto diverse. L’Imitazione è un testo che rispecchia la grande tradizione monastica medievale. Ma il Vaticano II non voleva affatto togliere le cose buone ai buoni. (…) occorre una nuova evidenza, una nuova gioia, se posso dire una nuova “fierezza” (che non contrasta con l’umiltà indispensabile) di essere cattolici.
(Rapporto sulla Fede cap. ottavo)
Chi oggi parla di “protestantizzazione” della Chiesa cattolica, intende in genere con questa espressione un mutamento nella concezione di fondo della Chiesa, un’altra visione del rapporto fra Chiesa e vangelo.
Il pericolo di una tale trasformazione sussiste realmente; non è solo uno spauracchio agitato in qualche ambiente integrista (..).. il protestantesimo è nato all’inizio dell’epoca moderna ed è pertanto molto più apparentato che non il cattolicesimo con le idee-forza che hanno dato origine al mondo moderno.
La sua attuale configurazione l’ha trovata in gran parte proprio nell’incontro con le grandi correnti filosofiche del XIX secolo. È la sua chance ed insieme la sua fragilità questo suo essere molto aperto al pensiero moderno. Così può nascere l’opinione (proprio presso teologi cattolici che non sanno più che fare della teologia tradizionale) che nel “protestantesimo ” si possano trovare già tracciate le vie giuste per l’intesa fra la fede e il mondo moderno.
Un ruolo di primo piano spetta ieri come oggi al principio – di Lutero – della Sola Scriptura.
Il cristiano medio di oggi deriva da questo principio che la fede nasce dall’opinione individuale, dal lavoro intellettuale e dall’intervento dello specialista; ed una simile visione gli sembra più “moderna” ed “evidente” che non le posizioni cattoliche.
Da una simile concezione deriva logicamente che il concetto cattolico di Chiesa non è più realizzabile e che si deve cercare un nuovo modello da qualche parte, nel vasto ambito del fenomeno “protestantesimo””.
(Rapporto sulla Fede cap. undicesimo)
Alla Chiesa, si dice, è affidato il ministero pastorale; essa proclama il vangelo ai credenti, ma non insegna ai teologi.
Una tale separazione tra proclamazione e insegnamento è però profondamente in contrasto con la natura del messaggio della rivelazione biblica.
La Chiesa ha realizzato una vera e propria emancipazione dei semplici e ha riconosciuto anche a loro la capacità di essere « filosofi » nel vero senso della parola, cioè di comprendere quanto è proprio e caratteristico dell’umano altrettanto bene, se non addirittura meglio dei « dotti ».
Le espressioni di Gesù circa la stoltezza dei sapienti e la sapienza dei piccoli (in particolar modo Mt 11,25, e paralleli) sono riferite esattamente a circostanze del genere: esse attestano che il cristianesimo è nella sua radice una religione di popolo, una confessione in cui non si dà affatto alcuna differenziazione d’ordine o di classe.
In realtà, l’annuncio mediante la predicazione è insegnamento, e di tipo normativo.
È questa la sua essenza, poiché esso non propone una qualche modalità di impiego del tempo libero o una sorta di intrattenimento religioso. L’annuncio cristiano vuole dire all’uomo chi egli sia e che cosa debba fare per essere davvero se stesso.
Ma come potrebbe, la Chiesa, insegnare in modo normativo, se tale insegnamento dovesse al tempo stesso suonare non normativo per i teologi? L’essenza del magistero ecclesiale consiste proprio nel fatto che la proclamazione della fede è posta come il parametro critico, valido anche per la stessa teologia: proprio quest’annuncio, anzi, costituisce l’oggetto della riflessione teologica.
Per questa ragione, la fede dei semplici non è una specie di teologia « ridimensionata » ad uso e consumo dei laici né una sorta di « platonismo per il popolo ». La verità delle cose sta invece esattamente all’opposto di questa presunzione: è l’annuncio cristiano l’« unità di misura » della teologia, non la teologia l’unità di misura dell’annuncio.
È certamente corretto affermare che la Chiesa, nel suo ministero pastorale, è «abilitata » alla proclamazione dell’annuncio cristiano, e non invece all’insegnamento teologico-accademico.
Ma l’ufficio della proclamazione dell’annuncio cristiano è il magistero anche per la teologia.
(Internationale katholische Zeitschrift Communio, 15 (1986), pp. 526s)
La Chiesa cresce dall’interno all’esterno e non viceversa.
Essa significa innanzi tutto la più intima comunione con Cristo; essa si forma nella vita della preghiera, nella vita sacramentale, negli atteggiamenti fondamentali della fede, della speranza e della carità.
, se qualcuno chiede: cosa devo fare per diventare Chiesa e per crescere come Chiesa, la risposta non può che essere: devi cercare prima di tutto di diventare uno che vive la fede, la speranza e la carità. Ciò che costruisce la Chiesa sono la preghiera e la comunione ai sacramenti, nei quali la preghiera stessa della Chiesa per così dire «ci prende con sé».
Quest’estate ho incontrato un parroco, il quale mi ha raccontato che già da molti anni non era più sorta nessuna vocazione sacerdotale dalla sua comunità. Che cosa avrebbe dovuto dunque fare? Le vocazioni uno non può fabbricarle; solo il Signore può concederle.
Ma per questo noi dovremmo restarcene con le mani in mano? Egli decise dunque di recarsi ogni anno, con un pellegrinaggio lungo e faticoso, al santuario mariano di Altòtting con quest’intenzione di preghiera; e di invitare tutti coloro che condividevano l’intenzione al pellegrinaggio e alla preghiera comune.
Anno dopo anno, i partecipanti sono cresciuti di numero, e quest’anno, finalmente, essi hanno potuto festeggiare, con immensa gioia di tutto il villaggio, la prima santa messa, a memoria d’uomo, di un sacerdote del loro paese.
La Chiesa cresce dal di dentro: questo vuol dirci l’espressione « corpo di Cristo »; tuttavia ciò implica immediatamente anche quest’altro elemento: Cristo si è costruito un corpo; se voglio trovarlo e farlo mio, io sono chiamato a farne parte come un umile membro ma in maniera completa, poiché io sono divenuto addirittura un suo membro, un suo organo in questo mondo e di conseguenza per l’eternità. L’idea della teologia liberale per cui Gesù sarebbe interessante, mentre la Chiesa sarebbe una misera realtà, si differenzia completamente da questa presa di coscienza.
Cristo si dà solo nel suo corpo e mai in un mero ideale.
Ciò vuol dire: si dà insieme con gli altri, nell’ininterrotta comunione che attraversa i tempi, la quale è questo suo corpo.
La Chiesa non è un’idea, ma un corpo, e lo scandalo del farsi carne, in cui inciamparono tanti contemporanei di Gesù, continua nella scandalosità della Chiesa;
tuttavia anche a questo proposito vale il detto: « Beato chi non si scandalizza di me ».
Questo carattere comunitario della Chiesa significa poi necessariamente il suo carattere di « noi »: essa non è « da qualche parte », ma siamo noi stessi a costituirla.
Certo, nessuno può dire: « Io sono la Chiesa »; ognuno può e deve dire: « Noi siamo “la” Chiesa », “quella unica Chiesa”.
E questo « noi » non è, a sua volta, un gruppo che si isola, ma che si mantiene piuttosto all’interno della comunità intera di tutti i membri di Cristo, quelli viventi e quelli morti.
Ed è così che un gruppo può davvero dire: « Noi siamo Chiesa ». La Chiesa è qui, in questo « noi » aperto, che apre frontiere (sociali e politiche, ma anche le frontiere tra cielo e terra).
Noi siamo la Chiesa: da questo è cresciuta la corresponsabilità e anche la possibilità di collaborare in prima persona; da ciò è risultato anche, di conseguenza, un diritto alla critica, la quale però deve sempre essere prima di tutto autocritica.
La Chiesa, infatti — ripetiamolo — non è « da qualche parte », non è « qualcun altro »: siamo proprio noi.
Siamo noi – la Chiesa – ma in qualità di “figli adottivi e rigenerati” mediante il Battesimo e come il quarto Comandamento ci dice di onorare i genitori, così anche noi, in qualità di figli, dobbiamo onorare la Chiesa che è Madre e dove solo in Essa si adora davvero il Padre, che ci ha creati, il Figlio che ci ha rigenerati e redenti, e lo Spirito Santo che rende vivi i Sacramenti, la Parola e la varietà di Carismi, sigillo stesso della dottrina di questa Madre.
(Chiesa, ecumenismo e politica, pp. 11s)
Cristianesimo e martirio vanno di pari passo, sì, ma il martire è tutt’altra cosa dal rivoluzionario. Cristo è morto da martire, non da ribelle.
C’era sì il ribelle, di nome Barabba. Per costui s’era adempiuto quanto Cristo aveva detto a Pilato : « Se fosse di questo mondo il mio regno, la mia gente avrebbe combattuto perché non fossi dato nelle mani dei giudei » (Gv 18,36). Per Barabba si fecero barricate, i suoi seguaci richiesero a gran voce la sua liberazione; per Cristo non ci furono cortei di protesta, e nemmeno egli li volle.
In che cosa consiste allora la differenza tra un martire e un ribelle?
Essa si chiarisce se guardiamo al passo in cui, per la prima volta, un cristiano si definisce tale: la prima lettera di Pietro, al capitolo 4, versetto 15s.
L’apostolo Pietro dice qui ai cristiani: « Nessuno di voi abbia a soffrire perché omicida, o ladro, o malfattore, o intrigante; ma se egli soffre come cristiano, per il nome “cristiano”, non abbia vergogna, anzi, renda gloria a Dio perché porta questo nome ».
Da questo testo risulta evidente che, per il cristiano, appartiene al nucleo della sua opzione di fede l’attenersi alla giustizia, anche e perfino in uno Stato in cui non gli sia riconosciuto alcun diritto. Anche in quel caso vale l’invito di Gesù: « Date a Cesare quel che è di Cesare » (Mt 22,21).
Per questo i cristiani, anche nelle epoche di persecuzione, hanno pregato per l’imperatore.
Già nel Nuovo Testamento, nella prima lettera a Timoteo (2,2), nel mezzo di un periodo di sanguinosa oppressione, i cristiani vengono invitati con vigore a pregare «per i re e per tutti quelli che sono costituiti in dignità ».
I cristiani si sono rifiutati di adorare l’imperatore, ma hanno spontaneamente pregato per lui e per la stabilità delle istituzioni.
Già nel II secolo, essi hanno rivendicato d’essere stati proprio loro, i « rei » e i «proscritti », secondo l’opinione dominante, a conservare uniti, mediante le loro vite e le loro preghiere, lo Stato e la società, preservandoli dalla rovina.
(Zeitfragen und christlicher Glaube, pp. 35s)
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1) Conferenze, Omelie, Discorsi del cardinale Joseph Ratzinger (Benedetto XVI)
raccolta di testi “365 giorni con il Papa” – Ed.paoline 2006