Yemen anno III: la guerra “nascosta” di uno “Stato canaglia”

René Naba, Madaniya 24 marzo 2017

Lo Yemen è il cimitero degli invasori. Evitatelo“,
raccomandazione di re Abdalaziz al-Saud, fondatore della dinastia wahabita, ai suoi eredi.

Una passeggiatina divenuta incubo

Il battesimo del fuoco di re Salman bin Abdalaziz nello Yemen, il 25 marzo 2015, a due mesi dall’ascesa al trono, era intesa come dimostrazione di forza del monarca, dopo dieci anni di letargia indotta dal predecessore novantenne Abdullah. Opera del figlio Muhamad bin Salman, principe ereditario del principe ereditario, la spedizione punitiva del monarca ottuagenario, che soffre di una malattia debilitante (alzhaimer), contro il Paese arabo più povero, si è trasformata in un incubo.

La passeggiata si è tramutata in un viaggio all’inferno. Il sovrano, prudente, non aveva preso tutte le precauzioni: la prima guerra frontale della dinastia wahhabita a un secolo dalla fondazione del Regno, vede la coalizione di sette Paesi che allinea 150000 soldati e 1500 velivoli. Una task force assistita dai mercenari delle compagnie militari private dalla sinistra memoria come la Blackwater, e dalla tacita connivenza delle “grandi democrazie occidentali”.

La punizione dev’essere esemplare e scoraggiare chiunque osi opporsi all’egemonia saudita nella zona, specialmente gli huti, setta scismatica del sunnismo ortodosso, tanto più che la dinastia wahabita la considera sua riserva di caccia assoluta, sua camera di sicurezza.

Lo Yemen, il Paese che si trova a destra (Yamin) sulla strada per la Mecca, secondo il significato etimologico. Ma “La tempesta della fermezza” si è rivelata disastrosa, nonostante il blocco navale della Quinta Flotta (Golfo Persico e Oceano Indiano), nonostante il forte aiuto della Francia nello sbarco di truppe lealiste ad Aden dalla base militare francese di Gibuti. Nonostante le truppe saudite addestrate dal contingente della Legione Straniera di stanza nella base francese di Abu Dhabi, la “Zayad Military City”. Nonostante l’installazione di una base logistica saudita nella città portuale di Assab (Eritrea) sul Mar Rosso, per arruolare e addestrare gli ufficiali dell’esercito filo-saudita.

I problemi economici e sociali dello Yemen: un cocktail esplosivo di corruzione e Qat

Il calo dei ricavi del petrolio
Il reddito medio annuo dello Yemen è pari a a 950 dollari all’anno (660 euro), a causa di una decennale guerra civile latente, del declino della produzione del petrolio, della corruzione e del consumo eccessivo di Qat. La produzione di petrolio nello Yemen è precipitata negli ultimi sei anni da 450000 barili al giorno a 180000. Tale andamento è stato compensato dal prezzo elevato del petrolio, pari ancora all’80% delle entrate governative. Ma questa manna si riduce mentre una quota ancora maggiore di denaro viene utilizzata per combattere gli huthi. Gli yemeniti spendono oltre il 6% del PIL (prodotto interno lordo) per le spese militari, mettendosi al 7° posto nel mondo.

Corruzione
Pochi Paesi possono competere con lo Yemen per intensità e creatività nella corruzione. Dei quasi 100000 veterani yemeniti, circa un terzo sono “soldati fantasma”, mai esistiti o mai presentatisi. I comandanti dei fantasmi si tengono gli stipendi e si vendono le loro armi e coperte, alimentando il mercato nero. I fondi non militari vengono deviati, gli uomini d’affari raccolgono enormi profitti mediante contratti a trattativa diretta. E c’è anche la mezaniya, i sussidi che il governo fornisce regolarmente alle tribù per conservarne le strutture; soldi che finiscono spesso nelle tasche dei capi tribali.

Qat
Infine il Qat, grande voce della spesa degli yemeniti che ne devasta i bilanci familiari, insieme alla salute. Questa pianta il cui effetto stimolante è paragonabile a quello delle anfetamine è molto diffusa non solo nello Yemen ma anche nel Corno d’Africa. La sua coltura danneggia l’agricoltura. Grandi consumatori di Qat, gli yemeniti cedono un quarto del loro reddito a questa droga, a scapito di altre voci di spesa del bilancio familiare (istruzione, salute, cibo, abbigliamento).

Lo status di minoranza degli sciiti

Al di là di questo problema, gli huthi, setta minoritaria dell’Islam, subiscono lo stesso stigma degli sciiti del Bahrayn in quanto il primato sunnita nel mondo arabo colpisce chiunque sia sospetto delle pretese egualitarie che ne farebbero saltarne l’egemonia, accusando i manifestanti di essere “agenti dell’Iran”. In realtà, gli huthi e i loro alleati vogliono una maggiore partecipazione nella vita politica del Paese, in proporzione alle loro dimensioni nella popolazione, divisione delle ricchezze e rispetto dello status giuridico riguardo la loro religione.
Il codice dell’eredità rientra tra i problemi, dato che tra i sunniti l’erede maschio ottiene il doppio della quota della figlia, mentre tra gli huti e, in generale, tra gli sciiti, l’eredità viene divisa equamente tra maschi e femmine. In questo conflitto egemonico regionale, l’Iran rappresenta una doppia minaccia, primo come “Stato rivoluzionario” in una zona super-conservatrice, e poi come potenza con sistema elettivo, insultato dagli autocrati del Golfo; due concetti mortali per la monarchia assolutista che è la dinastia wahabita. La frattura tra sciiti e sunniti appare in questo contesto come un modo indiretto per giustificare la lotta contro un Paese, il cui esempio potrebbe contaminare tutte le petromonarchie. Il sultanato dell’Oman rifiuta la logica dell’eliminazione considerando tale conflitto regionale fonte di debolezza per tutti i protagonisti e giustificazione maggiore per la presa straniera in questa zona petrolifera. Un modo per dimostrare indipendenza scuotendosi di dosso la troppo pesante tutela dei sauditi.

Gli huthi prevalgono sui nemici

Nonostante lo squilibrio dei rapporti di forza, gli huthi sono riusciti a prevalere sui loro avversari, che fin dai primi giorni del conflitto hanno subito una disfatta. Le truppe saudite hanno abbandonato le loro posizioni contro i ribelli, lasciando quasi 30 blindati come prede belliche.

In totale 400 soldati sauditi sono stati uccisi nella prima metà del conflitto. La coalizione sunnita, a sua volta, si è incrinata. Il Pakistan si è rifiutato di partecipare per paura di essere sfruttato. L’Egitto ha preso le distanze di fronte alla nascita della tacita alleanza al-Qaida-wahhabiti basata sul sunnismo. E gli Emirati Arabi Uniti se ne sono andati dopo quindici mesi di combattimenti.

Il 13 agosto 2015 rimarrà negli annali di questa guerra: le truppe di Abu Dhabi guidarono l’attacco contro Aden, godendo del supporto tecnologico francese dalla base di Gibuti e dalla stazione aeronavale francese Shayq Zayad, ad Abu Dhabi; ma subirono pesanti perdite in uomini e materiale.

Un centinaio di soldati fu ucciso e una dozzina di carri armati Leclerc distrutti o danneggiati. Il quotidiano libanese”al-Akhbar intitolò che “Aden è il cimitero dei carri armati AMX Leclerc”, orgoglio degli armamenti francesi. A fine agosto scorso, un terribile attacco contro una posizione delle petromonarchie a Marib uccise 92 aggressori, tra cui 45 soldati di Abu Dhabi, 10 sauditi e 5 del Qatar. Con in più la cattura da parte di al-Qaida nella Penisola Arabica di molti soldati e mezzi blindati degli Emirati.

Un premio di 7500 dollari per sortita e una Bentley per ogni pilota saudita

Un disastro assoluto nonostante la presenza di mercenari francesi e piloti statunitensi nelle fila saudite, attratti dal bonus di circa 7500 dollari a sortita, e il premio di una Bentley offerto dal principe Walid bin Talal a ciascuno dei 100 piloti sauditi che partecipano ai bombardamenti nello Yemen. Senza dubbio un modo molto personale di sviluppare patriottismo, senso del dovere e gusto del sacrificio nelle forze armate saudite.

Lo Yemen del Sud contro Sud Arabia

L’Arabia Saudita rispose nel settembre 2015 con l’intervento via terra della coalizione petromonarchica, dando una nuova dimensione al conflitto e portando gli huthi, contestanti la “Pax Saudiana”, a portare la guerra sullo stesso territorio del regno. L’operazione di terra saudita sembrava avere lo scopo di eliminare il trauma inflitto all’opinione pubblica locale dal pesante tributo di Marib e calmare i timori dei mandanti occidentali sulla potenza militare saudita nel concludere la guerra… che appare senza fine.

Turpitudini e imposture

A – Il triplice inganno di Tuaqul Qarman
La guerra petromonarchica contro lo Yemen ha evidenziato il triplo inganno della Nobel per la Pace del 2011 e la depravazione occidentale.
L’unico membro femminile dei Fratelli musulmani che ha vinto il Premio Nobel per la pace nella storia dell’umanità, Tuaqul Qarman, sostiene l’Arabia Saudita nella guerra contro il proprio Paese, in una mossa che ne svela la triplice vergogna.
– Come premio Nobel per la Pace, giustifica una guerra
– Come donna, appoggia i Paesi più regressivi sui diritti umani
– Come yemenita, sostiene gli aggressori del proprio Paese

B – Depravazione occidentale
Complice tacito dell’aggressione della petromonarchia allo Yemen, l’occidente non ha detto una parola contro le gravi violazioni del diritto umanitario internazionale o, peggio, contro l’uso dei gruppi jihadisti nella guerra anti-huthi. Così il partito al-Islah, ramo yemenita della Fratellanza musulmana, è divenuto il ferro lancia della lotta anti-huthi, sebbene la Fratellanza sia inclusa nella lista nera delle organizzazioni terroristiche, mentre al-Qaida e i gruppi di matrice jihadista avanzano notevolmente nel sud dello Yemen.

L’Hadramaut controllato da al-Qaida

Senza tema di smentita, l’Arabia Saudita s’è dedicata, nella nuova guerra dello Yemen, a sviluppare una piattaforma operativa con al-Qaida, suo nemico intimo, affinché nell’Hadramaut (Yemen del Sud) abbia uno sbocco sul mare che gli permetta di bypassare lo stretto di Hormuz, entro la gittata dell’Iran.

Nel sud dello Yemen una lotta sorda per l’influenza oppone Arabia Saudita e Abu Dhabi sul grado di cooperazione con il partito al-Islah, incubo di Abu Dhabi, sovrapponendosi a un conflitto latente tra Fratelli musulmani e “al-Qaida nella penisola arabica” per il controllo del sud dello Yemen. Gli EAU hanno anche sospeso la partecipazione alla guerra il 16 giugno 2016, dopo 15 mesi, lasciandovi 52 soldati uccisi e 3 elicotteri abbattuti.

L’Hadramaut quindi è caduto sotto l’influenza di al-Qaida. Paradossalmente, grazie alla spinta della Francia nello sbarco di truppe filo-saudite ad Aden, partite dalla base militare francese di Gibuti, e il sostegno francese alle truppe saudite, fornito dal contingente della Legione straniera schierato sulla base aerea francese ad Abu Dhabi.

L’Hadramaut è la più grande provincia dello Yemen del Sud, pari a un quinto del territorio del sud, divenuto santuario di al-Qaida dove impone la propria legge, e ne depreda la ricchezza: le merci che passano dal porto di Muqala e le royalties sul transito di petrolio. L’Hadhramaut è per al-Qaida ciò che il nord della Siria è per lo SIIL, una leva terroristica nelle mani dei sauditi, al pari dello SIIL per conto della Turchia.

Sauditi e francesi pensavano di sviluppare una piattaforma regionale per il presidente yemenita in esilio Abdarabu Mansur Hadi, per affermarne simbolicamente l’autorità sul Paese, ma in agguato al-Qaida vinse la scommessa, come in un cattivo remake di un brutto film. I belligeranti sauditi e i loro alleati francesi sembrano avere perso di vista il fatto che lo Yemen è la patria del fondatore di al-Qaida, Usama bin Ladin. Impantanata da due anni nello Yemen, nonostante l’armata mobilitata, la dinastia wahhabita sprofonda nella maggiore confusione, spingendo così il movimento di al-Qaida, così come il partito al-Islah, vicino ai Fratelli musulmani, entrambi sulla lista nera delle petromonarchie, ad essere promossi ancora una volta al rango di partner inconfessabili. La guerra frontale contro lo Yemen doveva distruggere il piccolo vicino imponendo permanentemente la sfera d’influenza saudita e disinfettare ogni accenno di protesta. In caso contrario, la dinastia wahabita avrebbe cercato di provocare una nuova partizione nello Yemen per reinstallarvi la sua polena, il presidente Abdurabu Mansur Hadi, che abbandonò il potere scacciato dagli oppositori huti.

I risultati dopo 18 mesi di conflitto

Un’indagine del Guardian in collaborazione con Yemen Data Projectm sostiene che più di un terzo degli attacchi aerei dell’Arabia Saudita ha preso di mira siti civili e non militari, gestiti dai ribelli sciiti.

– Almeno 8600 bombardamenti aerei sono stati effettuati dalla coalizione saudita su 3577 siti militari e 3158 siti “non militari”

– Almeno 942 attacchi hanno preso di mira zone residenziali, 114 mercati, 34 moschee, 147 strutture scolastiche e 26 università

Per saperne di più.

La guerra allo Yemen è costata quasi 10000 vite dal 25 marzo 2015, secondo un rapporto delle Nazioni Unite pubblicato il 30 agosto 2016, dopo 18 mesi di conflitto. La relazione, l’ultima di un organismo ufficiale internazionale, non specifica la percentuale di vittime civili. Rappresenta più del doppio di quello in precedenza preparato da funzionari e organizzazioni umanitarie.

Questa valutazione è destinata ad aumentare perché alcune regioni sono prive di strutture mediche e le vittime sono spesso sepolte senza essere registrate, secondo il coordinatore umanitario delle Nazioni Unite Jamie McGoldrick.

Il conflitto armato ha aggravato la crisi umanitaria e alimentare della popolazione yemenita. Il conflitto ha creato tre milioni di profughi e costretto 200000 persone all’esilio. Su una popolazione di 26 milioni, 14 milioni hanno bisogno di assistenza alimentare, e sette milioni soffrono d’insicurezza alimentare e più di 21 milioni (l’80% della popolazione) sono privati da un accesso adeguato a cibo e servizio di prima necessità come acqua potabile, cure mediche, elettricità e combustibili. Diversi ospedali sono stati bombardati nel 2016, spingendo l’ONG MSF ad evacuare il proprio personale da sei centri, il 18 agosto 2016.

Una guerra a porte chiuse

La guerra dello Yemen si svolge a porte chiuse. Alcuna voce della grande coscienza umana, né Bernard Kouchner, fondatore di “Medici senza Frontiere”, né Bernard Henry Lévy, teorico del botulismo, si sono presi la briga di denunciare tale massacro occultato, per non parlare di Laurent Fabius, ex-ministro degli Esteri, il cui partner siriano di al-Qaida, Jabhat al-Nusra, faceva “un buon lavoro in Siria”.

Dopo due anni di massacri nascosti, l’ONU accusava l’Arabia Saudita di aver usato armi non convenzionali (bombe a grappolo e armi chimiche) e che sarebbe stata colpevole di crimini guerra e contro l’umanità.

Ma il regno, forte della sua potenza finanziaria, minacciò di ridurre i fondi alle Nazioni Unite e a tutte le agenzie specializzate, come l’UNRWA (Agenzia soccorso dei profughi palestinesi) se ne fosse stata processata. Peggio, la dinastia wahabita minacciò una fatwa con cui gli ulema sunniti avrebbero decretato “nemico dell’Islam” l’ONU. Un comportamento degno di uno Stato canaglia.

Il bombardamento di un quarto ospedale gestito da “Medici senza frontiere” in Yemen, pediatrico, nell’agosto 2016, sarà fatale per la reputazione saudita, con la conseguente partenza parziale dei consiglieri militari, ansiosi di non essere perseguiti per “crimini di guerra”.

Il bombardamento di una cerimonia funebre, l’8 ottobre 2016 a Sana, che causò 140 morti tra i civili, aumentò i pregiudizi occidentali sulla condotta della guerra dei sauditi, spingendo gli Stati Uniti a distinguersi ancora più dai loro alleati petromonarchici specificando pubblicamente che la cooperazione degli USA con i sauditi in questo settore non è un “assegno in bianco”.

Ulteriore affronto, una grande manifestazione di sostegno agli huthi avvenne il 20 agosto 2016 a Sana, controllata dai ribelli sciiti alleati dell’ex-Presidente Ali Abdallah Salah dal settembre 2014, in risposta al bombardamento regolare della città da parte dei sauditi.

Il presidente nominale dello Yemen in esilio in Arabia Saudita e il leader dei Fratelli musulmani yemeniti in esilio in Turchia

La riunione quadripartita del 26 agosto a Jidah tra John Kerry e i suoi colleghi di Arabia Saudita, Emirati Arabi e Regno Unito per individuare una “via d’uscita onorevole” per le petromonarchie, provocò le forti reazioni di altri protagonisti islamici che temevano una trappola. Lo SIIL rivendicò tre giorni dopo, il 29 agosto, un attentato ad Aden che fece 60 morti tra le reclute del nuovo esercito yemenita sponsorizzato dai sauditi, e il capo di al-Islah, Muhamad Abdallah al-Badumi, dalla residenza turca, annunciava la formazione di un gruppo di facciata islamista radicale yemenita, in alleanza con il movimento salafita del partito al-Rashad (saggezza), per condurre una lunga guerra di religione contro gli huthi. (al-Akhbar)

Strano Paese, il cui presidente nominale Abdal Abdurabu Mansur Hadi vive in esilio a Jidah sotto il giogo del suo sponsor saudita, e il capo dei Fratelli musulmani yemenita, altro principale attore del teatro, che vive in esilio nella Turchia guidata dal suo mentore neo-ottomano… dove si agitano come burattini manipolati dai loro mandanti.

Lo Jasta: tessera aggiuntiva

Ulteriore tessera: mentre il regno è impantanato in un conflitto senza fine nello Yemen, il Congresso degli Stati Uniti votava lo JASTA (Justice Against Sponsors of Terrorism Act). L’adozione di questa legge, il 9 settembre 2016, permette agli statunitensi di perseguire il regno saudita per il risarcimento del danno inflitto dai dirottatori, collocando una spada di Damocle sulla dinastia wahabita. 15 dei 19 autori degli attacchi dell’11 settembre a New York e Washington erano sauditi. L’attacco fu sponsorizzato da al-Qaida.

Le incursioni contro i simboli della superpotenza statunitense fecero 3000 morti. Il Consiglio Comunale di New York chiede un risarcimento di 95 miliardi di dollari per la distruzione del World Trade Center, annettendovi la distruzione e la perdita dei servizi pubblici (vigili del fuoco, poliziotti).

In totale, i danni degli Stati Uniti sono stimati a circa 3000 miliardi di dollari (tremila miliardi di dollari). Riflettendo sul suo partner saudita, il governo socialista francese sprofondava nella totale confusione perché l’alleanza con l’incubatore di jihadismo globale ne ostacola le chiacchiere sulla “guerra di civiltà” di Manuel Valls, il primo ministro che non vuole perdere.

Alleandosi con i nemici? Altro esempio di razionalità cartesiana? L’Arabia Saudita è emersa sul mercato internazionale delle armi come seconda potenza dell’importazione dopo l’India, con 9,7 miliardi di dollari in armi importate tra il 2010 e il 2015, secondo Amnesty International. Questa cifra non include le armi leggere.

Tra i maggiori esportatori al mondo, elencati in ordine decrescente, Stati Uniti, Russia, Cina, Germania, Francia e Regno Unito. L’azione del governo di François Hollande ha avuto particolare successo in questo settore, con un record di 15 miliardi di ordini firmati nel 2015, seguito da Stati Uniti (6 miliardi) e Regno Unito (4 miliardi), secondo l’Istituto di ricerca internazionale per la pace di Stoccolma (SIPRI).

Lo Yemen è il cimitero degli invasori. Evitatelo“, raccomandava re Abdalaziz al-Saud, fondatore della dinastia wahabita, ai suoi eredi. Ovviamente gli eredi non se ne preoccupano e la pagano… salata. Quattro petromonarchie (Arabia Saudita, Qatar, Kuwait, Emirati Arabi Uniti) conclusero nel 2016 contratti bellici per circa 40 miliardi di dollari con gli Stati Uniti. Tale operazione si verifica durante la piena recessione economica di questi Paesi, per giunta protetti da una sfilza di basi militari lungo il Golfo Persico, che appare come una polizza di assicurazione contro ogni tentativo di destabilizzarli, mentre Arabia Saudita e Qatar sono particolarmente nel mirino dell’opinione pubblica internazionale per il ruolo nella promozione del terrorismo islamico internazionale. Si ritiene che Riyadh e Doha abbiano speso 40 miliardi di dollari in sei anni per le guerre in Libia, Siria e Yemen. Con grande soddisfazione di NATO e Israele, uno Stato indicato ufficialmente nemico del mondo arabo.
La moralità, almeno la morale del grande capitale, che emergerebbe dalla guerra allo Yemen è questa: il dollaro è il re e il re del petrodollaro si nomina ipso facto Re dei Re, mentre ricicla petrodollari nei circuiti della finanza globale. La morale canagliesca di uno Stato canaglia.

Traduzione di Alessandro Lattanzio – SitoAurora

 

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