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Ogni tanto ci succede. Al mattino, per lo più, al momento della prima colazione. In cucina, al vecchio tavolo di legno, naturalmente, davanti alla tazzina di caffè fumante. Oggi è successo.
Mentre parliamo del più e del meno, ma soprattutto dei nostri sei figli, che restano l’argomento principale delle conversazioni mattutine, il pensiero vola al bambino che non è nato. Parafrasando il titolo di un racconto di Guareschi, questo figlio lo chiamo il settimo clandestino.
Se fosse nato, oggi avrebbe venticinque anni. Ne parlo al maschile ma in realtà non sappiamo se era un lui o una lei. L’aborto spontaneo arrivò presto. Aveva però un nome: fosse stato maschio, Tommaso; fosse stata femmina, Benedetta. Nomi che poi non abbiamo mai più dato ai figli arrivati dopo. Perché il settimo clandestino, benché sia rimasto misterioso, era ed è unico, e a noi è sembrato giusto comportarci come fanno le squadre di calcio, quando ritirano la maglia di un grande giocatore che ha terminato la sua attività, perché è stato unico e nessuno potrà essere più come lui.
A dire il vero, né Santa Subito né io ci siamo mai interrogati troppo sul settimo clandestino. Non ne abbiamo avuto il tempo. Dopo la sua prematura sparizione, arrivò Silvia, la nostra terza, e poi ecco le gemelle Anna e Paola, e infine Laura, l’ultima, la sesta. Ora però i figli sono grandi, Santa Subito e io ci avviciniamo alla vecchiaia, e questa è la stagione in cui ogni tanto ci si guarda, si sospira e si pronuncia un «ma» che è un po’ domanda e un po’ esclamazione, e resta lì sospeso: «Ma… Chissà… Chissà come sarebbe andata se… Ma… Chissà come sarebbe stato se…».
Verso il settimo clandestino nutriamo un amore tutto particolare. Non abbiamo rimpianti e non proviamo amarezza. Se il buon Dio ha voluto così, un motivo c’è, e noi siamo certissimi che il suo disegno su di noi è sempre stato e sempre sarà buono, il meglio che ci possa essere. Nessuna recriminazione. Anzi, gratitudine per questa grazia misteriosa. Però, in questa fase della vita, ci prende a volte una certa curiosità retrospettiva, intessuta di una speciale tenerezza. Come sarebbe stato il nostro Tommaso? Come sarebbe stata la nostra Benedetta? Anche a lui, anche a lei, sarebbe piaciuto leggere, come al suo unico fratello maschio e alle sue cinque sorelle? E che studi avrebbe scelto? E avrebbe suonato qualche strumento? Anche lui, anche lei, avrebbe fatto il tifo per l’Inter? Ma… chissà…
Una cosa è certa: sebbene non abbia visto la luce, quel bambino, quella bambina, c’era e c’è. È stato ed è persona. Ed ora sicuramente ci guarda, e nel suo modo imperscrutabile sta dentro il gruppo.
Ieri ho fatto il primo presepe, quello secondo la tradizione della mia famiglia d’origine, al quale seguirà nei prossimi giorni il secondo presepe, quello fatto secondo la tradizione della famiglia di Santa Subito (doppio presepio, doppia gioia, doppia festa: ci piace raddoppiare il bello). E mentre sistemavo il muschio, la carta per le colline, le casette e la capanna, ho avvertito qualcosa come un leggerissimo refolo d’aria. Come se qualcuno mi avesse sfiorato. Mi sono voltato: nulla. Allora mi son guardato attorno, ho pensato al settimo clandestino e gli ho detto che ero contento che fosse lì. Poi ho chiamato Anna, Paola e Laura, per l’allestimento finale, e mentre loro collocavano al posto giusto Maria e Giuseppe, il bue e l’asino, i pastori, le pecore, il pozzo, il ponte, le oche, le galline, la staccionata, le luci, ho avuto l’impressione che altri due occhi fossero lì a scrutare il tutto, spalancati per la meraviglia.
Da quando la Chiesa ha abolito il limbo, non è chiaro dove siano i bambini come il settimo clandestino. Certe volte penso che potrebbero essere in una speciale sezione del paradiso, dove giocano a nascondino, ci mandano baci e ci aiutano a fare il presepio.
Poi magari nelle vie del cielo ci sono crocicchi nei quali i bambini di quella speciale sezione di paradiso si mettono sul ciglio della strada, come fanno i portatori di borracce con i corridori del Giro d’Italia, e consegnano qualcosa ai bambini in transito, a quelli che stanno per arrivare quaggiù. Un sorriso, un colore, uno sguardo: li consegnano ai bambini che passano velocissimi e dicono: «Per favore, portateli ai miei genitori, ai miei fratelli». E i discesisti, benché impegnati a scapicollarsi verso il mondo, afferrano il dono al volo e non lo mollano finché non approdano qui da noi.
Comunque pregusto già il momento dell’incontro. Quando, una volta tornati alla casa del Padre, ecco che un ragazzo bellissimo, o una ragazza bellissima, si avvicinerà a noi. Avrà gli occhi scuri di Giovanni, o quelli chiari di Anna e Laura, o quelli grandi di Paola? Avrà il sorriso di Giulia o il nasino di Silvia? Magari sarà un riassunto di tutti quanti. Di certo avrà qualcosa di familiare. Ci farà l’occhiolino e noi, senza bisogno di parole, capiremo. Allora sarà possibile finalmente abbracciarci, e lui, o lei, ci prenderà per mano e dirà «Venite!», e ci porterà a vedere il suo bellissimo presepio. Vivente. Permanente.
Aldo Maria Valli
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