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Cari amici del blog Duc in altum, oggi scrivo in ritardo, rispetto alle mie abitudini, per ché ho voluto leggere, rileggere e meditare il contributo che Benedetto XVI ci ha fornito con l’articolo per il mensile tedesco Klerusblatt, presentato ai lettori italiani dal Corriere della sera.
Nell’articolo Benedetto XVI si occupa del dramma degli abusi sessuali nella Chiesa e lo fa, con la consueta chiarezza, partendo da un’analisi storica della situazione ecclesiale nel ventennio 1960 – 1980, durante il quale, sotto il profilo della morale sessuale, ci fu, scrive, «un processo inaudito, di un ordine di grandezza che nella storia è quasi senza precedenti».
Nella teologia morale avvenne un terremoto. L’ideologia della «libertà sessuale» entrò nella Chiesa cattolica e le conseguenze non si fecero attendere, come si vide dal collasso delle vocazioni e dall’enorme numero di dimissioni dallo stato clericale.
La teologia cattolica abbandonò il giusnaturalismo (l’idea che le relazioni possano essere fondate su norme di condotta immutabili e valide universalmente) per cercare di delineare una teologia morale completamente fondata sulla Bibbia.
Fu lungo quella strada che si approdò alla tesi secondo cui la morale può essere definita solo in base agli scopi dell’agire umano. «Perciò non poteva esserci nemmeno qualcosa dì assolutamente buono né tantomeno qualcosa dì sempre malvagio, ma solo valutazioni relative. Non c’era più il bene, ma solo ciò che sul momento e a seconda delle circostanze è relativamente meglio».
Benedetto XVI ricorda la battaglia intrapresa da san Giovanni Paolo II, che con la Veritatis splendor ribadì che ci sono azioni umane che vanno sempre considerate malvagie, qualunque sia la situazione. E a questo proposito scrive parole alle quali noi cattolici, ormai immersi nel relativismo, non siamo più abituati: «Ci sono beni che sono indisponibili. Ci sono valori che non è mai lecito sacrificare in nome di un valore ancora più alto e che stanno al di sopra anche della conservazione della vita fisica. Dio è di più anche della sopravvivenza fisica. Una vita che fosse acquistata a prezzo del rinnegamento di Dio, una vita basata su un’ultima menzogna, è una non-vita. Il martirio è una categoria fondamentale dell’esistenza cristiana».
«Qui ne va dell’essenza stessa del cristianesimo» annota Ratzinger, ma la Chiesa doveva sperimentare un altro passaggio. E cioè l’idea che al magistero spetti una competenza ultima e definitiva, al più, sulle questioni di fede, ma non su quelle di morale, come se la fede e la morale potessero essere separate. Con il che si è preteso di ridurre la Chiesa al silenzio «proprio dove è in gioco il confine fra verità e menzogna».
Quella che Ratzinger definisce la «dissoluzione dell’autorità dottrinale della Chiesa in materia morale» non poteva non avere ripercussioni sulla vita della Chiesa nelle sue varie espressioni e in particolare sul sacerdozio. A questo proposito Benedetto XVI non esita a parlare di «un ampio collasso della forma vigente sino a quel momento» nei cammini di preparazione e fa un’affermazione perentoria: «In diversi seminari si formarono club omosessuali che agivano più o meno apertamente e che chiaramente trasformarono il clima nei seminari».
Ratzinger fornisce esempi e nessuno li può contestare. Inoltre, «poiché dopo il Concilio Vaticano II erano stati cambiati pure i criteri per la scelta e la nomina dei vescovi, anche il rapporto dei vescovi con i loro seminari era differente. Come criterio per la nomina di nuovi vescovi valeva ora soprattutto la loro “conciliarità”, potendo intendersi naturalmente con questo termine le cose più diverse. In molte parti della Chiesa, il sentire conciliare venne di fatto inteso come un atteggiamento critico o negativo nei confronti della tradizione vigente fino a quel momento, che ora doveva essere sostituita da un nuovo rapporto, radicalmente aperto, con il mondo». E qui il professor Ratzinger si leva un piccolo sasso dalla scarpa: «Forse vale la pena accennare al fatto che, in non pochi seminari, studenti sorpresi a leggere i miei libri venivano considerati non idonei al sacerdozio. I miei libri venivano nascosti come letteratura dannosa e venivano per così dire letti sottobanco».
La cosiddetta questione della pedofilia (che in realtà andrebbe definita questione dell’efebofilia dato che nella stragrande maggioranza dei casi riguarda abusi su soggetti appartenenti alla medio-tarda adolescenza) va posta in questo quadro generale, e Benedetto XVI, ricordando il suo lavoro alla Congregazione per la dottrina della fede durante il pontificato di Giovanni Paolo II, sottolinea lo sforzo di quegli anni, teso, attraverso la competenza sui «delicta maiora contra fidem», ad andare oltre il garantismo per arrivare a tutelare il bene della fede. «In effetti è importante tener presente che, in simili colpe di chierici, ultimamente viene danneggiata la fede: solo dove la fede non determina più l’agire degli uomini sono possibili tali delitti».
E siamo così alla parte finale della riflessione. Che fare?
La «ricetta» di Benedetto XVI è tanto semplice quanto radicale: tornare alla fede in Dio. Non è questione di scelte politiche. È questione di fede. «Il Signore ha iniziato con noi una storia d’amore e vuole riassumere in essa l’intera creazione. L’antidoto al male che minaccia noi e il mondo intero ultimamente non può che consistere nel fatto che ci abbandoniamo a questo amore. Questo è il vero antidoto al male. La forza del male nasce dal nostro rifiuto dell’amore a Dio. È redento chi si affida all’amore di Dio. Il nostro non essere redenti poggia sull’incapacità di amare Dio. Imparare ad amare Dio è dunque la strada per la redenzione degli uomini».
La scelta non può che essere una: andare contro la logica del mondo e abbracciare Dio. Se la Chiesa abbraccia il mondo, se si secolarizza, diviene come il mondo e mette l’uomo al posto di Dio. Ma così non si acquista la libertà. Così si va incontro alla perdizione.
«Una società nella quale Dio è assente – una società che non lo conosce più e lo tratta come se non esistesse – è una società che perde il suo criterio. Nel nostro tempo è stato coniato il motto della “morte di Dio”. Quando in una società Dio muore, essa diviene libera, ci è stato assicurato. In verità, la morte di Dio in una società significa anche la fine della sua libertà, perché muore il senso che offre orientamento. E perché viene meno il criterio che ci indica la direzione insegnandoci a distinguere il bene dal male. La società occidentale è una società nella quale Dio nella sfera pubblica è assente e per la quale non ha più nulla da dire. E per questo è una società nella quale si perde sempre più il criterio e la misura dell’umano.
Dunque, di fronte alla domanda su come hanno potuto gli abusi raggiungere una dimensione del genere, «in ultima analisi il motivo sta nell’assenza di Dio». Purtroppo però «anche noi cristiani e sacerdoti preferiamo non parlare di Dio, perché è un discorso che non sembra avere utilità pratica». E il sostanziale rifiuto di Dio si riflette nel declassamento dell’Eucaristia.
«Il nostro rapporto con l’Eucaristia non può che destare preoccupazione». Infatti non vediamo «un nuovo profondo rispetto di fronte alla presenza della morte e risurrezione di Cristo, ma un modo di trattare con lui che distrugge la grandezza del mistero. La calante partecipazione alla celebrazione domenicale dell’Eucaristia mostra quanto poco noi cristiani di oggi siamo in grado di valutare la grandezza del dono che consiste nella Sua presenza reale. L’Eucaristia è declassata a gesto cerimoniale quando si considera ovvio che le buone maniere esigano che sia distribuita a tutti gli invitati a ragione della loro appartenenza al parentado, in occasione di feste familiari o eventi come matrimoni e funerali. L’ovvietà con la quale in alcuni luoghi i presenti, semplicemente perché tali, ricevono il Santissimo Sacramento mostra come nella Comunione si veda ormai solo un gesto cerimoniale. Se riflettiamo sul da farsi, è chiaro che non abbiamo bisogno di un’altra Chiesa inventata da noi. Quel che è necessario è invece il rinnovamento della fede nella realtà di Gesù Cristo donata a noi nel Sacramento».
Vorrei chiudere con queste parole di Benedetto XVI: «Dobbiamo urgentemente implorare il perdono del Signore e soprattutto supplicarlo e pregarlo di insegnare a noi tutti a comprendere nuovamente la grandezza della sua passione, del suo sacrificio. E dobbiamo fare di tutto per proteggere dall’abuso il dono della Santa Eucaristia».
Tutto il resto è contorno. O un modo per distogliere l’attenzione dal problema vero.
Aldo Maria Valli
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