“Africa – Sognare oltre l’emergenza” è stato curato per le ed. Paoline da Fabrizio Floris, Mario Piazza, Gianmichele Portieri, Fausto Lonati e Gabriele Smussi. L’opera si propone di trasmettere il senso dell’azione di Gino Filippini – “quarant’anni a fianco degli ultimi” – come missionario laico in Africa. Bresciano, perito industriale capotecnico, Gino dal 1967 s’inserisce nel servizio volontario internazionale (SVI). In vari periodi insegna nelle missioni in Burundi, dove rimane fino al 1972. Successivamente, nella società agricola ruandese fornisce il suo contributo nel realizzare ed organizzare cooperative agricole per rendere le terre paludose abitabili e coltivabili. Fino al 1991 si sposta spesso tra Congo, Uganda e Tanzania per seguire varie opere missionarie. La sua priorità è scoprire sempre quali siano le chance da giocare da questi popoli, siano esse risorse umane o materiali, valorizzando quello che già c’è, con un approccio non assistenzialista che spesso critica aspramente.
Le riflessioni tra i volontari negli anni ’60-‘70 sono critiche, a ragione, soprattutto verso il colonialismo: gli obiettivi di progresso introdotti inopinatamente dalle società occidentali corrodono e turbano la cultura e la società africana. Così, quando dopo il colonialismo i paesi africani si troveranno a decidere della loro sorte e dovranno amministrarsi da soli, non ci riusciranno. La concezione di sviluppo e i modelli di realizzazione umana introdotti nella società civile e nelle comunità africane, rette fino ad allora dai legami tribali, nella maggior parte dei casi genereranno catastrofi. Per l’avidità di pochi aumenteranno le disparità sociali, e infine nel caso del Burundi scateneranno lotte etniche per l’acquisizione del potere. In particolare il genocidio del Burundi in un mese farà 300.000 vittime e Gino, che vedrà i suoi alunni uccisi perché istruiti, sentirà tutti i suoi sforzi come annullati e ne uscirà sconvolto. Al genocidio del Burundi seguirà quello del Ruanda, e queste vicende segneranno profondamente Gino e i suoi amici.
Il senso di dolore, la delusione, lo scoramento sarà grande, ma un lungo periodo di riflessione farà ripensare profondamente il suo impegno. Bisognava decidere: riempire dei buchi o percorrere una strada che serva e rimanga una volta per tutte. Così chiede al Signore di immedesimarsi totalmente perché “il problema sta nelle radici e non negli effetti” e deciderà ogni giorno di seguire sempre più il suo cuore: “Il Padreterno mi darà indicazioni, per adesso mi dice di andare avanti”. Andare avanti sarà “per sempre”: lo fa arrivare, quasi seguendo l’esodo di tanti africani dalle campagne arse alle città, alla baraccopoli di Korogocho, dove conoscerà padre Alex Zanotelli e con cui collaborerà in modo insostituibile per quindici anni, fino alla fine.
Di fronte alla testimonianza di Gino Filippini il lettore trova anche per sé l’urgenza di una sensibilità d’avere e da domandare, unico modo adeguato per vivere. Leggendo le sue lettere, le trascrizioni dei suoi interventi, entrando in intimità con la sua vita, a mano a mano si farà sempre più chiaro il motivo per cui la gente della bidonville di Korogocho chiamerà Gino Filippini, alla fine del suo percorso terreno, ’the shower’, il seminatore. Korogocho è una delle quattro grandi baraccopoli di Nairobi e sorge su un’enorme discarica dove hanno trovato posto una miriade di baracche di fango e lamiera. Tra fogne a cielo aperto, odori forti, le esalazioni nocive della discarica, la gente vive nella miseria. Senza acqua o elettricità, senza assistenza sanitaria, con moltissimi malati di AIDS, i problemi sono enormi, ma scrive Gino: “Tra questa gente accade che il Dio dei poveri trovi sempre suoi spazi per rispondere a chi lo cerca e dargli forza di non demordere”. Si accorge che ferve la vita anche tra le baracche annerite e i rivoli di liquame, e di questa vita si farà compagnia con la scoperta che anch’essa ha il suo valore. Saranno sempre l’ascolto e l’imparare dalla realtà le basi del suo metodo, che coniugherà poi i mille modi d’intervento nelle situazioni concrete. Perché si può partire se non da ciò che già c’è, dalle attese di un uomo, dai suoi bisogni veri. Lo fa innanzitutto per lui: imparerà la lingua locale e domanderà alla gente quali sono i propri bisogni, per capire la situazione e decidere cosa fare, anche se questo vorrà dire anche aspettare due anni per una risposta, come nell’88 in Congo.
Consapevole che l’urgenza più grande è aiutare i ragazzi ad avere una chiarezza sullo scopo della propria vita, costituirà “education for life” (educazione per la vita), nient’altro che una scuola ma indispensabile e geniale: per molti giovani la possibilità di essere strappati dalla droga, dall’alcool, dalla prostituzione, dal pericolo dell’Aids, la possibilità di incontrare concretamente una visione positiva della vita. Per questo guiderà i ragazzi a seguire il tronco che si inabissa nel terreno fino alle radici dell’albero, dove è nascosta la fonte della sua vitalità: se non vi fosse arrivato così vicino, non sarebbe riuscito ad esprimere l’amore che ci ha lasciato. Nella bidonville di Korogocho sarà possibile rispondere a quell’attesa del cuore per un fatto semplice: quest’attesa del cuore esiste.
L’impressione che si ha leggendo il libro è quella di rintracciare i segni inconfondibili di un’umanità capace di stare davanti a tutto. Solo una pienezza capace di risvegliare negli altri la propria umanità può essere capace di porsi come compagnia. Per Gino questa pienezza non era per nulla scontata, tant’è che tutta la sua vita e la sua opera vengono tracciate dalla santa inquietudine. Perciò quando avvertiva di perdere il senso del proprio servizio e la capacità di amare, era consapevole che “si può recuperare questi doni preziosi solo ai piedi del Signore” (Annalena Tonelli). Il desiderio del proprio cuore non può essere soffocato dalle vicende e dalla condizione umana ma è insopprimibile. E’ così vero che Gino ha scritto che “la vita prende un significato così alto al cospetto di queste persone” ed è per questo motivo che padre Alex Zanotelli nella sua prefazione scrive: “La sua vita era un Vangelo vivente, pane spezzato e mangiato dai poveri”.
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