L’economista Ashoka Mody torna a parlare di Europa e del risorgere del nazionalismo. Nell’attuale situazione ibrida della UE – via di mezzo tra stato sovrano che rappresenti realmente un popolo e organo sovranazionale di solo coordinamento – è la stessa Ue a provocare il rifiorire di sentimenti nazionalisti. Nella totale assenza della volontà politica di evolvere verso uno stato unitario, l’unica possibile soluzione per l’Ue è ritrarsi per lasciare maggiore spazio agli stati-nazione, sola organizzazione dotata di legittimità e responsabilità democratica. Nel frattempo, come diceva George Washington, è opportuno che per ciascun paese sia l’interesse nazionale a guidare la politica nazionale, anche nei confronti dei più stretti partner commerciali.
Di Ashoka Mody, 2 maggio 2019
Hanno ragione i leader europei a preoccuparsi che, senza la più vigile sorveglianza, un virulento nazionalismo possa ancora scatenarsi con la piena forza del suo potenziale distruttivo. Sono convinti che l’Europa sia essenziale per prevenire questo terribile risultato. Ma è davvero possibile un’Europa stabile, creativa e unificatrice?
Nel maggio 1950, il ministro degli esteri francese Robert Schuman stabilì il percorso. La Francia e la Germania, annunciò, avrebbero condiviso le proprie industrie del carbone e dell’acciaio, e altri paesi erano invitati a unirsi all’iniziativa. Tuttavia, questo non era che un primo passo, sottolineò Schuman. L’obiettivo era quello di rimpiazzare le nazioni-stato con una “Federazione Europea”, perché una federazione, dichiarò, era “indispensabile alla pace”.
Ma i leader europei al sentire la parola “federazione” si ritrassero immediatamente. Decisero che le industrie condivise, accompagnate da una supervisione, sarebbero state una “comunità”. Questo progetto meno ambizioso ebbe successo. Lo storico Tony Judt nel suo classico “Dopoguerra, la Comunità del carbone e dell’acciaio promossa” lo descrisse come “un nuovo sistema stabile di relazioni internazionali”.
La forte avversione alla federazione si manifestò più chiaramente nell’agosto 1954. L’Assemblea Nazionale francese rifiutò la Comunità Europea della Difesa (Edc), che avrebbe messo in comune le truppe dei paesi membri in un esercito europeo, sostenuto da un budget europeo e da un sistema di governance. Con la riununcia all’Edc, le parole “federale” e “sovranazionale” vennero bandite. Come scrisse poi l’intellettuale francese François Duchêne “l’idea di un’Europa in un certo senso al di sopra delle nazioni” venne screditata.
Tuttavia, sopravvissero le relazioni stabili e fruttifere tra le nazioni-stato europee, che raggiunsero l’apice con il Trattato di Roma, firmato nel 1957. I paesi aprirono le loro frontiere per scambiarsi le merci, ma mantennero i propri diritti di sovranità. Il commercio tra i paesi membri fiorì grazie a un sistema minimo di regole, che vennero rinforzate dalla fiducia reciproca. Come spiegò lo scienziato politico di Princeton Robert Keohane, la “fiducia reciproca” è essenziale al successo delle relazioni internazionali. La semplicissima struttura europea, sostenne lo storico Alan Milward, aiutò a rinforzare e “salvare” lo stato-nazione.
Poi, nel 1991, l’Europa intraprese un vano tentativo di costruire una federazione attraverso la porta di servizio della moneta unica.
Una politica monetaria unica è spesso troppo restrittiva per gli stati membri più deboli e quindi li penalizza. I trasferimenti fiscali necessari avrebbero richiesto un accordo politico sotto l’ombrello degli “Stati Uniti d’Europa” federati. I leader europei promisero di andare avanti verso questo tipo di unione.
Ma l’unica cosa che riuscirono a concordare furono una serie di regole di bilancio che sarebbero state applicate a tutti gli stati membri. Limitando significativamente le opzioni di politica dei paesi che ne facevano parte, la moneta unica trasformò l’Europa da una “comunità” a una “confederazione di stati”, che restringeva i poteri sovrani cruciali delle nazioni e si basava invece su una gestione intergovernativa sostenuta dalle istituzioni centralizzate.
L’Europa venne intrappolata in questa “confederazione”. Conflitti tra gli stati membri sulle politiche monetarie e fiscali erano inevitabili. Risolvere questi conflitti richiedeva una federazione completa – un’”unione politica” – con poteri di tassazione e di legittima imposizione. Un’unione del genere si dimostrò impossibile, come la storia recente dell’Europa ha dimostrato ampiamente. Smantellare la moneta unica crea pericolosi rischi finanziari.
Una confederazione è strutturalmente instabile, dato che la lotta di potere tra nazioni può rapidamente diventare aspra. Nel 1786, il padre fondatore americano e poi presidente James Madison nelle sue Note sulle Confederazioni Antiche e Moderne documentò con precisione deprimente come le precedenti confederazioni si fossero dissolte nell’anarchia e nell’oblio.
L’unica eccezione – gli Stati Uniti d’America – sottolinea quanto eccezionali devono essere le circostanze per ottenere la transizione da una confederazione a una federazione. Molti stati e molti leader influenti, sostenuti da argomenti intellettuali plausibili, resistettero strenuamente a una struttura federata politica ed economica superiore.
Un colpo di stato virtuale – ispirato da Madison, sostenuto dalla serietà di George Washington, e favorito da numerosi colpi di fortuna nel breve volgere del periodo tra il 1787 e il 1789 – portò alla costituzione degli Stati Uniti. La costituzione stabilì un governo federale con autorità illimitata di tassare, mantenere un esercito, e regolare il commercio tra stati. Perfino con questa struttura federata, gli stati Usa combatterono una sanguinosa guerra civile nel 1860, prima di far emergere una federazione stabile.
George Washington, che appoggiava una federazione nel suo paese, insisteva nel tenere le relazioni internazionali a distanza. Nel suo discorso di addio, nel 1796, pronunciò queste parole memorabili: “La regola d’oro di condotta per noi, per quanto riguarda le nazioni straniere, è di promuovere le relazioni commerciali, ma avere una connessione politica che sia la più piccola possibile”. Il commercio internazionale può funzionare sulla fiducia reciproca, ma al di là di quello, è l’interesse nazionale, diceva, che deve guidare la politica nazionale. Aggiunse che “non può esistere errore più grande dell’aspettarsi o di calcolare favori tra Nazione e Nazione. Questa è un’illusione che l’esperienza deve curare, che un giusto orgoglio deve scartare” (grassetto di VdE).
Ignorando le lezioni della storia, le Nazioni Europee hanno scelto di essere una confederazione, quello spazio intermedio e instabile che c’è tra le federazioni politicamente legittime e gli stati sovrani indipendenti che lavorano all’interno di una sistema di scambi connesso in maniera blanda e basato sulla fiducia reciproca.
Lo spazio intermedio è “anarchico”, basato su una “logica da rapporto di forze”, come riconobbero Madison e Washington e come lo studioso di relazioni internazionali John Mearsheimer ci ha recentemente ricordato. Il disaccordo è particolarmente probabile quando i benefici politici ed economici di una cooperazione più stretta sono, come nel caso dell’Unione Europea, confusi e divisi in modo non equo tra gli stati membri e tra i cittadini.
Riconoscendo il rischio di anarchia, il filosofo politico Jürgen Habermas vede la continuazione dell’Unione Europea in una confederazione di stati, ma in un assetto idealista internazionale “post-nazionale”. Quello di cui c’è bisogno, dice, è una politica “congiunta” fiscale, budgettaria, economica e sociale, “guidata” congiuntamente dal Consiglio Europeo (l’istituzione dalla quale deliberano i capo di governo europei) e dal Parlamento Europeo. Gli stati-nazione rimarrebbero come autorità amministrative; avrebbero il monopolio dell’uso legittimo della forza sui cittadini, e assicurerebbero le libertà civili. Tale combinazione di stati-nazione più “unione politica” per sostenere l’unione monetaria riceverebbe la legittimazione da una convenzione costituzionale nella quale tutti gli Europei avrebbero voce.
L’economista Thomas Piketty ha usato la sua fama per raccogliere firme per un’altra visione di questo tipo. In un manifesto, i firmatari dicono giustamente che l’attuale governance europea “opaca e irresponsabile”, che si focalizza solamente sugli obiettivi “finanziari e di bilancio”, deve essere rimpiazzata. Al suo posto, un’”assemblea europea”, composta da membri selezionati del Parlamento Europeo e dei Parlamenti Nazionali, deve ottenere l’autorità di tassare i redditi alti, la ricchezza, le emissioni di carbonio e i profitti delle aziende per contrastare urgentemente la disuguaglianza, il riscaldamento globale, l’immigrazione di rifugiati e la mancanza cronica di investimenti.
Gli interessi politici nazionali assicureranno che l’idealismo alla Habermas-Piketty non avanzerà mai oltre la carta su cui è scritto. Ma anche se non fosse così, questi piani sarebbero senza speranza per la loro complessità nell’operare. Le linee incrociate delle autorità che rendono l’attuale sistema “opaco e irresponsabile” diventerebbero ancora più bizantine, e i votanti non sarebbero in grado di discernere le azioni politiche messe in atto dai tanti corpi nazionali e sovranazionali che hanno effetto sulle loro vite quotidiane.
Il presidente della Bce Mario Draghi, che si atteggia a filosofo politico, è un esempio dell’attuale sistema “opaco e irresponsabile”. Gli stati-nazione non sono davvero sovrani, dice. Sono profondamente interdipendenti e quindi “non possono controllare i loro risultati e rispondere ai bisogni fondamentali dei (loro stessi) popoli”. Devono, quindi, sottomettersi alle direttive delle istituzioni comuni tecnocratiche. Per usare le parole di Habermas, Draghi è sedotto dalla “passione per la tecnocrazia”. O, come potrebbe dire il filosofo politico francese Pierre Manent, Draghi considera i “popoli” solo come “agenti economici e morali”, non come “cittadini” che desiderano e meritano una voce nelle decisioni politiche.
Draghi cita l’esempio del coordinamento delle relazioni commerciali internazionali, che, come riconosceva George Washington, hanno grande valore. Quindi Draghi proclama un grande successo la politica monetaria europea amministrata dalla Banca Centrale Europea. Sì, stiamo parlando della stessa Bce che ha peggiorato la crisi finanziaria dell’eurozona, e che poi ha spento l’incendio con la promessa di “fare qualsiasi cosa fosse necessaria”, ma la cui politica “taglia unica che non va bene a nessuno” amplifica la divergenza economica tra i vari stati membri. È la stessa Bce piena di contrasti interni a causa dei conflitti di interesse nazionali, che ha quindi permesso che la psicologia deflazionista si affermasse e che ha finito le armi per combatterla proprio quando l’Europa ferita sta a breve entrando in un’imminente, forse paurosa, recessione.
Al di là della politica monetaria, le tensioni tra gli stati membri hanno sobbollito per molto tempo su una serie di questioni, inclusa la politica estera e la tassazione delle imprese. Conflitti più distruttivi si sono accesi ripetutamente su politiche economiche appropriate e sull’immigrazione.
I tentativi di domare gli episodi di anarchia potenziale rinforzando le linee gerarchiche dell’autorità frustrano le aspirazioni nazionali. Le nazioni collidono in maniera specialmente potente, avverte Mearsheimer, quando gli ordini vengono calati dall’alto da una gerarchia centralizzata, e sono influenzati da un altro stato-nazione potente. La lezione della storia, dice, è che il “fallimento” finale dell’intrusione internazionale provoca inevitabilmente “enormi costi”, incluso un aumento delle proteste e del nazionalismo xenofobo.
Lo stato-nazione è l’unica forma organizzativa dotata di legittimità e responsabilità democratica. I leader europei devono, quindi, fare qualche passo indietro. Devono diminuire la pervasività delle istituzioni europee e rafforzare un nazionalismo affidabile, ispirato alla storia e alle tradizioni di ciascun paese, ma senza antagonismo tra vicini. Come sostengo nel mio libro, Eurotragedia: un dramma in nove atti, molti compiti che ora vengono adempiuti a livello europeo, specialmente la definizione degli obiettivi in materia di politica fiscale e macroeconomica, dovrebbero essere restituiti agli stati-nazione.
Un revival nazionale ottimistico richiede il rinvigorimento dei principi socialdemocratici. Sfortunatamente, negli anni ’80 e ’90 i social democratici hanno esaurito le loro idee, abbandonato i loro tradizionali elettori della classe lavoratrice e riposto la propria fede nell’Europa come soluzione.
Una nuova agenda socialdemocratica – guidata dai governi nazionali, provinciali e locali – deve riportare i propri obiettivi verso il generare giustizia sociale a livello locale. Questa agenda deve avere come fulcro un’istruzione diffusa e di alta qualità. Solo persone maggiormente istruite hanno una reale possibilità di scalare la piramide economica e sociale. La mobilità sociale verso l’alto è centrale per permettere maggiore ottimismo e tolleranza. Se non si dovesse riuscire a spostare il focus verso queste priorità interne, rispetto ai vaghi obiettivi europei, sarebbe assicurata ancora altra anarchia.