Articolo del mese di dicembre 2018 ma non è cambiato nulla, ancora attuale…
di Stefano Aviani Barbacci
Da poco più di un anno vige in Francia una legge da “stato di polizia”, approvata per ferma volontà del presidente Macron, che con ciò ha trasformato in “definitivo” quello stato d’emergenza “temporaneo” decretato dal predecessore Hollande dopo la strage del Bataclan. Trascorso un anno esatto dal varo del provvedimento, il governo vi fa ora ricorso (si parla di centinaia di arresti…) contro la popolazione francese in rivolta, mobilitando una forza che non ha precedenti (89.000 uomini) a contenimento delle dimostrazioni dei cosiddetti gilets jaunes. Non so se qualcuno ci ha prestato attenzione, ma 89.000 uomini sono il 70% dell’esercito siriano (come era nel 2011) ed equivalgono, più o meno, a 8 divisioni dell’esercito all’epoca della II Guerra Mondiale. Dalla parte opposta però non c’è una forza di invasione o il terrorismo… Non è impressionante questo? Di sicuro, i media ci hanno nascosto per anni il malessere profondo della Francia (del resto hanno fatto altrettanto con l’Italia) e anche per questo disponiamo ora di pochi strumenti attendibili per interpretarlo. Ma è chiaro che una protesta di questa portata, che tiene tantissimi dimostranti in strada da ormai 4 settimane, non nasce all’improvviso, né si spiega con pochi centesimi in più sul prezzo della benzina.
Già da qualche anno le manifestazioni popolari non godono più di buona stampa in Europa e sono in tanti adesso che, dalle TV o dai giornali, ci redarguiscono sul carattere anarchico o populista di quelle dei cugini d’oltralpe. Ma dire questo è come lanciare un boomerang a vuoto, perché se la gente manifesta senza alcuna guida è solo perché le organizzazioni ufficiali (dove sono i sindacati?) sono ormai reputate compromesse con il potere. Se poi la gente si auto-convoca col passa-parola o scambia informazioni sui social-media vuol dire che i mezzi di comunicazione ufficiali (i grandi giornali e le televisioni) sono giudicati non più credibili. Servirebbe che si prestasse maggiore attenzione a ciò. Servirebbe che una nuova generazione di intellettuali esaminasse in modo critico la qualità della vita democratica in Occidente. Il residuo rispetto di talune procedure è sufficiente a qualificare come “democratico” un Paese? Possiamo parlare ancora di democrazie autentiche o resta soltanto il guscio vuoto del “formalismo democratico”? Sono domande importanti, anche perché l’Occidente ha la pretesa di esportare il proprio modello ovunque decide che non vi sia ancora democrazia, ma se si guarda agli ultimi 10 anni (si pensi alla Libia…) si deve riconoscere che i risultati sono stati nulli o disastrosi. Perché?
Un esame critico sui rischi di una deriva totalitaria della democrazia in Occidente lo aveva già proposto Giovanni Paolo II, avvertendo che una “democrazia senza valori” si sarebbe trasformata presto o tardi in una nuova forma di totalitarismo che lui definiva “democrazia totalitaria”. Si rileggano al riguardo la Veritatis Splendor del 1993, o taluni discorsi ai parlamenti (quello al parlamento polacco del 15/06/99), e si rileggano in particolare gli scritti raccolti nel libro “Memoria e Identità” (il suo testamento spirituale) del 2005… Ricordo bene l’ostilità dei nostrani Maîtres à Penser e la sufficienza del gruppo editoriale “La Repubblica/Espresso” nei confronti del papa “polacco”, reputato pessimista e poco competente in tema di istituzioni democratiche. Eppure proprio la storia francese mostra che una “democrazia totalitaria” è possibile, sperimentata (ed esportata) nel periodo del “terrore giacobino”. Quanto profetici si rivelano oggi quei moniti di Wojtyla, ora che la globalizzazione ha indebolito il principio di sovranità dei popoli, ora che la democrazia appare ridotta a chiacchiera retorica e vuoto formalismo. Le novità politiche sembrano costruite come in laboratorio (si pensi all’improvvisa comparsa del partito La République En Marche di Emmanuel Macron) e le decisioni più importanti, sottratte al dibattito democratico, dipendono da opache consorterie sovranazionali o dai mitici “mercati”.
Ma ci sono anche altre considerazioni che i fatti del Paese transalpino potrebbero suggerire. La Francia è parte di un alleanza che, in nome della “democrazia”, ha destabilizzato Nord-Africa e Medio Oriente senza curarsi delle conseguenze. Quando è stato il turno della Siria, si è parlato del suo presidente come di un “dittatore sanguinario” da abbattere, omettendo di ricordare che Bashar al-Assdad era stato ospite gradito nella gran parte delle capitali d’Europa fin quasi l’inizio (2010-2011) della guerra siriana e che a Parigi era stato insignito della Legion d’Onore (e a Roma della Gran Croce di Cavaliere della Repubblica) per il suo impegno per la pace in Medio Oriente, per la difesa delle minoranze e lo sviluppo della democrazia in Siria. Chi è dunque Assad? Quanto opportunismo nel riqualificare il suo come un “regime inviso al suo stesso popolo” e quale manipolazione della verità nel raffigurare (complice al-Jazeera) i miliziani di al-Qa’da come il popolo siriano in rivolta… Ma il regime-change in Siria è fallito mentre il trono di Macron ora traballa. Dunque, alla luce di quel che accade in Francia: chi davvero è richiesto dal suo popolo di tornarsene a casa? In tempi di pace Assad non governava la Siria con il coprifuoco… Macron invece, appena eletto, confermava lo stato d’emergenza decretato da Hollande e lo rendeva permanente. Leggi da “stato di polizia” invise al suo stesso popolo impoverito dall’austerity, leggi di cui Amnesty International ha affermato che violano i diritti umani…
Il popolo siriano è rimasto in larga misura al fianco del presidente Assad e quel governo ha resistito a quasi otto anni di guerra e di sanzioni (solo negli ultimi 3 anni la Siria si è avvalsa dell’aiuto militare russo…). Le indagini demoscopiche commissionate in ambito internazionale ci dicono che Assad (rieletto presidente nel 2014) è ancora assai popolare in Siria. Non così Macron il cui indice di gradimento si aggira attorno al 18%, un record negativo nella storia politica della Francia. E il suo governo necessita del corrispettivo di 8 divisioni dell’esercito per contenere la protesta del popolo francese in rivolta e per proteggere l’Eliseo e i palazzi del potere a Parigi. Ma la Francia non è un Paese qualsiasi… E’, per così dire, uno degli stati-vetrina dell’Occidente! La rivolta dei gilets jaunes illustra dunque non solo la distanza che si è determinata tra cittadini e istituzioni (formalmente democratiche) in quel particolare Paese, ma la crisi di un intero sistema.
fonte: edificati sulla roccia