di Patrizio Ricci
L’attacco effettuato dall’ U.S. Navy sulla base aerea, ha ucciso 6 militari siriani e secondo fonti siriane, 9 civili. Le deflagrazioni hanno distrutto il magazzino della base, un edificio, alcuni hangar, radar e sei aerei MiG-23 che erano in manutenzione. La pista non è ancora agibile.
Dei 59 missili da crociera lanciati ne sono arrivati a destinazione solo 23: la sorte dei restanti 36 è sconosciuta.
Gli scarsi danni ai materiali all’installazione militare siriana trova spiegazione nel fatto che la base è stata evacuata in tempo prima che i missili giungessero a destinazione: gli Stati Uniti hanno avvisato la controparte russa, 2 ore prima dell’attacco. Subito dopo l’attacco statunitense, i miliziani di ISIS hanno lanciato un attacco coordinato per riguadagnare terreno.Tuttavia, il pronto intervento dell’aviazione russa di stanza a Latakia, ha consentito alle forze di terra siriane di respingere l’offensiva.
Come reazione all’attacco degli Stati Uniti, la Russia ha protestato duramente. Essa ha denunciato che l’azione confligge con il diritto internazionale sovrano di un paese membro delle Nazioni Unite.
Mosca ha obiettato che le accuse rivolte dagli Stati Uniti non sono basate su nessuna verifica oggettiva e si basano esclusivamente sulle fonti dei gruppi terroristici presenti nella provincia di Idlib. La Russia, a seguito dell’episodio, ha deciso di sospendere l’applicazione del ‘Memorandum sulla prevenzione degli incidenti e la sicurezza durante le operazioni nello spazio aereo della Siria‘, firmato nel 2015.
Il lancio dei missili è avvenuto per decisione del presidente americano Trump senza la necessaria autorizzazione del Congresso americano. Da parte sua, l’Unione Europea ha appoggiato la decisione americana ma ha ribadito che non può esistere una soluzione solo militare della crisi siriana. La croce Rossa Internazionale ha invece condannato l’attacco missilistico. A seguito dell’attacco, è in corso una riunione di emergenza del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.
Come sappiamo, la provincia di Idlib è governata dalle organizzazioni terroristiche Fateh al Sham (al Nusra) e Tahrir al Sham. In questa località il 4 aprile le organizzazioni umanitarie embedded a tali organizzazioni terroristiche hanno diffuso video e foto per denunciare un attacco chimico avvenuto nel villaggio di Khan Shaykhun. L’attacco, secondo i White Helmets e l’Osservatorio Siriano per i diritti umani (SOHR), avrebbe ucciso 80 civili, tra cui 22 bambini.
Però, a fronte di quanto riferito, non esiste nessuna prova oggettiva delle dinamiche e delle circostanze di quando avvenuto. Inoltre, non si può escludere a priori che quando accaduto sia una false flag tendente a scatenare un’azione militare diretta dei supporter europei ed americani. Questa ipotesi acquista rilevanza dato che il metodo è stato già applicato molte volte in passato.
In definitiva, le circostanze non certe consigliavano maggiore cautela: non è da trascurare in particolare che i russi si erano detti disponibili a collaborare con qualsiasi indagine ed accettarne i risultati. La versione dei fatti russa dice che la nube tossica era stata originata dalla presenza di armi chimiche stoccate nel magazzino colpito dai jet siriani. In tutti i modi gli Stati Uniti (che non hanno fatto mai mistero della propria ostilità ad Assad), hanno approfittato della riprovazione pubblica per avviare un’azione militare destinata soprattutto a ridurre il presidente siriano a ‘più miti consigli’ rispetto alle richieste occidentali, turche e saudite.
Intanto, molte sono le incongruenze esistenti. Ad esempio, l’orario dell’attacco comunicato da SOHR non coincide con i rilevamenti radar oggettivi di Mosca: la Russia dice che l’attacco siriano è avvenuto alle 11.20 mentre la contro parte delle organizzazioni embedded ai ‘ribelli’ le 06.30.
Più di tutto comunque pesa sulla vicenda l’incongruenza oggettiva costituita dalla totale assenza di una indagine indipendente dell’apposito Organismo per il controllo delle armi chimiche (OPAC).
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