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Il 22 maggio l’opinione pubblica occidentale è stata scossa dall’ennesimo attentato dell’ISIS: un kamikaze si è fatto esplodere nel foyer della Manchester Arena al termine di un concerto, uccidendo 22 persone tra cui molti adolescenti. Il terrorista è un 22 enne britannico di origine libiche, già noto all’MI5, la cui famiglia appartiene al milieu islamista a lungo usato dai servizi segreti inglesi contro Muammur Gheddafi. Se il ruolo dei servizi di Sua Maestà nell’attentato è evidente, sorge l’interrogativo su quali siano le finalità della strage. L’attacco di Manchester si inserisce nella campagna elettorale inglese e favorisce il partito conservatore di Theresa May, schierato su posizioni anti-russe ed anti-Assad. L’eventuale vittoria di Jeremy Corbin disimpegnerebbe il Regno Unito dai principali dossier di politica estera.
Un’analisi “controcorrente” sul terrorismo dà un valore aggiunto soprattutto se inquadra i singoli episodi in una più ampia cornice politica ed economica: evidenziare il ruolo dei servizi segreti nell’attuazione degli attentati è certamente meritevole, ma solo rispondendo al “perché” delle stragi si riesce a penetrare i meccanismi più reconditi del Potere. Negli ultimi anni si è assistito ad una vera e propria esplosione del terrorismo in tutte le sue forme (stragista, finanziario, economico, mediatico, etc. etc.) ed è stato necessario spendere non poche energie nel distinguere i diversi obbiettivi di ogni evento: terrorismo per destabilizzare (l’attacco alla metropolitana di San Pietroburgo), terrorismo per minacciare (l’abbattimento del volo russo Metrojet sul Sinai), terrorismo per sedare (la strategia della tensione in Francia), terrorismo per ricattare (gli assalti speculativi contro Volkswagen e Deutsche Bank), terrorismo per influenzare (l’omicidio Jo Cox), etc. etc.
Di fronte all’ennesimo episodio di terrorismo, l’attentato dinamitardo di Manchester, il compito del buon analista “controcorrente” o “politicamente scorretto” è quindi duplice. Da un lato smontare la tesi ufficiale secondo cui il fantomatico “Califfato” sia il regista dell’attacco, sottolineando piuttosto le impronte sulle scena del delitto, quasi onnipresenti, dei servizi segreti; dall’altro lato spiegare il perché dell’attentato, uscendo dalla narrativa “Islam verso Occidente”, “jihad contro crociati”, per afferrare il secondo livello degli eventi.
La cronaca è nota: nella tarda sera di lunedì 22 maggio, un “kamikaze” (permane sempre il dubbio sull’effettiva volontà/consapevolezza del terrorista di immolarsi) si è fatto esplodere nel foyer della Manchester Arena, al termine di un concerto musicale per il pubblico giovane e giovanissimo. Muoiono 22 persone, tra cui bambini, adolescenti e rispettivi genitori. A distanza di poche ore si assiste alla consueta dinamica già sperimentata più volte in questi ultimi due anni: immediato rivendicazione dell’ISIS attraverso il solito Site Intelligence Group, lancio sui social network di una campagna per coinvolgere/sensibilizzare il grande pubblico, rapida conclusione “giudiziaria” del caso con la morte del terrorista ed una manciata di arresti, momentanea militarizzazione delle città, discorsi ecumenici di contorno.
Partiamo coll’attentatore, Salman Abedi, il cui curriculum vitae rende più agevole che in altri casi dimostrare come l’intera operazione sia diretta, dietro le quinte, dagli apparati più oscuri dello Stato. Abedi, 22enne britannico di origine libiche, è infatti la classica pedina usata dai servizi segreti per operazioni sporche in patria come all’estero: noto all’MI5, segnalato più volte alle autorità perché potenzialmente pericoloso, il giovane islamista non solo è libero di viaggiare indisturbato tra Paesi mussulmani ad alto rischio (Libia e Siria) ed Europa (Germania e Regno Unito), ma può munirsi anche dell’esplosivo con cui compierà la strage appoggiandosi alla stessa inafferrabile rete che ha già confezionato gli ordigni di Parigi e Bruxelles1. O siamo di fronte all’ennesimo, clamoroso, fallimento della sicurezza europea (ed allora c’è da domandarsi perché non saltino ministri degli Interni, capi della polizia e direttori dei servizi), oppure c’è una chiara connivenza tra la rete islamista e settori dello Stato (e ciò spiegherebbe come i sullodati responsabili della sicurezza escano illesi da ogni fallimento).
Già, la connivenza tra islamisti e servizi segreti. L’attentato è avvenuto in Regno Unito e Londra intrattiene, sin dagli anni ‘20 del secolo scorso, una relazione molto “speciale” con la galassia della Fratellanza Mussulmana, dei salafiti e dell’integralismo sunnita. Si prenda qualsiasi imam, capo religioso o terrorista di un certo calibro, di qualsiasi Paese mediorientale od asiatico: sarà molto facile che nel suo curriculum vanti un soggiorno a Londra o all’Oxford Centre for Islamic Studies, vere e proprie “culle” del terrorismo islamico.
Il terrorista di Manchester, Salman Abedi, è un prodotto di questo humus, dove MI6 ed integralisti sunniti vivono quasi in simbiosi. Salman nasce infatti nel Regno Unito nel 1995, perché suo padre è stato costretto a lasciare la Libia, trovando un accogliente riparo in Gran Bretagna. Motivo della fuga? Ramand Abedi è stato membro del Libyan Islamic Fighting Group (LIFG), l’organizzazione islamista che negli anni ‘90 è impiegata più volte dai servizi britannici per tentare di assassinare/rovesciare Muammur Gheddafi. Il LIFG gioca un ruolo di primo piano nel 2011 durante il cambio di regime condotto da angloamericani e francesi: il capo della milizia islamista, Abdelhakim Belhadj, assurge a comandante del Consiglio Militare nella Tripoli “liberata” e gli stessi miliziani partecipano attivamente al golpe integralista con cui, nell’estate del 2014, la Fratellanza Mussulmana scalza il legittimo Parlamento laico, col sostegno di Londra, Washington, Ankara e Doha.
Il “governo d’unità nazionale” di Faiez Al-Serraj è una semplice riverniciatura della giunta islamista ed è questo il motivo per cui la famiglia dell’attentatore di Manchester, il padre ed i fratelli di Salman Abedi, si trova a Tripoli al momento dell’attacco terroristico: il loro arresto da parte delle milizie è un semplice gesto pro-forma, a favore dell’opinione pubblica. Constato che l’intera famiglia Abedi ruota nella galassia dell’MI6 da almeno 20 anni, che Salman godeva di poteri speciali per varcare indisturbato ogni frontiera, che l’MI5 ha chiuso non uno, ma due occhi, sulle sue attività terroristiche, sorge ora l’interrogativo più importante: perché la strage al Manchester Arena? Perché in Regno Unito e perché ora?
Lo scorso 18 aprile il primo ministro inglese, Theresa May, ha annunciato elezioni anticipate da svolgersi l’8 giugno: “serve una leadership forte nell’interesse nazionale” ha commentato la May, asserendo che bagno elettorale è indispensabile per rinvigorire il governo, consentendogli di trattare con l’Unione Europea da posizioni più solide. Il celebre articolo 50 del Trattato di Lisbona è stato, infatti, attivato e nei prossimi 12-24 mesi si deciderà come consumare il divorzio, se in maniera burrascosa o conciliante. Nessun candidato dei due maggiori partiti inglesi, conservatore e laburista, medita di venire meno alle decisioni finora assunta: è fedele alla Brexit Theresa May, succeduta a David Cameron proprio per avviare la procedura di uscita dal Regno Unito dalla UE, ed è fedele alla Brexit Jeremy Corbyn, che ha dovuto affrontare una rivolta tra i laburisti “europeisti” ed è noto per la sua storica linea euro-scettica2. La Brexit è, ormai, un dato di fatto.
Tra Theresa May e Jeremy Corbyn esistono però profonde differenze, sia in campo economico che in politica estera: ai fini della nostra analisi, ci interessa in particolar modo quest’ultimo aspetto. Corbyn “il rosso”, distante molte miglia dal neoliberista ed interventista Tony Blair, è noto per le sue posizioni non-ortodosse in politiche estera: fortemente critico dell’attivismo militare occidentale contro Bashar Assad, accusato di simpatie filo-iraniane3, tacciato di essere filo-russo ed anti-NATO4, il candidato laburista non incarna certamente la linea dell’establishment atlantico e si può anzi dire che il suo ingresso a Downing Street creerebbe più di qualche grattacapo in seno al blocco occidentale. La vittoria di Theresa May è quindi auspicabile perché, dalla Russia alla Siria, garantirebbe la continuità della politica estera inglese.
Sul successo quasi certo della May alle elezioni dell’8 giugno, c’erano pochi dubbi all’inizio della campagna elettorale: col passare delle settimane, queste certezze si sono però dissolte. Pessima oratrice, fredda e distante, la May non ha scaldato i cuori degli inglesi e si è alienata le simpatie dell’opinione pubblica prospettando nuovi rincari per la sanità pubblica. I sondaggi del 22 maggio, prima dell’attentato di Manchester, segnalavano che la distanza tra conservatori e laburisti si stava pericolosamente assottigliando5: lo scenario di una vittoria di Corbyn o di un “parlamento impiccato” non era più escludibile. Che fare? Come rilanciare il partito conservatore in forte affanno e salvare così la politica estera anti-russa ed anti-Assad del Regno Unito?
Semplice, spostando il focus del dibattito politico sulle tematiche della sicurezza, cavallo di battaglia dei tories e di Theresa May in particolare (è stata Segretario di Stato per gli Affari Interni dal 2010 ad oggi): entrano così in scena l’MI6 e Salman Abedi che, con provvidenziale tempismo, irrompono nella campagna elettorale, in una fase critica per il partito conservatore. “Manchester Bombing Shifts Political Narrative as U.K. Election Looms” scrive il New York Times6, evidenziando come la strage alla Manchester Arena sia “a political boon, however unwanted, for Prime Minister Theresa May”: un vantaggio, sebbene indesiderato.
Un presidente conservatore in difficoltà, una campagna elettorale imminente, un attentato islamista, l’illusione della rimonta: tutto ciò non ricorda qualcosa? Ah, sì: il presidente Nicolas Sarkozy, le presidenziali francesi e gli omicidi contro la comunità ebraica perpetrati nella primavera del 2012 dal franco-algerino Mohammed Merah: anche lui, era un collaboratore dei servizi segreti.
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