A volte mi chiedo se questo sia davvero il Trump che molti avevano immaginato. Non è facile comprendere e accettare il suo approccio, ma forse dietro c’è una strategia precisa: spiazzare gli avversari, mantenere l’imprevedibilità. Non si può ignorare il contesto degli intrighi e tradimenti che ha dovuto affrontare – e talvolta subire – durante la sua precedente presidenza. È plausibile che il suo obiettivo sia quello di evitare che le sue mosse vengano anticipate, trovandosi continuamente sotto un fuoco incrociato, e non solo in senso figurato.
Personalmente, fatico a entusiasmarmi, anche se lo stato attuale di degenerazione globale spinge a sperare in qualsiasi alternativa. L’idea che il movimento sia preferibile alla paralisi, e che Trump rappresenti una reazione necessaria a decenni di indecisioni storiche, ha una sua logica. Tuttavia, l’entusiasmo svanisce quando si guarda la portata dei suoi piani: il Canada come 51° stato, la Groenlandia come 52°. E poi? Antartide?
Sul fronte internazionale, Trump promette risposte senza precedenti contro Hamas. Ma quali risposte? Una rappresaglia nucleare? L’eliminazione fisica di leader politici? Finora sono solo parole, parole che sembrano prolungare i tempi per una pace che si allontana sempre di più. La “fine della guerra” è diventata un concetto dilatabile: prima sei mesi, poi un anno, e chissà quanto ancora. Intanto, Zelenskyj e Putin sembrano temporeggiare, aspettando di vedere come si evolverà la situazione, come spettatori di una partita giocata in tempo reale.
Molti si aggrappano all’idea che Trump finga di essere imprevedibile per mascherare la sua abilità strategica. Ma cosa accadrebbe se non fosse così? Se fosse davvero un leader eccentrico, segnato dal passare del tempo? Non passivo, come Biden, ma eccessivamente attivo, incapace di fermarsi. Le sue dichiarazioni su piattaforme come “X” possono sembrare incisive, ma nella realtà quotidiana rischiano di tradursi in caos piuttosto che in risultati concreti.
La speranza è che i problemi vengano affrontati e risolti. Tuttavia, non si può escludere uno scenario meno confortante: quello in cui il “trumpismo” rappresenti l’apice e il declino dell’imperialismo americano. La situazione ricorda un déjà vu: la Russia di Putin, la Gran Bretagna di Johnson, ora l’America di Trump. Tutti proclamano il desiderio di “tornare grandi”, ma i loro sistemi neo-imperiali sembrano più vicini all’agonia che alla rinascita.
Quello che sembra un segno di forza potrebbe rivelarsi un sintomo di fragilità. Gli imperi, infatti, non scompaiono senza un processo di disintegrazione. Se nasci come un impero, rimani tale fino alla fine. Oggi, però, gli imperi sembrano aver perso il senso della loro esistenza, vagando senza una direzione chiara, come serpenti sopravvissuti al loro stesso veleno. Anche i leader riflettono questa confusione, oscillando tra decisioni impulsive e mancanza di una visione coerente.
Nonostante tutto, voglio ancora credere in Trump. Voglio sperare che i nodi della storia si sciolgano e che i problemi trovino soluzione. Ma ogni nuova dichiarazione rende questa fiducia sempre più fragile. Resta solo la consapevolezza che Biden probabilmente sarebbe peggio. E non c’è nulla di più inquietante di chi si nutre della guerra, di chi prospera sui conflitti come un vampiro che si alimenta di sangue e distruzione.