giovedì 13 maggio 2004
Autore: Card. Joseph Ratzinger Curatore:Mangiarotti, Don Gabriele Fonte:Biblioteca del Senato, Sala Capitolare del Chiostro della Minerva
Fonte: Il Nuovo Areopago, n. 1 – via G. Saffi, 6 – Forlì
Ecco perché noi non siamo il Far West dell’Asia, l’estremo occidente contrapposto all’estremo oriente. Abbiamo un’identità, una unità, un destino del tutto peculiari, abbiamo le nostre idiosincrasie, i nostri caratteri e anche i nostri difetti e i nostri limiti. Apparteniamo all’Europa per un paradosso della storia, non per una legge della natura.
Ci chiamano, e noi stessi ci chiamiamo, Europei, tuttavia forse neppure confusamente avvertiamo che la nostra appartenenza all’Europa è ben diversa dall’appartenenza di qualunque uomo e di qualunque popolo a uno qualunque degli altri continenti i cui nomi abbiamo cominciato ad apprendere già dall’infanzia. Quando diciamo di un uomo che è africano, possiamo mostrare di non conoscere pressoché nulla circa la sua razza, la sua lingua, la sua cultura e la sua tribù, ma almeno è certo che cosa vuol dire Africa, quanto meno è certa la sua geografia fisica, a cui quell’uomo appartiene. Lo stesso vale per l’America e per l’Australia, ed in un certo senso anche per l’Asia.
Solo in un certo senso, però, perché da un punto di vista strettamente geografico, ciò che noi chiamiamo Europa non è altro che un subcontinente asiatico, l’appendice occidentale dell’Asia, un sistema di penisole e di isole alla sua periferia ovest di proporzioni oltretutto piuttosto modeste in rapporto all’estensione globale del continente. Nei testi scolastici lo denominano anche Eurasia, e questa espressione non giova a chiarire le idee che vengono ulteriormente confuse quando si apprende che le nostre razze sono di origine indo-europea e che anche le nostre lingue appartengono al ceppo indo-europeo. Nel momento in cui ci chiediamo cosa sia l’Europa, subito appare l’Asia.
Perché allora non siamo asiatici come lo sono ad esempio i giapponesi? Cosa è accaduto perché si verificasse questo caso unico ed irregolare che una regione riuscisse a guadagnare una tale autonomia nei confronti del continente cui appartiene, per struttura geografica e per radici remotissime di razze, lingue e culture, da acquisire il diritto di esistere come fosse essa stessa un vero e proprio continente? Cristopher Dawson comincia il suo fondamentale saggio intitolato «La nascita dell’Europa» appunto con questa osservazione: «Noi siamo talmente avvezzi a fondare la nostra visione del mondo e l’intera nostra concezione della storia sull’idea dell’Europa che ci riesce difficile renderci conto dell’esatta natura di questa idea. L’Europa non è una unità naturale, come l’Australia e l’Africa; essa è il risultato di un lungo processo di evoluzione storica e di sviluppo spirituale. Dal punto di vista geografico l’Europa è semplicemente il prolungamento nord-occidentale dell’Asia, e possiede una minore unità fisica dell’India, della Cina o della Siberia; antropologicamente, è un miscuglio di razze, e il tipo dell’uomo europeo rappresenta una unità piuttosto sociale che razziale. E anche nella cultura l’unità dell’Europa non è la base e il punto di partenza della storia europea, ma il fine ultimo e irraggiungibile verso cui questa ha mirato per più di mille anni» [1].
Dunque l’Europa non esiste da sempre: essa ha cominciato ad esistere non per un fenomeno naturale che ne ha modificato l’aspetto fisico, ma per altre cause, non tanto direttamente legate ai processi della natura, quanto piuttosto a taluni avvenimenti della storia e della cultura. Questo «inizio» dell’Europa costituisce una peculiarità che determinerà per sempre il destino dell’uomo europeo. Il modo europeo di essere uomo è e resta segnato proprio dal fatto che esso ha un inizio. Ciò che segue non solo viene dopo, ma ne è lo sviluppo e la crescita, oppure il rifiuto o il tradimento, ma è pur sempre qualcosa di relativo a ciò che sta all’inizio. La memoria dell’inizio appare qui come il primo e fondamentale contenuto della coscienza dell’uomo europeo o, più ancora, la prima caratteristica antropologica dell’ethos europeo. L’ethos dell’europeità nasce nel passaggio dalla natura alla cultura, ma più che di nascita sarebbe esatto parlare di concepimento; lunga sarà infatti la gestazione che porterà alla nascita di ciò che noi chiamiamo Europa.
La prima forma nella quale l’Europa è esistita pare infatti essere nulla più dell’etimo con cui i Fenici nominavano «il paese del tramonto», o «la terra delle tenebre». Vale a dire quelle coste occidentali del Mediterraneo che essi avevano arditamente esplorato perfino oltre le colonne d’Ercole, alla ricerca di materie prime e di mercati per i loro commerci. D’origine semitica i Fenici abitavano già nel III millennio a.C. la costa marittima dell’odierno Libano e raggiunsero il maggiore sviluppo tra il XII e l’XI secolo a.C., quando si spinsero con le loro navi su per l’Adriatico, il Tirreno e l’Atlantico, giungendo fino alla Cornovaglia. A loro dobbiamo il nome di cui andiamo fieri, anche se quel nome, dopo tremila anni, dice qualcosa di più che una semplice dislocazione geografica, poiché molte volte l’Europa è diventata davvero per l’uomo il «luogo delle tenebre».
Oggi, sulla soglia del terzo millennio, le tenebre sono tornate a farsi profonde. Il «paese del tramonto» sembra realmente avviato a un tramonto che non concerne solo l’antica civiltà che in esso si è formata e sviluppata fino al punto di poter essere identificata con la civiltà come tale. Quello a cui oggi assistiamo e a cui diamo di volta in volta i nomi sempre più terribili di crisi economica, crisi politica, crisi delle ideologie, crisi dei valori. In ultima analisi colpisce non appena ciò che nella sua storia l’Europa è stata e ha costruito, ma l’uomo europeo nella sua coscienza di uomo, nella sua peculiare forma di essere uomo, forma in cui consiste l’essenza dell’europeità.
La crisi che accompagna il passaggio dal secondo al terzo millennio è già arrivata al cuore della questione, ha intaccato l’ethos dell’europeità nella sua sostanza più originale e profonda, ha corrotto ciò che sta all’inizio – en arché – e che ha costituito il continuum dell’esperienza storica che ha formato l’uomo europeo, il suo peculiare modo di essere uomo.
Occorre riflettere sul fatto che oggi l’antico etimo fenicio sembra essere ritornato più vero, nel suo esprimere ciò che siamo, di tutti gli altri significati con cui noi europei abbiamo caricato – a volte con molta presunzione e perfino con arroganza – il contenuto del termine «Europa».
L’ombra del tramonto sembra avere avvolto nell’uomo europeo anche la memoria del proprio inizio e della storia che lo ha svolto. È questo il motivo per cui noi oggi siamo così incapaci di un progetto sul nostro futuro. Poiché l’unica ragionevole speranza è data all’uomo dalla memoria di un inizio, la perdita di memoria che caratterizza la coscienza dell’uomo europeo contemporaneo ha come effetto la spaventosa mancanza di speranza con cui stiamo oggi nella vita. Riempiamo il vuoto della speranza ricorrendo alla droga, al terrorismo e alla prostituzione di massa, e così ci allontaniamo sempre più dal nostro inizio, ci ritroviamo sempre di più «paese delle tenebre».
Il passaggio dal secondo al terzo millennio avverrà probabilmente in forma ancora più drammatica e traumatica di come avvenne quello dal primo al secondo: almeno così lasciano presagire i sintomi della crisi in atto nell’uomo. Il millennio che inizia tuttavia già ci interpella, anche se brutalmente, e suggerisce ad ogni uomo una domanda radicale sull’uomo, sul senso dell’essere uomo e sulla via per diventarlo. Una domanda all’uomo sull’uomo è sempre, alla fine, una domanda sulle ragioni della speranza. Delle sorti dell’uomo del terzo millennio deciderà in sostanza la risposta che qualcuno darà sulle ragioni della propria speranza e non è da escludere che a trovare, o a ritrovare, ragioni di speranza siano quei pochi uomini che hanno inteso il senso di questo passaggio e si sono lasciati interpellare da esso.
Nel rispondere all’appello dell’avvenimento, costoro ripeteranno in qualche modo l’inizio, in essi tornerà a nascere l’uomo secondo la forma europea dell’essere uomo. L’inizio infatti della nostra identità non viene dalla natura, ma dalla storia e dalla cultura. La nostra verità di uomini non può farsi e rifarsi se non secondo ciò che fu all’inizio – en arché.Ritrovare la memoria dell’inizio è dunque il primo fondamentale passo da compiere perché l’uomo europeo ritrovi in se stesso l’uomo. Evidentemente non si tratta solo di rivisitare il passato, immaginando come e quando l’uomo fosse uomo nelle epoche remote e nelle condizioni superate. Si tratta invece di riconoscere in noi ciò che è già nato ed è vivo, ciò che abbiamo già ricevuto, il «dato» antico che vive e cresce nel nuovo «da dare». L’itinerario verso il nostro futuro comincia dal nostro inizio.
Se è vero che dobbiamo il nostro nome di europei a degli asiatici quali furono i Fenici, che ce lo imposero ancora prima che esistessimo, è ugualmente vero che dobbiamo la nostra esistenza – l’esistenza dell’Europa come continente a sé e dell’uomo europeo – ad un paradosso della storia che vede ancora degli asiatici come protagonisti, anzi addirittura il più grande impero asiatico mai esistito. Senza questo paradosso noi avremmo oggi uno statuto geopolitico e culturale non diverso da quello del Giappone, saremmo la regione occidentale del continente Asia, il suo Far West; il modo europeo di essere uomo non sarebbe mai nato, saremmo solo una delle varianti del mondo indoeuropeo.
Indoeuropei infatti erano quei Persiani che nel corso del VI secolo a.C. avevano costruito un impero che occupava pressoché tutto lo spazio allora conosciuto come mondo civile che si estendeva dall’Oceano indiano al Golfo Persico, al Mar Caspio, al Mar Nero, fino al Mediterraneo. Il potere politico e militare dell’Impero persiano era tale che il progetto di una egemonia universale indoeuropea avrebbe potuto essere realizzato senza incontrare sostanziali ostacoli. E tale fu infatti il progetto dell’imperatore Dario, che spinse i confini dell’impero verso oriente e si accingeva ad estenderli anche ad occidente, dove puntava a sottomettere Grecia, Tracia, regione Danubiana, e poi le coste occidentali dell’Africa con Cartagine e di lì la Spagna.
Ciò che allora esisteva sulle coste orientali ed occidentali dell’Egeo e che ancora non possedeva né forma né coscienza compiuta della grecità, quel fermento umano di città e colonie, caste e classi, interessi particolaristici e slanci ideali, vale a dire il microcosmo ellenico, gravitava nell’orbita di attrazione del grande vicino orientale, cui lo legavano insieme l’interesse dei commerci e la paura del dominio.
Quando, agli inizi del V secolo, il progetto dell’egemonia persiana cominciò a concretizzarsi ad occidente, cominciò anche la serie dei paradossi che rovesciarono il corso della storia, provocando non solo la sconfitta del potentissimo impero e la fine definitiva dell’egemonia asiatica sul mondo, ma più ancora la nascita della grecità e il presentimento dell’europeità. La concatenazione dei paradossi militari e politici di quel V secolo resta e resterà un enigma per gli storici di tutte le epoche e di tutte le tendenze. Nondimeno, è nel groviglio umano di quei memorabili eventi che noi siamo stati concepiti e di quel concepimento porteremo per sempre i segni.
Il paradosso comincia nel 499 a.C., con l’insurrezione anti-persiana delle colonie elleniche della costa ionica, con a capo Mileto. Quelle città praticamente si trovavano entro i confini dell’impero e in esso erano già di fatto integrate per la via dei commerci; mancava dunque solo l’integrazione politica, né i loro capi erano alieni da un’onorevole soluzione di vassallaggio. Ma per uno di quegli imponderabili che decidono tra ipotesi e realtà nella storia, furono proprio quelle colonie ad accendere la scintilla della rivolta. L’insurrezione ionica durò cinque anni e si concluse tragicamente con la sua violenta repressione da parte dello strapotente esercito imperiale. Dario non si limitò a domare la rivolta, ritenne necessario sottomettere l’intera Grecia con tutte le sue poleis. Decise dunque di muovere la guerra e armò una flotta di 220 navi che trasportavano 25 mila uomini. Nel 490 a.C. cominciò così la prima guerra persiana.
Di fronte al pericolo persiano molti dei Greci non videro altra via d’uscita che lo scendere a patti con l’invasore concordando una qualche forma di sudditanza politica ed economica, che avrebbe magari trasformato la Grecia nella ventunesima satrapia dell’immenso impero, ma l’avrebbe almeno salvata dalla sicura distruzione. In alcuni altri, però, si andò formando invece l’intuizione che la posta in gioco valeva più della vita, che Grecia e libertà valevano il rischio di una lotta ad oltranza, che da difendere non c’erano solo degli interessi economici, delle case e delle vite umane, quasi che l’uomo greco già conoscesse una dignità che non gli permetteva di rassegnarsi a perdere. Nessuno può affermare con certezza quali fossero i contenuti della coscienza di coloro che scelsero la lotta ad oltranza, ma quei diecimila opliti ateniesi che al comando di Milziade sconfissero a Maratona i venticinquemila persiani di Dati, non solo decisero per sempre le sorti dell’Europa, ma rivelarono di avere in se stessi quella decisione che si presenta come uno dei primi elementi fondamentali costitutivi dell’ethos europeo.
Di fatto, quella vittoria fu paradossale (né il paradosso è ridotto dalle considerazioni strategiche o tattiche di certi storici in merito alla formazione dell’esercito persiano), e in quel paradosso dell’imponderabile che decide il corso della storia è legittimo riconoscere il più remoto inizio della storia d’Europa.
Dieci anni dopo, nel 480 a.C., il paradosso si ripete. Il nuovo imperatore, Serse, sferra un secondo attacco con forze quattro volte superiori a quelle greche. L’incombere della nuova invasione rese più forte l’unità tra le città greche, soprattutto tra le due aspre rivali, Atene e Sparta, ma non poté conseguire che una modesta efficienza militare: meno di un terzo erano le navi e dieci volte inferiori agli avversari le truppe di terra. La coscienza che la posta in gioco valeva più della vita ebbe il suo gesto eroico nel sacrificio di Leonida e dei suoi mille spartani alle Termopili.
A dieci anni da Maratona, l’imponderabile ripete il suo paradosso a Salamina: 300 navi greche sconfiggono 700 navi persiane. Bilancio della battaglia: perdite persiane: 500 navi; perdite greche: 7. Abilità di Temistocle? Ingenuità dei Persiani? Diversa manovrabilità delle navi? Di fatto a Salamina il progetto dell’egemonia mondiale persiana naufragò con la flotta di Serse. Liberato dalla potenza asiatica che ne voleva fare uno dei suoi mari, l’Egeo diventò uno spazio umano in cui poteva crescere un modo diverso di essere uomo. Il suo destino non sarebbe stato più legato all’Asia, ai suoi imperi, alle sue civiltà, alla sua cultura.
Ecco perché noi non siamo il Far West dell’Asia, l’estremo occidente contrapposto all’estremo oriente. Abbiamo un’identità, una unità, un destino del tutto peculiari, abbiamo le nostre idiosincrasie, i nostri caratteri e anche i nostri difetti e i nostri limiti. Apparteniamo all’Europa per un paradosso della storia, non per una legge della natura. Anche se confusa nei dettagli che nessuna ricostruzione o interpretazione storica a posteriori potrà mai chiarire, questa esperienza delle guerre persiane, se non segnò la nascita della Grecia né tanto meno quella della europeità, rappresenta comunque una esperienza fondamentale per la formazione dell’ethos greco-europeo. La ragione della sua importanza per noi sta appunto nel fatto che si trattò di una esperienza: attraverso la realtà delle guerre contro il potente nemico persiano l’uomo greco cominciò a prendere coscienza della propria diversità e a intuire che quel contenuto della propria coscienza costituiva un valore per il quale valeva la pena battersi e morire. Si può dunque dire che all’inizio della formazione dell’ethos dell’uomo greco e quindi dell’uomo europeo c’è l’esperienza fondamentale del valore dell’esperienza come via per la formazione dell’ethos dell’uomo.
Questo non è semplicemente un gioco di parole: da allora infatti l’esperienza ha continuato ad essere il metodo della formazione e della trasformazione di qualunque stadio della coscienza dell’uomo europeo; dall’esperienza l’ethos europeo è stato di volta in volta arricchito e modificato.
Alcuni storici credono di poter individuare nelle interpretazioni successive delle guerre persiane come lotta della civiltà greca contro la barbarie asiatica una forma di ideologia retroattiva. Ciò risulta in ogni caso secondario rispetto all’osservazione sul modo di formazione dell’ethos greco, cui l’esperienza delle guerre persiane ha dato occasionale avvio e che la paradossalità degli imponderabili ha reso irreversibile. Nel corso del VI secolo a. C., su quella stessa sponda della Ionia che sarebbe diventata un secolo dopo teatro delle guerre persiane, in quella stessa Mileto che nel 499 a.C. avrebbe acceso la scintilla dell’insurrezione, era avvenuto qualcosa che aveva dischiuso all’uomo una nuova via dell’essere uomo.
Lì, a Mileto, sulle rive dell’Egeo, per la prima volta, un uomo aveva scoperto una nuova possibilità di incontro con la realtà del mondo e delle cose. La realtà si era rivelata intelligibile, capace di essere incontrata, conosciuta, posseduta e amata dallo scandaglio del pensiero umano che può penetrare oltre le apparenze nel groviglio delle forme, alla ricerca delle ragioni profonde, per incontrare la razionalità dell’essere.
Nella cornice incantata della natura egea, profusa di luminosa bellezza, l’uomo s’incammina all’incontro dell’essere per la via del pensiero: interroga la natura, avverte che nelle cose è nascosto un valore più grande del loro valore d’uso o di scambio, fiuta la possibilità di capire il senso del loro esistere, il significato dell’essere, comprende che una profonda e sapiente razionalità è il principio di tutte le cose e di ogni cosa. Sulla via del pensiero l’uomo di Mileto incontra il logos, la ragione intelligibile, il contenuto delle forme, il senso conoscibile e comunicabile, il principio, l’arché.
Il primo uomo che s’avventurò sulla via sconosciuta del pensiero all’incontro con la razionalità dell’essere fu Talete di Mileto, di cui si dice che «iniziò la filosofia occidentale», ma l’espressione è fiacca, poiché Talete fece di più che inaugurare il mestiere del filosofo: aprendo all’uomo la via del pensiero all’incontro con la razionalità dell’essere, egli divenne archetipo dell’uomo europeo. Diede dunque inizio alla forma europea dell’essere uomo. È un nuovo ethos quello che ha qui inizio, un ethos diverso da quello che l’ambizioso progetto persiano avrebbe voluto consegnare come definitivo al futuro dell’uomo.
L’ethos antico dell’uomo asiatico era infatti l’ethos del mito, che mediava tra la coscienza dell’uomo e la realtà con l’invenzione di fantasiose cosmogonie, teogonie, ierofanie, ierocrazie, teocrazie, per nascondere la fondamentale e invincibile paura con cui l’uomo viveva l’apparente irrazionalità dell’esistere. Il mito dava all’uomo un’illusoria libertà dalla paura, gli permetteva un apparente rapporto con il mondo; ma il prezzo di quell’illusoria libertà era il concatenamento degli uomini nella paura, l’arbitrio, la tirannia, e poi la solitudine, l’individualismo, la fuga nel nascondiglio.
La libertà illusoria e provvisoria offerta all’uomo dal mito aveva formato un tipo umano che non conosceva dimora se non nel nascondiglio: il Re nel nascondiglio del palazzo, il satrapo nella sua corte provinciale, il condottiero nell’esercito, il mercante nel denaro, lo schiavo nelle sue catene. E su tutti il tempio, che era il nascondiglio degli dèi. L’uomo del nascondiglio era il tipo umano che la riuscita del progetto egemonico persiano avrebbe imposto come forma universale dell’essere uomo, senza l’avventura umana di Talete sulla spiaggia di Mileto. Il primo passo dell’uomo sulla via del pensiero verso l’incontro con il Logos fu l’inizio della liberazione dell’uomo dalla paura e dal mito. Quel passo segnò un mutamento antropologico sostanziale e irreversibile: l’uomo uscì dalla caverna del mito ed entrò nello spazio aperto dell’ethos della libertà attraverso la via del pensiero che conduce alla dimora del Logos, al luogo profondo dell’intrinseca ragionevolezza dell’essere. Questo mutamento antropologico fu l’inizio della grecità e dell’europeità o, per lo meno, ne fu il presentimento. In ogni caso si deve dire che null’altro fu la grecità e l’europeità se non lo sviluppo e la crescita di quell’inizio. L’ethos dell’uomo europeo ha per sempre la sua genesi nella libertà del pensiero che esce dal nascondiglio del mito verso l’incontro con il Logos della ragionevolezza.
Per questo uomo, per questo ethos umano valeva la pena combattere anche la guerra più disperata contro un nemico strapotente, quali furono le guerre del 490 e del 480 a.C. contro gli eserciti di Dario e di Serse. In qualunque misura ne fossero coscienti, a Maratona, alle Termopili e a Salamina coloro che combatterono morirono e vinsero, difesero la libertà di essere uomo secondo l’ethos del pensiero [2], salvarono la possibilità di crescita e di sviluppo del nuovo modo di essere uomo e permisero che l’Egeo restasse ancora uno spazio disponibile a una nuova costruzione umana. Milziade, Leonida e Temistocle vanno congiunti a Talete, Anassimandro e Anassimene in un’unica immagine di uomo in cui ancora oggi noi possiamo riconoscere l’archetipo dell’uomo secondo l’ethos dell’europeità.
L’epoca che seguì alla vittoria sui Persiani è nota come età della sofistica e viene considerata una grave crisi intellettuale per il mondo greco in via di formazione. Insieme ai tre di Mileto, gli altri che si erano avventurati sulla nuova via del pensiero – Pitagora, Eraclito, Senofane, che erano gente della costa ionica dell’Egeo, e poi Parmenide, Zenone, Empedocle, gente della Magna Grecia, e ancora Leucippo di Mileto e Democrito di Abdera e Anassagora di Clazomene – avevano esplorato il mondo fisico delle cose, avendo come oggetto del pensiero la natura. Era stata una straordinaria esperienza in cui l’uomo aveva scoperto la possibilità della conoscenza come nuova forma di rapporto con la realtà. E così l’uomo s’era gettato sulle vie del pensiero, alla scoperta del principio segreto del senso razionale dell’essere, come in un’entusiasmante caccia al tesoro. Nelle mutate condizioni politiche, sociali e soprattutto psicologiche che vennero a formarsi in conseguenza della vittoria sui Persiani, attraverso quella necessaria crisi del pensiero, l’uomo divenne oggetto di riflessione per l’uomo. Mentre l’Egeo risuonava dei clamori di Salamina, il più illustre dei sofisti, Protagora di Abdera proclamava la sua immortale sentenza: «L’uomo è misura di tutte le cose».
Per la prima volta, il pensiero dell’uomo attingeva l’uomo. L’ethos del pensiero si arricchiva di una nuova domanda: uomo, chi sei? Da quel momento la forma europea dell’essere uomo acquista una nuova dimensione. Perderla o ritrovarla segnerà per sempre, per l’uomo europeo e per la cultura europea dell’uomo, il nuovo orizzonte fra tenebre e luce, fra menzogna e verità, fra immoralità e moralità.
Nel rispondere alla domanda sull’uomo, i sofisti si smarrirono subito nel groviglio delle analisi e delle ipotesi. Attratti dall’accattivante gioco del linguaggio, scorrazzarono nel labirinto delle opinioni, non incontrarono l’uomo nell’uomo, non giunsero alla scoperta che il Logos dell’uomo nell’uomo è l’uomo stesso. Ma quella domanda sull’uomo e le loro scorribande nel linguaggio, che resta ancora a mezza via tra l’uomo e le cose, avevano aperto la strada a colui che si sarebbe fatto carico di quella domanda, attraversando tutto il groviglio delle ipotesi e delle opinioni, fino all’incontro dell’uomo nell’uomo.
Con Socrate l’ethos dell’uomo diventa ethos dell’incontro. Obbedendo all’imperativo morale espresso dalla voce antica del mito, Socrate assume come meta del proprio cammino sulla via del pensiero il suggerimento dell’oracolo di Delfo: conosci te stesso. Lì il mito antico finisce per sempre e comincia la nuova forma dell’essere uomo: sulla via del pensiero l’uomo incontra l’uomo, lo riconosce come luogo di ogni incontro, come dimora del Logos. L’uomo non è il prodotto accidentale od erroneo di una qualche genealogia divina, condannato a una forma spuria di esistenza in balìa delle forme irrazionali della natura, privo di libertà e senza storia. L’uomo è al contrario dimora consapevole del Logos: è all’uomo che la ragione profonda dell’essere si rivela, è a lui che essa si comunica, è attraverso di lui che essa si partecipa. Il suo nome è Verità. L’ethos dell’incontro apre un nuovo cammino: la via della vita nella verità.
Per questo ethos anche l’incontro con la morte è un passo sulla via della vita nella verità. E Socrate accetta di morire per rendere testimonianza all’uomo sull’uomo. Socrate non è Leonida, non muore sul campo di battaglia con il gesto dell’eroe: Socrate sa più di Leonida che l’uomo è un valore per cui vale la pena morire anche della morte ingiusta decretata da un tribunale iniquo.
Ciò che in Socrate si rivela all’uomo sull’uomo è tale da costituire il grande contenuto su cui si costruirà la forma più compiuta della grecità: l’ellenismo della grande espansione macedone fino al nuovo impero universale di Alessandro, anzi fino all’ultimo degli imperi universali, quello di Cesare Augusto. Prima che anche il sogno di Augusto crollasse, accadde qualcosa per cui l’ethos socratico dell’incontro sarebbe diventato il definitivo luogo di genesi dell’ethosdell’uomo europeo.
L’uomo che ha incontrato l’uomo e che ha scoperto in sé la dimora del Logos quale dimora interiore della verità di cui il cosmo e ogni frammento dell’essere trattiene il seme nella propria intelligibile razionalità, quest’uomo, liberato dalle ombre della paura e della illusoria libertà del mito, può ora correre tutta l’avventura umana del pensiero nell’intero spazio dell’essere e dell’esistere, nel cielo di Dio e nella terra degli uomini. Dei discepoli di Socrate, Platone percorre fino in fondo la via etica ed estetica del Logos, inseguendo il fascino del Bene e della Bellezza, poiché vede nella razionalità dell’essere il manifestarsi di un ordine e di un’armonia in cui si rivela l’intelligenza e l’amore di un Logossupremo che è all’origine del mistero dell’essere; Aristotele invece scandaglia le strutture della razionalità del reale, ne cataloga quelle fisiche, ne arguisce quelle metafisiche, paragona le analogie, decifra le leggi logiche e ontologiche, scioglie gli enigmi fino allora indecifrati e rivela l’organicità dell’essere nel singolo esistente e degli esseri nella totalità del cosmo.
Come il pensiero e la testimonianza di Socrate avevano sorretto l’uomo greco nel tormentato travaglio della formazione dell’unità del mondo greco, fallita sulla via politica e militare e conseguita solo sulla via della cultura; così Platone e Aristotele offrono al mondo greco lo slancio culturale che, più della potenza e della genialità politica di Filippo il Macedone e di Alessandro Magno, renderà possibile la dilatazione universale dell’ethos della grecità, che fu chiamata ellenismo e che aprì alla cultura del Logos popoli e razze che fino ad allora erano rimaste assoggettate alla cultura del mito.
Ma fu un trionfo effimero. L’uomo greco sulla via del pensiero che conduce all’incontro con il Logos della razionalità si era liberato dalla paura e dal mito, aveva fatto l’esperienza di un nuovo rapporto con la realtà, aveva incontrato l’uomo nell’uomo e scoperto la dimora interiore del senso dell’essere; ma aveva toccato il limite invalicabile della razionalità attingibile per la via del pensiero [3]. Oltre le «colonne d’Ercole» della conoscenza e della vita, l’uomo greco intuiva un orizzonte di realtà e di significato che sfuggiva alle misure del Logos theoretikòs, pareva ripiombare nel buio dell’irrazionalità, ricadere nel mito, riportare la coscienza alle antiche paure, risolvere in un fiasco incalcolabile l’avventura del pensiero.
Platone stesso già ricade nel mito, già vacilla sulla via del Logos e ethos dell’incontro, per concedere ancora dignità culturale alle ombre del mito sulla coscienza dell’uomo. È solo un appiglio, ma sarà su questo spunto che più lavorerà l’ellenismo, fino ad arrivare con i neoplatonici a tentare una nuova, impossibile sintesi tra l’ethos del Logos e l’ethos del mito, tra le immagini illusorie del mondo delle antiche teogonie asiatiche e la saggezza della conoscenza razionale inaugurata da Talete e svolta in chiave antropologica e antropocentrica da Socrate.
Non è un caso che il progetto imperiale dei Macedoni si sia orientato anziché verso le terre settentrionali e occidentali, verso le stesse regioni meridionali dell’impero dei Persiani, dall’Anatolia all’Egitto, dalla Mesopotamia alle rive dell’Indo e alla Battriana. Più che una sfida politica e militare, era la terribile tentazione di ricondurre ciò che era nato da una esperienza originale che aveva generato un tipo diverso di uomo e di ethos, staccandolo dalla sua naturale matrice asiatica e dotandolo di una propria autonoma forma di coscienza e di cultura – l’uomo greco, antenato e capostipite dell’uomo europeo – di ricondurlo, dicevamo, all’antica appartenenza asiatica, nuovamente in balia dell’irrazionalità, cui era rimedio solo la esile protezione del mito.
È vero che Aristotele aveva consegnato la razionalità del Logos a prove e certezze che avrebbero superato il ritorno a qualunque barbarie, ma è anche vero che la parte sostanziale del suo argomento a favore del Logos restò al suo tempo praticamente incompresa o disattesa, privilegiando del suo discorso organico la ricerca sulla natura e soprattutto l’argomentazione etico-politica. Il grande Aristotele delle ragioni supreme dell’essere e del vivere dovrà attendere il medioevo cristiano per essere portato in piena luce e diventare il fondamento dell’ethos cristiano dell’uomo. Intanto tra il IV e il III secolo a.C., l’ellenismo costruisce la sua oikoumene con una ambiguità che già ne prepara la rovina, diffondendo nel mondo la grande conquista della grecità, e nello stesso tempo riconsegnando la grecità a un’appartenenza equivoca e incontrollabile all’Asia antica. Nella coscienza dell’uomo della koinè, la memoria dell’esperienza della bellezza e della verità del Logos s’aggrovigliava ai riti misterici e orgiastici dei culti orientali che conoscevano una nuova efflorescenza.
Quando la potenza nascente di Roma si sostituì, nel tramonto dei Macedoni, alla gestione del quarto impero della storia antica, fu questa civiltà ambigua e intrinsecamente minata che venne presa a carico e adottata come contenuto della romanità. È vero che nell’assumerla i Romani le impressero l’equilibrio del diritto e la rozzezza del pragmatismo contadino, ma nessuno di loro avrebbe saputo o potuto salvare l’ethos umano della razionalità, dell’incontro dell’uomo con il Logos, dalla sua totale distruzione. Virgilio, Orazio, Seneca o Ciceroneavrebbero potuto sì garantire l’eutanasia, la dolce morte dell’uomo nato nel VI secolo a.C. sulle rive dell’Egeo e condotto all’incontro con se stesso da Socrate nell’Atene liberata del IV secolo, ma non avrebbero potuto assicurargli né vita né futuro.
A differenza dell’impero dei Macedoni, quello dei Romani si estese anche in gran parte delle regioni che oggi noi chiamiamo Europa. Distruggendo Cartagine e resistendo alle seduzioni di Cleopatra, Roma finì col non cedere alla tentazione di scivolare ancora una volta nell’appartenenza alla grande madre asiatica. Se ciò fosse invece avvenuto, ogni possibilità di esistenza autonoma e indipendente di un continente Europa sarebbe rimasta preclusa per sempre: Roma infatti avrebbe trascinato con sé tutta la vasta area di popoli e di tribù che aveva integrato nell’orbita politica e culturale dell’Impero romano. Ma al tempo della pace d’Augusto, l’Europa ancora non esisteva. Esistevano i fattori costitutivi di una forma d’uomo e di cultura che già delineavano l’immagine di una originalità antropologica nuova e diversa dall’antica. Esistevano soprattutto le esperienze di una cultura dell’incontro che avevano segnato la svolta antropologica della grecità, ma l’ethos dell’incontro era sospeso in un pauroso pendolo tra la luminosa chiarezza del Logos e l’oscura minaccia della caverna dei miti.
Il pensiero, impaurito dai suoi stessi limiti, s’era fermato alle «colonne d’Ercole» della conoscenza e della ragione. La razionalità della teoria non bastava più per attraversarle, occorreva un’altra razionalità, non quella del pensiero raziocinante che produce la teoria, la nozione astratta, il concetto universale e la legge logica o morale o giuridica. Quando si accorse di non possedere altra ragione che quella, l’uomo ebbe di nuovo paura e corse ancora una volta nei suoi nascondigli. Mentre le sue armate occupavano il mondo, anche quello sconosciuto, nei sotterranei di Roma si scavavano grotte per le orge mistiche. Socrate non parlava più all’uomo dell’uomo sulla piazza di Atene illuminata dal sole. Divino Logos, dove eri?
«En arché en ho Logos… kai ho Logos sarx egeneto»: In principio era il Logos… e il Logos divenne carne. Delle molte esegesi possibili della mirabile pericope del prologo del vangelo di Giovanni è lecito scegliere quella che la legge nel punto di inserzione della novità dell’annuncio cristiano dentro l’ethos umano dell’incontro con il Logos, in cui consiste l’apporto della grecità alla costruzione del mondo umano dell’uomo. L’annuncio cristiano è notizia di un evento: l’incarnazione, la morte e la risurrezione di Cristo. Il Dio-fatto-uomo è l’avvenimento che costituisce un nuovo principio di razionalità del reale, il nuovo Logos. Con la sua morte e la sua risurrezione, Cristo assume in sé la contraddizione in cui si era arenato il cammino umano dell’uomo, e la assume nella forma radicale del conflitto vita-morte, in cui si sintetizzano tutti i conflitti dell’esistenza: bene e male, verità e menzogna, schiavitù e libertà, tenebre e luce, carne e spirito. Con la sua morte distrugge la morte e con la sua risurrezione restaura la vita, consegnandola ad una forma definitiva di libertà ed a una nuova possibilità di pienezza.
L’evento di Cristo, la sua persona e la sua storia, diventa così il nuovo principio di intelligibilità dell’essere, il nuovo senso della realtà, il Logos seminato in ogni frammento del reale e presente nella totalità del cosmo. La via del cammino umano si riapre su una nuova direzione: è la via della fede, della nuova conoscenza, che nasce dall’incontro con la persona di Cristo e dalla metanoia, dal cambiamento della mente, cioè della forma del pensiero. La metanoia è l’inizio del nuovo ethos della fede, così radicale nella sua novità da essere paragonabile a una nuova nascita. All’apprenderlo, Nicodemo ebbe timore: com’è possibile nascere di nuovo?
Quando Paolo giunse ad Atene e si pose sull’Areopago ad annunciare il nuovo Logos della fede, trasse spunto da un simulacro di un dio che non essendo né Apollo né Giove e nemmeno Mitra o Osiride ma un dio ignoto, era il simbolo visivo dell’orrendo pendolo in cui oscillava la coscienza dell’uomo greco tra l’appartenenza all’ethos dell’incontro o alla caverna del mito, tra il fascino del mondo come spazio aperto alla libertà creatrice dell’uomo e il risucchio del nascondiglio.
Paolo non apparteneva né al mondo asiatico né a quello greco, non era debitore di nulla né alla antica madre dei popoli indoeuropei né alla figlia ribelle ora in crisi di identità. Apparteneva a un popolo che si era formato ed era cresciuto nell’esile intercapedine compresa tra il corso del fiume Giordano e la sponda del Mediterraneo, in un isolamento quasi assoluto, che lo aveva mantenuto separato, gelosamente estraneo ad ogni influsso di cultura dei grandi imperi circostanti, l’egiziano e l’assiro, il babilonese e il persiano, il macedone e il romano. Era tra i più minuscoli popoli del mondo conosciuto, parlava una sola lingua, adorava un solo Dio, credeva nel destino di un solo popolo, lui, il popolo d’Israele, che preferiva chiamarsi il popolo dell’Alleanza. Anche Israele viveva nell’ethos dell’incontro, ma non lo aveva vissuto sulla via del pensiero che giunge al Logos della razionalità, bensì sulla via della storia che accoglie la presenza personale del Dio della salvezza. L’ethos di Israele si era formato nell’esperienza della compagnia di Dio e dell’uomo nell’unica dimora della storia. La tenda del convegno nei quarant’anni del pellegrinaggio nel deserto ne era il simbolo, era il luogo reale dell’incontro, la dimora nel tempo e nello spazio, avvenimento già in atto, presenza. Ciò che i Greci cercavano come esito estremo della sapienza di un lungo cammino sulla via del pensiero attraverso il groviglio delle apparenze fino all’incontro con la suprema razionalità del supremo Logos, e ciò che le mitologie d’Asia affidavano alle magie dei riti catartici con le loro provvisorie liberazioni, l’uomo del popolo dell’Alleanza già lo possedeva nella quotidianità dell’esistenza, fatta tutta intera ethos dell’incontro per la presenza del Dio della storia, il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, l’Emanuele, il Dio-con-noi.
Lo possedeva dentro le strutture della propria monocultura: nel linguaggio, nel costume, nella consuetudine, nella psicologia, nell’idiosincrasia di un piccolo popolo separato, impermeabilizzato, legato ad un’unica terra, in quella fessura fisica e mentale che era la fossa giordanica. L’evento di Cristo accade qui, in questa circostanza e in queste condizioni, nella forma della monocultura ebraica, linguaggio, costume e consuetudine, con il suo dialetto, le sue parabole, i suoi riti e le sue feste. E se anche nella parola e nel gesto di Cristo l’eco della dimensione universale della vocazione d’Israele suggestivamente disegnata dagli ultimi grandi profeti si fa più chiaro e più profondo, l’unico segno di universalità che è dato vedere è la sentenza di morte appesa alla croce, scritta in greco, latino ed ebraico. Nient’altro. La risurrezione si renderà manifesta solo alla cerchia ristretta dei discepoli. Il Figlio dell’uomo appartiene solo a Israele, che appartiene solo a Dio e a nessun altro popolo sulla terra.
Al compiersi della Pentecoste, il guscio ebraico si ruppe, lo Spirito del Risorto cominciò la sua opera, «da Gerusalemme fino agli estremi confini della terra».
A dire il vero, il conto con l’antico oriente era già stato regolato da tempo, con una procedura d’urgenza e secondo la moda orientale. Infatti ecco i tre Re Magi, in rappresentanza di tutte le ierocrazie antiche e future, con i loro doni simbolici del riconoscimento sacrale dell’imperatore-dio, l’oro, l’incenso, la mirra ed il loro prendere atto che il Bambino era nato, un atto però a metà notarile, e a metà profetico a giudicare almeno dalle conseguenze, che non furono immediate.
Ben diverso fu il travaglio verso i «Gentili», le genti che dimoravano nel vasto spazio umano costruito dall’ellenismo e gestito dalla romanità. Dopo il sogno di Pietro a proposito del centurione Cornelio e dopo il Concilio di Gerusalemme non ci fu dubbio: lo Spirito soffiava dalla parte del tramonto. Fu giocoforza occuparsi delle regioni circostanti, portare l’annuncio del Risorto alle genti della sponda asiatica del Mediterraneo, in Anatolia, nelle antiche colonie greche dell’Egeo, a Mileto, a Efeso.
Poi un giorno, mosso dallo Spirito cui unicamente prestava docile obbedienza, Paolo leva la vela dall’Asia e sbarca sulla costa macedone, a Listri. Sulle rive del fiume incontra un gruppetto di lavandaie, e a loro annuncia Cristo morto e risorto. Una di esse, di nome Lidia, accoglie Paolo e la sua parola, lo ospita nella sua casa, si fa catechizzare nella fede e battezzare. Questo potrà essere considerato il vero giorno della nascita dell’Europa. In quella donna, venditrice di stoffe di porpora, macedone di patria, greca di lingua e di cultura, l’ethos della Grecia si apre ad accogliere la novità cristiana, la mente passa dal Logos della ragione teorica al Logos della storia. La preistoria si conclude, inizia la storia.
Prima di giungere sull’Areopago dei saggi d’Atene, Paolo aveva già incontrato l’uomo e il mondo greco; incontrando Paolo, Lidia aveva incontrato Cristo: sulle coste di quell’Egeo che l’aveva vista nascere, la cultura dell’incontro conosce una nuova fioritura di verità e di vitalità. L’ironia dei saggi sull’Areopago all’udire Paolo sulla risurrezione di Cristo («Di questo t’ascolteremo un altro giorno…») amareggia l’apostolo, ma non impedisce che l’eredità di Talete e di Socrate si salvi, che Platone sia recuperato dalla sua tentazione e che per Aristotele si prepari il tempo di un più pieno intendimento.
Non che Paolo e Lidia abbiano progettato tutto questo, ma quell’incontro in quel luogo e in quell’ora era già carico di tutto questo, come un seme lo è di una pianta e di tutti i frutti. Nella convivenza di Paolo e Lidia nel nome di Cristo e nella novità della fede si realizza la prima Chiesa d’Europa, la prima comunione nata da un incontro. Questo avvenimento costituisce la forma definitiva dell’ethos europeo, il contenuto dell’identità europea e il metodo della formazione dell’uomo europeo e della sua cultura.
Quando il piccolo irsuto ebreo di Tarso innamorato di Cristo riuscì a trasmettere alla mente e al cuore di quella donna così diversa da lui in tutto e per tutto lo stesso contenuto della fede e a condividere con lei lo stesso avvenimento di comunione e di salvezza, ciò segnò l’inizio di una possibilità di costruzione della comunione tra gli uomini che non avrebbe incontrato nessun impedimento in nessuna diversità, e che non avrebbe avuto bisogno, per accadere, di sopprimere nessuna differenza. La novità cristiana possedeva l’energia e le forze per la costruzione dell’unità vera tra gli uomini e tra i popoli. Occorreva solo continuare ad obbedire docilmente allo Spirito, occorreva evangelizzare. Sarebbero occorsi mille anni per portare a compimento la prima evangelizzazione dell’Europa.
Quando giunse ad Atene, Paolo introdusse la novità del Logos cristiano nell’ethos della grecità; ma non si sarebbe fermato lì: lo Spirito che lo costringeva lo avrebbe portato a Roma, nell’ethos della romanità. L’approdo nella grecità non fu facile per lui e per la Chiesa nata in Gerusalemme da carne ebraica. Anche se tutto era pronto perché nel Logosaccadesse il passaggio dalla razionalità della teoria alla razionalità dell’evento e l’uomo, che in Socrate aveva incontrato l’uomo, incontrasse in Cristo la piena verità sull’uomo, anche se nello spazio umano aperto dall’ellenismo s’agitavano correnti sotterranee gravide di presentimento, forse d’attesa, perfino di desiderio, cui non era risposta il convulso ritorno alla caverna del mito, anche così non fu facile rivestire la novità cristiana della nuova forma della grecità e della romanità.
L’evangelizzazione del mondo ellenistico non poteva avvenire senza che l’annuncio cristiano fosse sottoposto a un complesso e delicato trasferimento semantico dalla struttura linguistica dell’ebraismo a quella dell’ellenismo. Se si considera che fino a quel momento il contatto tra i due mondi non era praticamente esistito, si può capire come e quanto Paolo e la Chiesa di Gerusalemme si destreggiassero con fatica tra una struttura e l’altra. Ciò che Cristo aveva predicato in aramaico, Paolo disse e scrisse in greco; alle parole del rabbì Gesù aggiunse raziocini logici ed elaborazioni concettuali; alle leggi della sinagoga sostituì la libertà dello spirito. Il coraggio dell’impresa gli veniva dalla certezza che l’evento di Cristo costituiva una novità radicale di liberazione dell’uomo: «Non c’è più né giudeo né greco, né barbaro né scita, né schiavo né libero, né uomo né donna, ma siamo uno in Cristo» e «se uno è in Cristo è una nuova creatura» (Gal 3,28).
L’itinerario di Paolo da Gerusalemme a Roma attraverso Atene indicò alla Chiesa il compito dell’evangelizzazione nell’intero campo umano del mondo, ne tracciò il primo percorso, ne avviò l’opera. Tutte le straordinarie energie di pensiero e di azione messe in movimento dall’incontro con Cristo avrebbero concorso all’adempimento di quel compito per tutta la durata della storia, fino alla fine dei tempi.
Paolo poté solo iniziarlo: almeno tre secoli sarebbe durato il processo di assimilazione reciproca tra ellenismo e cristianesimo. Alla sua conclusione il grande veicolo storico dell’ellenismo – l’impero romano – sarebbe scomparso. Un nuovo modo di evangelizzare si sarebbe allora offerto allo slancio missionario della Chiesa: i barbari del nord.
L’ethos dell’incontro vissuto nella forma ebraica dell’Alleanza e compiuto nella piena verità in Cristo, il Dio-fatto-uomo, si staccava da quella forma e si rivestiva della forma ellenica dell’ethos della razionalità, e così usciva sulle strade del mondo, costruite dagli eserciti romani, con una straordinaria vitalità generatrice di nuova vita e di nuova cultura. Le vie imperiali della lingua comune, del diritto, dei commerci offrivano all’annuncio cristiano un veicolo di comunicazione che rendeva assai più facile l’opera dell’evangelizzazione. Nello stesso tempo, la romanità invadeva lo spazio umano dell’impero con qualcosa di più della lingua comune, del diritto e dei commerci: essa significava anche una pretesa sull’uomo, nella misura in cui lo voleva chiuso entro l’orizzonte limitato dell’ellenismo e della sua crisi, e di fatto lo costringeva nel pendolo dell’ambiguità tra razionalità e irrazionalità, tra libertà e paura.
Questa oscillazione andò facendosi sempre più drammatica con l’aggravarsi dell’intrinseca fragilità romana e con il progressivo delinearsi della inevitabilità della fine dell’impero. Come sempre accade per ogni fragilità, la romanità oppose alla novità cristiana una grossa resistenza, che a tratti si fece feroce, l’ethos della romanità offriva all’ethos del nuovo incontro le strutture per la sua diffusione, ma nello stesso tempo gli negava – in nome e per causa di quelle sue stesse strutture – la libertà di costruirsi secondo tutte le dimensioni della propria novità. Accadde così il paradosso delle persecuzioni: Roma usò il proprio diritto e il proprio potere per tentare di eliminare la novità che sola avrebbe potuto salvare la sua anima di verità e la sua cultura.
Ma il paradosso delle persecuzioni non fu la più grave delle prove che la novità cristiana dovette affrontare nel compiere la prima mirabile impresa dell’evangelizzazione del mondo greco-romano. Un’altra prova più ardua e più decisiva la impegnò per un intero secolo in una lotta dalle cui sorti dipendeva la sopravvivenza del cristianesimo come novità di vita. Tale fu infatti il senso del conflitto tra la Chiesa nata tra i gentili e la grande tentazione gnostica. Ancora una volta si trattava di decidere se la novità dell’ethos cristiano dovesse prendere la via dell’oriente e trasformarsi nell’ultima delle religioni misteriosofiche generate dall’Asia, o se l’avvenimento cristiano dovesse svolgersi e crescere nella continuità dell’incontro tra Cristo e Socrate, tra il Logos della storia e il Logos della ragione. Se oggi esistiamo come Europa, ciò è dovuto all’esito dello scontro con la Gnosi.
«La Gnosi è una formazione assai complessa in cui si frammischiano in modo singolarissimo elementi ellenici e orientali, la più sublime speculazione e la superstizione più crassa, tendenze iperascetiche e tendenze libertine…. La filosofia per gli Gnostici non era altro che la facciata, dietro la quale si nascondeva un insieme di concezioni prettamente orientali: cosmologia e astrologia babilonese, culto dei misteri egiziano-siriaco, dualismo iranico-persiano. Mentre la filosofia ellenica da Socrate e Aristotele, e particolarmente nello Stoicismo, aveva già concepita l’idea d’un Dio unico, nello Gnosticismo c’è il balenio d’una molteplicità di dei, di tipo indo-bramanico. Il Dio supremo viene allontanato dal mondo, il mondo appartiene a un Demiurgo, che secondo gli uni è cattivo, secondo gli altri soltanto debole e imperfetto. Là presso si spalanca l’abisso o Bythos, nel mezzo tra il mondo e Dio c’è il Pleroma, l’insieme degli Eoni. Ma questi Eoni hanno non solo caratteri divini e umani, ma anche astrali, demoniaci e animaleschi. Ai sette demoni superiori (archontes daimones) Michele, Suriele, Raffaele, Gabriele, Thauthaboot, Eratahaot e Onoel corrispondono non solo stelle, sfere e mondi, ma anche leone, toro, drago, aquila, orso, cane, e asino. È il sistema cosmico dell’Asia, in cui l’uomo non è ancora cosciente della sua posizione particolare nel cosmo, in cui svaporano e scompaiono non solo i confini col mondo delle stelle, ma anche quelli del mondo subumano, animale. E come in questo sistema non c’era posto per un concetto epurato di Dio, così nemmeno per gli uomini c’era quel posto che i Greci avevano scoperto. E come non v’era posto per l’uomo, non ve n’era neppure per tutto ciò che da secoli era scaturito dall’idea greco-romana dell’uomo: una Polis ordinata secondo leggi o un Imperium del diritto, una scienza che procede nelle sue investigazioni su basi concettuali, un’etica che distingue il bene dal male, un’arte della misura e della bellezza, una vita di saggezza e di padronanza di sé.
Al posto di tutto questo l’Oriente metteva l’illimitato dispotismo dell’arbitrio, la superstizione nel popolo e la teosofia magica in una casta sacerdotale esoterica, un ascetismo estremamente cupo e un vitalismo sfrenato, un’arte mostruosa di raffigurazioni grottesche semibestiali, una vita oscillante tra i poli di un’estasi ebbra e di una vuota ottusità. Il Cristianesimo vincendo la Gnosi salvò l’Occidente e salvò la grecità, la quale con le sole sue forze non poteva più opporre alcuna resistenza» [4]. Ancora una volta dunque si trattò di una decisione per un modo diverso di essere uomo, analoga a quella che portò alle guerre persiane e alla svolta antropologica della grecità. In questa nuova scelta per l’ethos umano dell’uomo il Logos della grecità e il Logos della novità cristiana si unirono ancora più consapevolmente e più profondamente, e dalla loro unione conseguì un radicamento più profondo della novità cristiana nella cultura greco-latina, che sviluppò ulteriormente la sua originale vocazione di cultura dell’incontro. Lo sviluppo della cultura dell’incontro definì ulteriormente la fisionomia della forma europea dell’uomo e l’ethos dell’europeità si accrebbe di un nuovo tratto più marcato e anche più cosciente: la scelta per l’uomo e per l’ethos umano dell’uomo.
Dalla sconfitta della Gnosi e dalla più matura scelta per la cultura dell’incontro, fiorì, a partire dal II secolo d.C., una mirabile creazione di pensiero e di cultura che ebbe i suoi frutti nella Patristica greca e latina, nella liturgia e nell’arte. Mentre il potere imperiale gestiva con sempre maggiore difficoltà il proprio disfacimento, la Chiesa dei gentili costruiva una nuova dimora per l’uomo, e la costruiva sulla pietra fondamentale che è Cristo, secondo il progetto dello Spirito, adornandola con la stupenda bellezza delle creazioni del pensiero, della poesia, dell’arte. Durante secoli e secoli il lavoro di questa costruzione continuerà ininterrotto.
Note
[1] Cfr. Dawson C., La nascita dell’Europa, Firenze, Mondadori 1962, p. 11.
[2] Rüssel H. W., Profilo d’un umanesimo cristiano, Roma, Einaudi 1945, p. 51 «Il bios theoretikos, la vita contemplativa, cioè della riflessione intellettuale, ebbe sempre, per loro, la prevalenza sul bios politikos, sulla vita delle occupazioni, degli affari, delle opere». Cfr. specialmente Arist. Eth. Nic., L.X.C.VII. e s.; p. 1177, A, 12 e s.; Polit., L.VII.C.III, 5; p. 1325 e s. (n.d.T.).
[3] Guardini R., La fine dell’epoca moderna, Brescia, Morcelliana 1954-1973, pp. 11-16.
[4] Rüssel H. W., op. cit., pp. 68-70.