fonte: thesparklings.it
A cinque mesi di distanza dalla sua nascita al cielo, torniamo a parlare del piccolo Charlie Gard e lo facciamo con Assuntina Morresi, che ringraziamo di cuore. Editorialista di Avvenire e scrittrice per l’Occidentale, nonché autrice del libro Charlie Gard, Eutanasia di Stato, appena uscito e acquistabile qui. Sposata, tre figli, è docente di Chimica Fisica presso il dipartimento di Chimica, Biologia e Biotecnologie dell’Università di Perugia. Dal 2006 fa parte del Comitato Nazionale per la Bioetica, ed è consulente scientifico per il Ministro della Salute Beatrice Lorenzin.
Cosa ti ha spinto a scrivere il libro e perché fin dalle prime pagine del libro ci tieni a chiarire che non si tratta solo di un “caso Charlie”?
«Lo sentivo come un dovere, come un atto di giustizia nei confronti di una grande ingiustizia. Non lo definisco come un semplice “caso”, perché il “caso” viene trattato sempre come qualcosa di astratto, un’idea. Invece bisogna ricordarsi che Charlie e i suoi genitori sono persone, non idee, e in quanto tali vanno difese. Per me era importante raccontare quello che era successo e spiegare il senso della loro storia, al di là delle considerazioni di bioetica e diritto, per evitare di parlarne come di un’astrazione accademica. Per questo la modalità del racconto è quasi un diario, un’esperienza. La parte più difficile è rendere consapevoli tutti noi che abbiamo combattuto per Charlie, che la vicenda non sarebbe diventata planetaria senza la nostra mobilitazione, ed è importantissimo che ci si renda conto di che cosa ha scatenato la ribellione: è molto ingeneroso parlare di una semplice “reazione emotiva”. No … è stata una reazione umana. Ci tengo inoltre a precisare che non è stato un “caso” creato ad hoc, per creare un precedente, ma un “incidente”: seguendo la mentalità corrente, quel bambino non doveva vivere. La sua morte era stata ritenuta “normale”, da medici e giudici, secondo il criterio del “best interest”, il suo “miglior interesse”: la vita del piccolo era di qualità così scarsa che era meglio (il miglior interesse) per lui morire, non vivere.»
Qual è a tuo parere dunque, il filo conduttore che lega le storie di Charlie, Eluana Englaro, Terry Schiavo, Welby e dj Fabo e qual è stata la principale differenza?
«Quelli di Terry Schiavo (in parte), Eluana Englaro, Welby e dj Fabo, appunto, sono stati “casi”, nel senso di percorsi sostanzialmente costruiti a tavolino per creare dei precedenti da seguire come esempio, in situazioni analoghe che si sarebbero presentate in futuro. Quello di Charlie, invece, è stato un incidente: i medici del GOSH non volevano che scoppiasse la vicenda e nemmeno se lo aspettavano in virtù della suddetta normalità. Il filo conduttore è la volontà eutanasica: ci sono casi in cui la vita non merita d’essere vissuta, è meglio morire. Ma mentre l’eutanasia generalmente si definisce in un contesto di sofferenza fisica insopportabile (non riesci a placarla in alcun modo e quindi è “meglio” morire), per Charlie non si tratta di una sofferenza incontrollabile di tipo fisico e la logica eutanasica stava nel voler porre fine ad una vita che teoricamente produceva sofferenza a prescindere da un dolore fisico, una vita sofferente perché di scarsa qualità. Per Charlie si è arrivati al punto da non consentirgli di tornare a casa per morire: se gli “esperti” e le istituzioni possono stabilire il tuo massimo interesse, decidendo anche della tua vita e della tua morte, a maggior ragione possono decidere dove e come vivi e muori. Questa mentalità eutanasica è entrata pian piano nella mentalità comune – non si fanno mai grandi salti, per la finestra di Overton – e Charlie è stato una sentinella: ci ha avvertito che siamo già entrati in questa mentalità, e ci ha resi coscienti che probabilmente ci sono state tantissime altre vittime sconosciute di questa logica mortifera.»
Dunque potremmo dire, effettivamente, che la nuova vicenda relativa ad un altro bambino a cui vogliono “staccare la spina”, Isaiah Haastrup, è emersa anche grazie al piccolo Charlie.
«Assolutamente. Alla fine del libro su Charlie, quando nell’ultimo capitolo descrivo alcune sentenze dei tribunali inglesi, spiego come, in nome dell’autodeterminazione, si va verso una dittatura dei poteri istituzionali, cioè, alla fin fine, dello Stato. Ho accennato a delle sentenze in cui i giudici non hanno tenuto conto della presunta volontà della persona (non più in grado di dare il suo consenso), e di quella manifestata dalla famiglia, sia che esprimessero il consenso a certi trattamenti, sia che lo negassero. Non è dunque, infine, la volontà del singolo a valere, ma il giudizio sulla sua qualità di vita da parte di “esperti”, e questo è terribile. Una volta si dava per scontato il cosiddetto favor vitae, e cioè che la vita fosse il primo fra tutti i diritti, e quindi, nel dubbio, la preferenza era sempre al vivere. Se invece il favor vitae non è più il criterio di giudizio, ma la principale coordinata di riferimento è la qualità della vita, tutto dipende da chi decide, a prescindere dalla volontà della persona interessata. E morire può diventare il massimo interesse.»
Infatti il giudice è una persona che spesso non ha competenze nel contesto in cui deve emettere la sentenza e quindi ricorre al cosiddetto CTU (Consulente Tecnico d’Ufficio), una persona competente nella materia da affrontare che redige una relazione sulla cui base il giudice emette la sentenza. In questo caso, i CTU del giudice sono stati i medici del GOSH giusto?
«Esattamente. Ad un certo punto nel libro lo scrivo: per Charlie i medici vanno in tribunale dai giudici per chiedere se è corretto staccare i ventilatori e i giudici per deciderlo chiedono ai medici. C’è un evidente corto-circuito: il giudice decide in base alla perizia dei medici e i medici agiscono in base a quello che decide il giudice. In pratica, come si dice a Roma, se la cantano e se la sonano.»
C’è evidentemente una mancanza di oggettività dovuta al fatto che il favor vitae è venuto meno. Prendendo spunto dal libro mi chiedo: a molte persone sembra non essere chiara la differenza tra inguaribile e incurabile, tra assistenza e cura medica, potrebbe essere questa indeterminazione un fattore della deviazione dal favor vitae al favor mortis?
«No, secondo me è una conseguenza. Proprio perché non c’è più il favor vitae, se un paziente è inguaribile allora non è più necessario prendersene cura. Se la vita vale solo a certe condizioni – salute, qualità di vita decente – nel momento in cui quelle condizioni non ci sono più, e non hai prospettive di guarigione, non importa che tu sia curabile, cioè che qualcuno possa prendersi cura di te. Tutto ciò è quindi una conseguenza del valore che viene dato alla vita umana, che adesso, sostanzialmente, si misura dalla “performance” di una persona, e dal suo livello di indipendenza. La confusione sui termini si crea nel momento in cui viene cambiato il sistema di riferimento: non chiedi più se è curabile ma se è guaribile e se non lo è, inguaribile e incurabile divengono la stessa cosa.»
Qual è stata la contraddizione più evidente nella posizione del GOSH durante il contenzioso legale che si è concluso, purtroppo, con la morte del piccolo Charlie?
«Il fatto che i medici del Gosh non hanno dato la possibilità ai genitori di scegliere il medico curante. Alla fine i medici del GOSH hanno voluto prevalere sulle scelte della famiglia: ma non è possibile cancellarla completamente. E poi, in base a cosa i medici del Gosh hanno stabilito di essere migliori di quelli del Dipartimento di Neurologia della Columbia University, dove i genitori di Charlie volevano portare loro figlio? I Gard non volevano certo andare da un ciarlatano, ma come scrivono nella lettera, volevano portarlo in un grande ospedale a livello internazionale, peraltro a spese loro. Perché impedirglielo? La gravità del comportamento dei medici del GOSH sta in questo loro delirio di onnipotenza che li ha persino portati ad imporre l’hospice dove far morire Charlie.… Eppure sappiamo bene che chiunque ha la possibilità di curarsi dove vuole, purchè all’interno della comunità medico-scientifica riconosciuta. Ed è stata grave la totale impunità con cui le autorità inglesi si sono mosse: gli unici a ribellarsi a questa follia siamo stati noi del “Charlie’s Army” (l’esercito di Charlie) sostanzialmente pro-life. Nessuno dei cosiddetti “liberali” che vediamo continuamente gridare e appellarsi alla libertà di cura si è espresso, per il piccolo Charlie: se questi sono i paladini della libertà di cura, Iddio ce ne scampi.»
I media, infatti, come sappiamo hanno provato ad oscurare la mobilitazione che c’è stata per il piccolo Charlie. Qual è l’aspetto principale della mobilitazione che è stato nascosto?
«Innanzitutto le veglie di preghiera. I media tendevano ad oscurare la mobilitazione perché non rispondeva ai soliti criteri: era senza un capo, senza un riferimento politico, senza un riferimento culturale di quelli usuali, del mondo dello spettacolo e dei media. Eravamo semplicemente cattolici, e il Papa e Trump si sono mossi a seguito della enorme mobilitazione popolare, ma non ci sono state altre personalità. Evidentemente a tutti quelli che si riempiono la bocca di partecipazione della società civile, al dunque importa poco della suddetta società civile. Un esempio: i monumenti illuminati di blu (ndr: durante la mobilitazione i sostenitori di Charlie hanno lanciato l’iniziativa di illuminare di blu i monumenti principali di ogni città, una luce di speranza per Charlie. Il Cristo di Rio de Janeiro è stato uno dei monumenti con la luce blu). Se in altre circostanze il Cristo di Rio de Janeiro fosse stato illuminato con i colori dell’arcobaleno (invece che di blu) i giornalisti avrebbero fatto voli pindarici inenarrabili. Dobbiamo essere consapevoli che senza la mobilitazione del Charlie’s Army, la sentinella Charlie Gard non avrebbe mai avuto voce per farsi sentire.»
Tra tutti i divieti del GOSH alla famiglia di Charlie, qual è stato il più eclatante?
«La cosa che ha fatto impazzire tutti è stato l’impedimento alla famiglia di Charlie di portarlo a casa a morire. Sono i condannati a morte a non poter scegliere dove morire. La costrizione di staccare il ventilatore è stata una coercizione terribile sotto tutti i punti di vista, degna di un regime dittatoriale, ma il non poter morire a casa è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Inoltre noi abbiamo messo in evidenza le bugie del Gosh – come il fatto che il ventilatore non passava dalla porta o le difficoltà dovute a scale inesistenti nella casa dei Gard.»
In conclusione, quella di Charlie è un’eutanasia di Stato, come la definisci nel titolo stesso del libro. Sarebbe dovuta essere forse la prima domanda, ma come mai hai scelto proprio questa definizione?
«Eutanasia: perché chiamando in causa la sua sofferenza, che non era dimostrabile – peraltro era sedato con morfina per via della palliazione a cui era sottoposto – si è deciso di abbreviarne la vita. E questa è la definizione più generale di eutanasia. Di Stato: perché lo ha deciso lo Stato, imponendolo ai genitori: non sono stati loro a scegliere. Tra l’altro i medici in questo caso hanno usato un concetto di “malato terminale” diverso da quello che solitamente si intende. Con “terminale” indichiamo una persona nell’imminenza della morte: questione di giorni, se non di ore. Loro invece, pur prevedendo per il piccolo sei-nove mesi di vita, intendevano che Charlie poteva solo peggiorare, “terminare” di vivere, appunto, e in quelle condizioni, di conseguenza, quella vita non aveva valore. Se peraltro continuiamo a ragionare in base ad “ipotetiche sofferenze”, non dimostrate ma probabili, andrebbero “terminati” tutti coloro che sono in terapia intensiva – tutti ipoteticamente sofferenti, anche se notoriamente sedati.»