di Roberto Pecchioli – 06/03/2020
Fonte: Ereticamente
Nel caso del Coronavirus, il solo esponente politico che abbia pronunciato parole all’altezza della storia è Giulio Tremonti. Esiste una relazione tra la globalizzazione, la rapidità dello sviluppo del contagio e le conseguenze economiche. Innanzitutto, l’irruzione dell’Asia ai vertici dell’economia, dell’industria e del consumo è un fatto storico di portata paragonabile alla scoperta dell’America alla fine del XV secolo. La globalizzazione, processo concreto di espansione alla totalità del globo dell’economia di mercato basata sullo scambio illimitato con i postulati produttivi indicati da David Ricardo – specializzazione, delocalizzazione, bassi salari – ha imposto per oltre un ventennio un mondo artificiale, fantasmagorico e felice, sovrapposto a quello reale. Fine della storia e una nuova geografia con baricentro a oriente.
[su_panel shadow=”0px 7px 5px #eeeeee” radius=”11″]Giulio Tremonti avverte: il corona virus segna il ritorno della natura, il passaggio dall’artificiale al reale. Il mondo senza frontiere non è più un bel sogno, una nuvola rosa planetaria, ma contiene elementi da incubo, fa riaffiorare paure ancestrali che parevano rimosse, vinte da una scienza e da una tecnologia onnipotenti.
La globalizzazione è anzitutto, con la terminologia marxiana, la struttura che sostiene una sovrastruttura ideologica – il globalismo mercatista – fondata sull’esaltazione della “società aperta” (Karl Popper). L’imperativo categorico è la circolazione vorticosa e continua di merci, capitali e soprattutto degli uomini, la forza-lavoro, l’esercito di riserva che abbassa i costi e destabilizza le comunità.[/su_panel]
Queste considerazioni non sono teorie astratte, ma spiegano lo choc immediato di queste settimane, oltre il numero di casi conclamati e dei decessi provocati dal virus. L’ossessione delle porte aperte, il ripudio delle frontiere, l’erosione degli Stati nazionali – i soli a poter agire nell’ emergenza, con potere di decisione nelle condizioni di eccezione, come sapeva Carl Schmitt – fanno parte delle concause metastoriche del contagio. L’impotenza che ci pervade affonda le radici anche nell’indiscutibilità della narrazione globalista: non siamo preparati in quanto mentalmente disarmati. Il resto lo fa la natura, con le sue rivincite e la sua imprevedibilità che batte in un attimo statistiche, algoritmi, modelli matematici dell’orgoglioso homo tecnologicus.
Nessuna persona di buon senso invoca chiusure isteriche, del resto inutili dinanzi all’avanzata di un nemico quasi immateriale e invisibile, ma è chiaro che l’assenza di limiti, la meccanica obbligata del laissez faire, laissez passer, l’impetuosa opera di demolizione di ogni argine – fisico, legislativo, psicologico – hanno la loro parte di responsabilità. Sotto il profilo economico, la convinzione di Tremonti è che le stime al ribasso siano fin troppo ottimistiche, probabilmente perché trascurano o non sono in grado di quantificare durata ed effetti psicologici del contagio. La Cina, inoltre, è cresciuta troppo in fretta. Tremonti ha mostrato una foto satellitare notturna del territorio del Dragone: a un’area costiera intensamente illuminata, fa da contraltare un immenso spazio interno buio.
E’ la prova di un a contraddizione, una forzatura che ha creato grandi squilibri. Negli ultimi anni, il paese ha intrapreso una velocissima conversione dalla manifattura all’intelligenza artificiale, volano di un ulteriore squilibrio geografico tra aree iper sviluppate e ampi territori che vivono nell’era pre industriale. I dirigenti sembrano terrorizzati più dalle ricadute economiche che da quelle sanitarie. La proverbiale stabilità cinese ha subito un duro colpo, in parallelo con il quasi azzeramento della crescita del PIL impetuosa e in doppia cifra del Terzo Millennio.
La geopolitica corre e, al netto delle teorie complottiste che attribuiscono il Coronavirus a un atto di guerra chimica “a bassa intensità”, non vi è dubbio che la percezione, fuori dalla Cina, specie in America, è di un doppio timore. Quello immediato concerne l’epidemia, ma l’altro, perfino più profondo, la paura di essere superati, l’effetto fibra 5G. Tremonti lo chiama “effetto Sputnik”, paragonandolo al trauma subito dagli Usa allorché i sovietici, mettendo in orbita le prime astronavi, mostrarono le loro capacità nella conquista dello spazio celeste.
Non sarà facile ricostruire le filiere produttive centrate sulla Cina. Per quanto ci riguarda, sarà probabilmente necessario- superando le rigidità ideologiche di un liberismo battuto in breccia dalla realtà, messo in crisi dal cigno nero- un forte piano di investimenti pubblici. I fatti hanno la pessima abitudine di venire a galla, smentire le previsioni e smascherare le bugie – moltissime- di questi tempi. Il primo a comprendere e misurare la portata di fenomeni naturali come le epidemie fu Daniel Defoe, lo scrittore inglese creatore del personaggio di Robinson Crusoe, trattato come un libro per ragazzi, mentre è un trattato di economia e antropologia individualista. De Foe fu il primo giornalista economico della storia. Come tale, mise sotto la lente dello scienziato sociale e dell’economista la peste olandese d’inizio XVIII secolo, che arrivò dal mare nei porti dei Paesi Bassi, nel pieno del loro gran secolo di potenza commerciale.
Il coronavirus proviene anch’esso dall’est e da una città portuale, Wuhan. Le sue conseguenze stanno agitando in poche settimane la catena di approvvigionamento delle aziende di tutto il mondo. Sono filiere globali dedite alla produzione e all’assemblaggio di parti, pezzi e componenti dei prodotti che utilizziamo. La stima più attendibile valuta che l’ottanta per cento del commercio mondiale sia costituito da queste filiere di approvvigionamento, al vertice delle quali ci sono le più grandi aziende del mondo. Il commercio di questi “beni intermedi” è circa il doppio rispetto allo scambio di prodotti finiti. Specialmente importante è il suo impatto sui processi industriali più avanzati, legati a materie prime e semilavorati provenienti da varie aree del mondo, che fanno capo all’industria di trasformazione cinese, come nell’industria automobilistica, nel settore telefonico e informatico.
Il virus presenta il conto all’economia reale, ma anche a quella finanziaria. In sole sei sedute di borsa le cinque maggiori multinazionali tecnologiche, i GAFA più Microsoft, hanno lasciato sul terreno l’equivalente di 700 miliardi di dollari di capitalizzazione, quasi il quaranta per cento del PIL italiano. Questo, peraltro, dimostra che i primati messi a segno da Wall Street negli ultimi anni erano una bolla ulteriore, o un errore di valutazione degli attivi. Stavolta esistono serie ragioni di economia, geopolitica e psicologia di massa a giustificazione di ciò che sta capitando, al di là del consueto panico di Borsa per ogni evento imprevisto. Non si tratta, per capirci, di una “correzione tecnica”.
Il consumo cinese di carbone, che rappresenta il 60 per cento dell’energia consumata nel paese, è crollato del 40 per cento. La domanda di ferro e acciaio è scesa in misura simile e, per quanto consta agli osservatori indipendenti, solo una percentuale tra il 50 e l’80 per cento di chi lavora è al proprio posto. Ciò significa una caduta verticale nella catena produttiva. In un mondo globalizzato, ciò che accade in Cina si trasferisce immediatamente nel resto del mondo, a velocità non troppo dissimili da quelle del virus. L’ economia dei trasporti dà già segni di crisi. L’interscambio italiano con la Cina ha dimensioni enormi ed alimenta decine di comparti industriali. Nessuna nave diretta in Europa è salpata per giorni dal porto di Ningbo, il maggiore scalo merci cinese.
Rispetto al 2003, l’anno della Sars, l’interdipendenza economica del pianeta è di gran lunga maggiore e la Cina dell’epoca era solo all’inizio della sua impressionante scalata produttiva. La globalizzazione è immensamente cresciuta, ma è anche divenuta più vulnerabile, più soggetta al “cigno nero”. Tutto ciò spiega la preoccupazione internazionale, in un contesto dove la Cina aveva già rallentato la corsa del PIL, trascinando con sé ampi settori delle nostre economie. In più, siamo nel pieno di un confronto geopolitico tra Cina e America impensabile nel 2003, anno in cui il PIL cinese crebbe del 10 per cento e quello mondiale di quasi il 4. Allora il Dragone rappresentava il 9 per cento dell’economia- mondo, nel 2020 ha più che raddoppiato la quota.
Le previsioni non sono rosee: difficile che si realizzi un’uscita a V dalla crisi del coronavirus, cioè una caduta brusca a cui succede una ripresa intesa. La globalizzazione, sembra, non è più la soluzione, ma il problema. In pochi mesi, da ottobre 2019 alla fine di febbraio 2020, le misure economiche protettive (i dazi e le barriere extradoganali) sono aumentate del 27 per cento, interessando un volume d’affari di 750 miliardi di dollari. Vari fattori, virus a parte, fanno sì che le catene globali del valore perdano forza: incremento dei salari, protezionismo, avanzata della robotica. L’ intelligenza artificiale incoraggia il ritorno di molte installazioni industriali nei paesi di origine; le tariffe doganali per alcuni prodotti sono entrate a regime, mettendo in crisi il ruolo dell’Organizzazione Mondiale del Commercio. Il WTC non è in grado di dirimere controversie perché non ha né i giudici, né gli strumenti per farlo, soprattutto per volontà americana.
Infine, il virus ha messo in allarme moltissime aziende sulla vulnerabilità delle loro catene di approvvigionamento, troppo dipendenti dalla Cina, il che potrebbe privilegiare la differenziazione, trasferendo alcune produzioni in siti con forniture garantite, anche se con costo del lavoro più elevato. A lungo termine, si tratterà di ricostruire le riserve, gli stock che permettano alle aziende di disporre di beni intermedi con minore dipendenza dalla Cina, specie nell’ Unione Europea. Lo scenario non è dei migliori. La politica monetaria è praticamente esaurita, salvo un ulteriore ribasso di circa mezzo punto entro giugno dei tassi americani, un margine su cui non può contare la BCE, ancora una volta colta in contropiede e senza interlocutori governativi. I danni economici riguarderanno l’offerta, per la caduta delle produzioni, su cui può influire poco la politica monetaria, in Europa già sul punto di penetrare nel tenebroso territorio dei tassi negativi.
La politica fiscale, in assenza di sovranità economica e monetaria, ha serie limitazioni, non tutte addebitabili a Bruxelles. I margini statali per incoraggiare politiche di domanda sono minimi, se non cambia il paradigma, ovvero non si accetta di fare deficit virtuoso, opere pubbliche e ricerca, rovesciando il rapporto con il potere finanziario. Dal lato dell’offerta, nebbia fitta. Il poco di espansione degli ultimi terribili anni si è basato sul consumo privato, ma la propensione al risparmio aumenta con il crescere dell’incertezza. Ancora più rapidamente si diffonde l’avversione al rischio.
Se poi l’epidemia dovesse durare a lungo, la botta sarebbe pesantissima, con le implicazioni psicologiche sull’economia dei timori di massa, forse irrazionali, forse no, ma comunque ben reali. Che ne sarà allora del turismo e delle attività ad esso collegate, tanto importanti per la tenuta del nostro sistema, quali consumi e produzioni reggeranno? L’unica certezza è che la crisi scatenata dall’epidemia cinese è altrettanto grave sul terreno economico e sociale che su quello sanitario.
Unica speranza positiva del “cigno nero” è che faccia rinsavire non i popoli, che alla globalizzazione credono sempre meno, ma le classi dirigenti politiche, affinché riassumano il controllo della situazione, recuperino il potere perduto e abbandonino al loro destino la finanza, il monetarismo, il liberismo dissennato, il mercatismo e l’apertura indiscriminata. Occorrono confini, anche in economia. Occorre iniziare, con prudenza, con tutte le cautele del caso, ma con coraggio, un percorso di de-globalizzazione. Nel frattempo, lavorino gli specialisti per contrastare l’epidemia, si racconti la verità alla gente e si dica con chiarezza che la soluzione non è per domani.
Deglobalizzare, imparando dalla lezione cinese. Anche la marcia più lunga inizia con un piccolo passo: Mao Tze Tung, un cinese.