di Costanza Miriano
Quando ho cominciato a scrivere questo blog avevo quattro figli tra i quattro anni e mezzo e gli undici, una casa cronicamente in disordine – adesso lo è solo dalle sette di mattina alle undici e trenta di sera, poi vedeste che meraviglia! – e un tapis roulant in una minuscola camera da letto matrimoniale (resa ancor più minuscola dal tapis stesso), che era la mia unica possibilità di fare attività fisica, generalmente dopo mezzanotte (grazie a Dio stiamo al piano di terra, e i topi delle cantine sono piuttosto concilianti quanto a rumori molesti).
Il resto della giornata volava via tra figli e lavoro, con l’audace obiettivo di non dormire alle conferenze stampa né ascoltando la lezione di geografia, e se possibile anche di rimanere viva. Durante l’estate precedente mi ero imbarcata, sempre rigorosamente di notte, nell’avventura di scrivere delle lettere alle amiche per convincerle a sposarsi. Perché nonostante la stanchezza continuavo (e continuo) a pensare che ne valesse (ne valga) la pena, ma soprattutto perché Camillo Langone mi aveva suggerito di scrivere un libro, e quella era l’unica cosa che mi pareva di poter dire.
Ero certa che nessuno se lo sarebbe filato, infatti non trovavo neanche una libreria che mi accogliesse per presentarlo, quando uscì: la moglie del capo della cronaca del tg3 dove allora lavoravo, mossa a compassione, mi offrì il suo negozio di artigianato (Le Artigiane a Largo Argentina) per fare una piccola presentazione, alla quale vennero forse una quindicina di persone, tre delle quali però valevano per duecento, perché erano le amiche del mare e avevano attraversato l’Appennino per stare a Roma due ore, e stringere tra le mani il libro, il frutto di quelle notti estive insonni con le quali le avevo rintronate durante la vacanza a Marotta. L’inizio, come promozione, non era dei più promettenti, e allora la mia amica del tg3, molto più avanti di me su quasi tutti i campi dello scibile umano, Elisabetta, mi suggerì di aprire un blog. Vergognandomi di chiederle cosa fosse, scivolai con noncuranza alla scrivania, e digitai blog su google (o, come si chiamava allora a casa nostra, “il signol bugo che tlova tutte le cose”).
Blog = abbreviazione di web log, rispose secco. Non mi hai spiegato niente caro signor bugo, chiedo a mio marito che di questa roba è l’addetto, a casa. “E’ una specie di diario”, ha cominciato a dire lui. E prima che finisse, mi aveva convinto. Scrivere diari infatti è l’unica cosa che so fare, oltre a inventare avventure surreali con omini della Lego che contemplino sia conquiste di terre lontane che baci appassionati tra soldati e fanciulle, per intrattenere due maschi e due femmine e impedire loro di litigare per qualche secondo.
Se devo scrivere un diario, se serve a diffondere il verbo del matrimonio anche in rete, proviamo. Così, piano piano, è cominciata questa avventura, nata inizialmente come un raccontino delle vicende familiari. Mi piaceva moltissimo quello di elasti, nonsolomamma – perché poi ho cominciato a cercare in giro blog che valesse la pena leggere – e pensavo che avrei raccontato anche io della nostra famiglia.
Poi in realtà la cosa si è completamente trasformata anche se, lo so, persino a me ero più simpatica prima, quando parlavo solo delle cose buffe dei figli e di uomini e donne. Il fatto è che gradualmente mi sono resa conto che era necessario parlare anche di altro: cominciavo a rendermi conto del dilagare della propaganda sul gender, anche perché degli amici mi avevano coinvolta ad andare a parlare nelle parrocchie non solo di maschio e femmina, come già stavo facendo, ma anche di come nella nostra cultura le più semplici realtà, come appunto quella del maschile e femminile, siano messe in discussione. Stava arrivando il tempo dei corsi gender nelle scuole, del disegno di legge sulle unioni civili, e per una serie di circostanze che nel blog ricostruisco (c’entra una torta al cioccolato con panna), mi sono trovata nel comitato organizzatore del Family Day e persino a parlare da un palco davanti a una folla che non avevo mai neanche immaginato di vedere (e senza che sul palco fosse stata attivata l’apposita funzione botola nella quale sparire colta dal panico).
Intanto continuavo a girare l’Italia e a incontrare persone meravigliose, una dopo l’altra (lo anticipo: saranno i protagonisti del mio prossimo libro): un popolo meraviglioso, il popolo del Signore, che mentre io andavo in giro a predicare, viveva in modo stupendo la propria chiamata. Cristiani sconosciuti a tutti tranne ai propri cari, ma perle preziose di fedeltà e tenacia, capaci di portare croci che sfonderebbero una coppia di buoi, e di farlo con umiltà e creatività; un popolo di gente bella, generosa, buona; ognuno col suo dolore ma anche col suo talento, perché il Signore ha una fantasia incredibile; preti lontani dai riflettori che curano con amore e intelligenza greggi davvero pesanti. Alcuni di loro sono finiti, in piccolissima parte, sul blog, che nel frattempo ha cominciato a essere scritto a più mani, mentre mio marito, il valoroso Admin, cercava di dare voce a questo popolo rintracciando articoli e storie che valesse la pena rilanciare.
E così il mio percorso ha preso due binari, paralleli, almeno spero: sul fronte interno, quello del monastero wi-fi, il lavoro personale, quello sul cuore, che si fa a forza di preghiera, in ginocchio, attingendo al patrimonio di duemila anni di Chiesa. Quindi ogni tanto continuavo a raccontare della mia famiglia (sempre meno nei dettagli perché i figli adesso controllano se racconto i fatti loro: ma ho dei dossier molto compromettenti, tipo gare di rutti e foto in pigiama) e soprattutto della vita spirituale.
Sul fronte esterno invece era cominciata la battaglia, sulle leggi e comunque nel dibattito pubblico, per tenere alta la voce dei cristiani, chiamati tutti a continuare ad annunciare al mondo la verità sull’uomo e sulla donna. Peccatori, sbagliati, imperfetti, fragili, consapevoli di non essere migliori di nessuno, ma nondimeno certi di dover tramandare un patrimonio che non è nostro, non ci appartiene, e non possiamo permetterci di disperdere o di tradire, né di addomesticare per elemosinare un buffetto di approvazione dal mondo; chiamati a non trasformare la Chiesa, Sposa di Cristo, in cortigiana della storia.
Insomma, questo blog, lo sapete, è diventato molte altre cose, oltre ad aver contribuito a intrecciare reti di amicizie (e un matrimonio, non dimentichiamolo!). Così quando l’estate scorsa mio marito mi ha suggerito di farne una raccolta da pubblicare, anche se avrei preferito un calcio sulle gengive alla prospettiva di rimettermi al lavoro, ho cominciato a rileggere tutto, scegliere i pezzi migliori, e poi asciugare, sistemare, scrivere delle introduzioni. E’ nato Il Signore ama vincere con un piccolo esercito, la raccolta di sette anni di blog; ma poi, siccome mi sembrava un titolo presuntuoso, mi sono sentita in dovere di trasformarlo in sottotitolo, facendolo precedere di Diario di un soldato semplice, perché fosse subito chiaro che di questo esercito non sono certo io il generale.
Dico la verità, non è un libro nel quale ho messo il sangue e la carne, come Si salvi chi vuole, nel quale ho cercato di mettere tutto quello che ho capito della vita spirituale, e che amo visceralmente. Quello infatti si occupa della parte spirituale del combattimento, sul fronte del cuore, che è quello a cui mi sento più chiamata, senza dubbio. Le battaglie di cui risuona l’eco nel blog, invece, oltre a essere quelle sulla trincea dello spirito, sono anche quelle che riguardano la presenza pubblica dei cristiani, che, come sa chi mi conosce, faccio molto più a fatica. Diciamo che mi costringo a farle perché penso che non si possa rimanere seduti, ma che ci si debba alzare in piedi, anche quando si starebbe volentieri in ginocchio. Penso che nel prendere in mano seriamente la nostra vita debba esserci anche questa parte del lavoro, essere in piedi, anzi, come dissi al Circo Massimo (grazie, don Antonello!), alzarci in piedi da risorti, anche dovessimo rimanere da soli, a continuare a dire la Verità, che è Cristo, al mondo, non perché lo odiamo ma proprio perché lo amiamo.
Ps La citazione delle sentinelle è per omaggiare la più tenace, coraggiosa, generosa, leale delle Sentinelle che conosco, la mia adorata amica/sorella Raffaella Frullone, che ha scritto la prefazione a questo libro.
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