Qualche giorno fa ho partecipato a Bari ad un incontro pubblico organizzato da alcuni amici in vista delle elezioni del 4 marzo prossimo.
L’incontro è nato dall’esigenza di lavorare sul contenuto di un volantino intitolato “La politica, dimensione essenziale della convivenza civile”, che riprende il discorso tenuto da Papa Francesco a Cesena nell’ottobre scorso. Il punto fondamentale di tale discorso è l’invito a non rimanere ad “osservare dal balcone”, ma a coinvolgersi con la cosa pubblica. Si legge infatti: “è essenziale lavorare tutti insieme per il bene comune”. E proprio il concetto di “bene comune” viene ripreso varie volte, fino ad affermare che: “Questa armonizzazione dei desideri propri con quelli della comunità fa il bene comune”.
È, quella del Papa, una sollecitazione molto importante. Occorre però tutta la nostra responsabilità e maturità di cristiani per calarla non solo nell’attuale situazione nazionale, visto che prossimamente vi sarà un importante evento come le votazioni, ma, in generale, nel più ampio panorama che vede potenti forze di natura culturale, politica ed economica che, in un modo o nell’altro, incidono subdolamente o apertamente nella vita di tutti i giorni.
Oggi, specialmente in questo frangente di promesse e slogan elettorali, tutti ci parlano di “bene comune”. Ma ci basta? Ci soddisfa semplicemente dire che occorre impegnarci per il bene comune? Senza altra declinazione?
Credo proprio di no.
Viviamo, infatti, in tempi drammatici, che ci impediscono di accontentarci di un qualche criterio di natura generale, come è appunto quello del bene comune, anche se importante. Le sfide scatenate alla dignità della persona umana, alla struttura antropologia della famiglia, alla sacralità della vita, per essere affrontate, richiedono un sovrappiù di coscienza. È per questo che non può essere un criterio generale, per quanto necessario come il bene comune, che ci muove, ma sono le ragioni che sottostanno al bene comune che ci spronano, che possono darci quella energia vitale. Senza di esse, la persona rimane senza vigore, e lo stesso bene comune risulta oscuro, rimane un concetto come tanti altri.
Date le sfide cui abbiamo accennato, non è detto che una semplice “armonizzazione” dei desideri propri con quelli degli altri possa portare automaticamente al bene comune. Anzi, in alcune circostanze, quando venissero proposte ed approvate leggi lesive della dignità della persona o della famiglia, pur se presentate come espressione del rispetto della libertà altrui, e dunque del “bene comune”, occorre esprimere verso di esse un nostro rifiuto, a volte anche molto netto. E in particolari circostanze, occorre addirittura fare resistenza ed obiezione di coscienza poiché: «Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini» (Atti, 5,29).
E ciò perché il bene comune non è necessariamente il frutto di un compromesso o di un accordo, non è neanche la media dei beni comuni individuali.
Il bene comune trae la sua ragion d’essere dalla verità, esso è il riflesso di quella verità che è inscritta da Dio nel cuore dell’uomo, ed è visibile nella legge naturale, ad esempio nella famiglia naturale formata da un uomo ed una donna, aperta alla generazione della prole. Per questo, ogni violazione della legge naturale, perpetrata anche mediante il diritto, non potrà che avere un effetto negativo sull’uomo e sulla società nella sua interezza.
Diceva a questo proposito don Giussani: “La genesi di un popolo è una compagnia alla ricerca del suo destino. E, infatti, un popolo è tenuto insieme sempre da una visione di bene, di un bene comune. Non un bene comune qualsiasi, ché altrimenti la collettività e la solidarietà sarebbero provvisorie proprio in sé e non costituirebbero, non darebbero personalità a quel popolo.” (…) “Ciò che dà personalità a un popolo è un ideale, un bene comune come ideale, che sta al di là, al di là di tutto l’elenco di interessi e di bisogni da soddisfare.” (“Certi di alcune grandi cose 1979-1981, BUR, 2007, pag.432-433).
Per questo, non saranno mai i meccanismi, anche se democratici, come ad esempio la maggioranza, a rendere giusta la nostra società, ma gli uomini giusti. Perché il rischio, nel caso contrario, è che lo Stato, anziché essere al servizio della persona e delle comunità, a cominciare dalla famiglia, imponga dall’alto un suo pseudo “bene comune”.
E a proposito di “uomini giusti”, bello il momento in cui uno dei due relatori, il senatore, ha detto che una delle cose che lo ha sempre guidato nell’attività politica è stato un passo della Bibbia, quello in cui Dio in sogno dice a Salomone di chiedergli un dono. Ci si sarebbe aspettati una richiesta di maggiore potere, maggiori ricchezze, la vita dei suoi nemici. E invece Salomone chiede il dono di essere giusto nel governo del suo popolo, di ricevere il dono di saper “distinguere il bene dal male” (1Re 3,5.7-12).
Ecco, un bene comune che non attingesse o non facesse riferimento al saper “distinguere il bene dal male”, come chiedeva Salomone, sarebbe un bene comune vuoto, buono solo per essere “venduto” a poco prezzo durante le campagne elettorali. Un vero e proprio inganno. Un criterio buono per incamminarci verso non si sa che cosa.
Invece, bellissimo ed istruttivo il verso della canzone di Claudio Chieffo: “cammina l’uomo quando sa bene dove andare”.
In conclusione, la concezione della vita che è alla base di questo folle attacco alla dignità della persona e della famiglia, un attacco che si configura come un vero e proprio “tsunami antropologico”, costituisce la “cartina di tornasole” per giudicare i politici ed i loro programmi, per giudicare le proposte di legge e le riforme costituzionali, le politiche di gestione delle migrazioni e la sanità, e così via.
Il prossimo 4 marzo, nonostante la volgare legge elettorale che impedisce di esprimere una preferenza, credo dovremmo fare qualche seria riflessione prima di mettere la crocetta sulla scheda.
Sabino Paciolla
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