Editoriale SOL: Italia 61
Quando da piccolo passavo per la zona sud di Torino, mi colpivano sempre alcune grandi strutture. Un binario di metropolitana che correva a diversi metri d’altezza e che si interrompeva bruscamente nel vuoto, la struttura di cemento già mangiata dall’umidità. Un palazzo a forma di fetta di formaggio fuso, dai vetri sporchi e circondato dagli sterpi. Un laghetto artificiale su cui correva il binario di cui sopra ridotto a palude. Chiedevo: cosa sono quelle cose? E mi si rispondeva: è Italia ’61!
Erano i resti titanici delle celebrazioni per i cento anni dell’Italia unita. Erano bastati una manciata d’anni per renderli relitti abbandonati, dispendiosi e difficilmente recuperabili.
A me, bambino cresciuto nella più roboante retorica risorgimentale, era una cosa difficilmente comprensibile. Avevo letto Cuore una decina di volte. Mazzini e Garibaldi erano i santi che ci avevano dato la nostra patria. Tutto era stato bello, eroico: la guerra contro il bieco austriaco, la gioiosa insurrezione popolare, i patrioti, i Mille…
Sono passati anni da allora, e sono cresciuto, Mi è stato insegnato a farmi domande, a tenere gli occhi spalancati, a vedere. E ho visto che il Risorgimento è una menzogna gigantesca che ci è stata data da bere per anni e anni, e in cui c’è ben poco di giusto. Un’esposizione finita la quale gli acclamati traguardi si rivelano essere costosissimi ed ingestibili catafalchi.
Ma l’Italia, quest’Italia, da chi è fatta? Chi sono gli italiani? Cosa li unisce?
La lingua, dirà qualcuno. Ma centocinquant’anni fa questa lingua non è che fosse così chiara. La stragrande maggioranza degli italiani parlava solo dialetto. Re compreso. E alcuni di questi dialetti sono lontani dall’italiano come e più di altri linguaggi, sono lingue vere e proprie.
E neanche era vero che l’Italia gemesse sotto tallone straniero. A parte il lombardo-veneto, i sovrani delle altre terre erano tutti italianissimi, anche più dei Savoia. Se vogliamo dirla tutta anche il tallone degli Asburgo non è che fosse così oppressivo. Come, ad esempio in Veneto, hanno dovuto poi constatare le popolazioni.
Non discutiamo poi su alcuni luoghi come Nizza – che, non dimentichiamolo, ha dato i natali a Garibaldi – Val d’Aosta, Trentino, Istria la cui italianità è in bilico.
Italiano è solo quello al di sotto delle Alpi, più in su del Mediterrraneo? O esiste un qualcosa di più profondo, che non si può confondere con altro?
Perché qualcosa esiste, è chiaro. Ce l’abbiamo chiaro adesso come ce l’avevano chiaro nell’ottocento. A cui è stato appicicato qualcosa, ovvero che questo sentimento nazionale debba per forza esprimersi in uno stato-nazione univoco. La confusione tra stato e nazione, il dominio della politica (e del potere) sulla tradizione, sulla storia, sulla cultura è uno dei prodotti della Rivoluzione Francese. Gli abitanti di Modena e Palermo si riconoscevano italiani anche senza un unico governo, dovunque esso stesso risiedesse.
E’ facile far vedere, storiografia alla mano, che l’idea di stato unico sia stata propagandata e imposta come solo possibile risultato storico da chi aveva tutto l’interesse a farlo – i Savoia, con l’aiuto di alcune nazioni europee a dire la verità più interessate a far fuori il Papa che ad un’Italia unita. L’Italia “una d’arme di lingua d’altare / di memorie di sangue e di cor” che il Manzoni cantava non andava necessariamente costruita andando, come fu, con l’arme contro gli altri suoi componenti. Quello fu il risultato di quella tendenza umana a cercare il potere prima di ogni altra cosa.
La dimostrazione spicciola di ciò è nella famosa frase del D’Azeglio “pur troppo s’è fatta l’Italia, ma non si fanno gl’Italiani”. L’unità politica fu imposta a prezzo di una divisione molto più profonda, che ancora oggi si trascina.
Forse l’Italia andava fatta. Ma è stata riunita con l’inganno e il tradimento, con la sopraffazione e l’omicidio, con il massacro e la consapevole negazione di ogni norma del diritto dei popoli e delle nazioni. Questo è il lascito di quello che ci si ostina a chiamare Risorgimento, che pure ha annoverato tra i suoi anche alte figure ideali.
Qualcuno potrà anche dire che è andata bene così. Io non sono d’accordo. Tutto quel male l’abbiamo pagato caro, e continuiamo a pagarlo.
Almeno non si continui a raccontarci storie. Non pigliateci per scemi. E’ ora di smetterla. Perché il male di oggi è il male di allora, e non possiamo uscire dal male di oggi se non chiamandolo con il suo nome.
Nel mondo attuale si tende di più alla divisione che all’unione. Le nazioni di un tempo si spezzano, gli indipendentismi prosperano. Forse varrebbe la pena ragionare su cosa possa tenere uniti ancora gli italiani, al di là di una retorica vuota; cosa convenga – e non solo in una prospettiva di egoismo spicciolo. Stesso problema che ci ripropone l’idea europea, su altra scala. Cosa ci costa stare in un’Europa che cerca di imporre un pensiero unico, ad esempio, quando questo pensiero non sia il nostro. L’Italia coincide con lo Stato, coincide con chi questo stato governa?
E quindi ritorniamo alla domanda iniziale: cosa sia questo nostro pensiero, cosa sia l’essere italiani. Cosa abbia a che fare con un inno e una bandiera, con una identità politica piuttosto che con una tradizione, un’identità che sebbene a volte negata ci porta ad essere quello che siamo. Cosa unisca gli uomini e cosa li separi. Ancora una volta questione di persone, di libertà, di verità.
Berlicche socio di SamizdatOnLine