Europa: un evento spirituale. La Lectio del prof. Grygiel alla Giornata della Dottrina sociale della Chiesa

Pubblichiamo il testo integrale della Lectio tenuta dal Prof. Stanislaw Grygiel in occasione della seconda Giornata della Dottrina sociale della Chiesa sul tema: “Europa: riscopri la tua identità”, tenutasi a Milano il 6 aprile scorso e organizzata da La Nuova Bussola Quotidiana e dal nostro Osservatorio. Nella stessa mattinata era intervenuto con una sua Comunicazione anche l’Arcivescovo Giampaolo Crepaldi (vedi qui)

 Europa, evento spirituale di amore e cultura

È necessario insistere nel ricordare a quelli che cercano di costruire una nuova identità dell’Europa che essa è molto di più di una penisola geograficamente definita oppure un prodotto di economisti e di politici che operano sulla base di trattati e di procedure. L’Europa è un evento spirituale. Fu concepita nella coraggiosa domanda greca sul bene e sul bello della verità e della giustizia e nell’ancor più coraggioso affidamento degli ebrei a Dio, chiamato dai profeti a scendere sulla terra. Da quando invece il fatto che Egli era venuto ad abitare in mezzo gli uomini divise la storia in due epoche, una delle quali fu chiamata da san Giovanni Evangelista epoca delle tenebre e l’altra epoca della luce, l’Europa avviene nelle persone orientate alla sorgente di questa luce, cioè all’Amore per il quale, nel quale e con il quale Dio crea l’universo e la storia che è l’uomo.

L’Amore, che è risposta alla domanda sul senso della vita umana nell’universo, ci ad-viene nel dialogo della memoria con il Passato, cioè nella Tradizione, e nel dialogo con il Futuro, cioè nella speranza. Nel dialogo con l’Amore che è il Principio e la Fine “dell’universo e della storia” (cfr. Redemptor hominis, 1) nasce la visione profetica degli eventi spirituali quali la persona, il matrimonio, la famiglia, la nazione ed anche la Chiesa. La mancanza di tale visione provoca la loro dissoluzione e la morte spirituale (cfr. Pr 29, 18). L’identità degli eventi spirituali non risulta infatti dalle operazioni della ragione (ratio) illuminata dai numeri che vi sono presenti (Cartesio) [1], ma avviene nel dialogo della Trascendenza che seduce e porta l’uomo nel paese dell’Alterità, come Zeus travestito da toro bianco rapisce Europa, la figlia del re di Tiro e Sidone. L’Europa avviene nel nostro ammirare l’Alterità Divina e nella speranza che questa Alterità si stia avvicinando, da Essa ridestata in noi.

Sedotto dalla Trascendenza che gli si rivela in un altro uomo, l’uomo affonda le radici nella Sua Divinità. AdorandoLa, egli entra nel lavoro degli altri uomini nel campo dell’umanità che in tutti si estende. Lo coltiva assieme agli altri come si coltiva la terra, perché come questa terra anch’esso porti un raccolto abbondante. La promessa del raccolto stringe alleanza con la speranza, che dà all’agricoltore la forza interiore, ma che lo trascende ed è indispensabile per la difesa della terra da lui coltivata. È in questo modo che l’uomo crea la cultura. Non bisogna dimenticare che la parola “cultura” ha una provenienza agricola (colo, colere, cultum, significa coltivare la terra). I confini dell’Europa passano allora attraverso la volontà e il cuore degli uomini che sono pronti a dare la vita per ciò a cui lavorano e che attendono come gli agricoltori che coltivano la terra loro affidata, che non si lascia né valutare, né negoziare. La cultura fondata sulla speranza, sulla fede e sull’amore svela la dignità che è stata loro donata e alla cui altezza devono laboriosamente elevarsi, se non vogliono perderla. La libertà di questi tre doni li rende dignità, che passa soltanto per questa terra, senza identificarsi con cosa alcuna su di essa.

Sulla terra staccata dal cielo, il luogo dovuto alla cultura, cioè al coltivare l’umanità, è occupato da ciò che io chiamo produttura. La produttura non conosce il dono con cui l’Amore chiama in modo obbligante l’uomo all’amore laborioso e responsabile. Gli uomini alienati dalla produttura dimenticano di essere chiamati alla libertà che si realizza in un continuo rispondere con l’amore all’amore. Nella produttura ogni uomo ed anche ogni cosa possono funzionare come se fossero ciascuno per proprio conto un assoluto solitario. Gli assoluti di questo genere gettano gli uomini in pasto ai “vitelli d’oro” che si puntellano sulle ideologie totalitarie. Il cinismo paralizzante dei servi dei “vitelli d’oro” si manifestò nelle parole rivolte nel 2017 a Roma dall’allora presidente francese François Hollande al Primo Ministro della Polonia Beata Szydło: “Voi avete i princìpi ma noi abbiamo i soldi!”. In altri termini, “Voi vi curate della cultura, ma siamo noi ad avere in mano la produttura. Non poniamo domande sulla verità, perciò possiamo fare ciò che ci piace!”.

Nel bimestrale “The American Interest è apparso un saggio molto interessante sotto il titolo: Two Princes. Il suo Autore non solo ci introduce nei meandri della politica moderna, ma ci mostra anche la via che conduce fuori del loro labirinto [2]. Analizza due modi di fondare lo Stato e di mantenerlo in vita. Il primo di questi è la politica del Principe di Nicolò Machiavelli, l’altro, diametralmente opposto, è, se così posso dire, la politica del Piccolo Principe di Antoine de Saint-Exupéry. Il Piccolo Principe è preoccupato per la Rosa che è più vicina al suo cuore e che dimora su un lontano pianeta. Grazie all’amore che ad essa lo unisce risponde alla domanda della volpe: “Addomesticami!”[3]. Come direbbe Socrate, la qualità della sua “vita privata” decide della qualità della vita sociale, poiché la vita sociale nasce nella persona appartenente alla Rosa che dimora su quel lontano pianeta.

Il Principe di Macchiavelli crea invece lo Stato piuttosto che la società. Lo crea quindi sulla base non dei legami dell’amore e della coscienza morale, ma sulla ragione calcolante che tratta tutte le rose come se non fossero altro che oggetti da usare e da buttare. Il Principe ha paura, e l’ha a ragione, che le epifanie della verità dell’uomo, come le amicizie, i matrimoni, le famiglie, possano limitare il suo potere. Il Principe ha paura della soggettività dei cittadini. Ha paura di Dio che con la voce della coscienza morale chiama l’uomo a non uscire dalla via d’amore che lo conduce alla verità cercata e allo stesso tempo attesa.

La presenza della Rosa dà alla vita del Piccolo Principe senso e valore. Lo rende libero responsabilmente. Nei legami del suo amore responsabile nascono la nazione e la società idonee alla lotta contro la morale disonesta del Principe di Macchiavelli. La casa del Piccolo Principe (oikos), dove la legge (nómos) nasce dall’amore per la terra (nomós) coltivata per il bene comune che è la sua Rosa, è costituita di ciò che è chiamato oiko-nomia. In essa il Datore della terra (nomós) e delle leggi (nómos) legate con la terra mantiene e salva la vita sia spirituale che biologica dell’uomo. In questa economia non c’è posto per i pretendenti di Penelope, che rendono la casa di Odisseo una taverna del piacere e gridano a Telemaco, che sta per partire alla ricerca del padre: “Scemo! Andiamo a mangiare e bere!” [4]. Il Datore della terra e delle sue leggi si oppone a quelli che, non legati dall’amore per la Rosa, erigono la loro praxis alla dignità di “centro dell’universo e della storia” (Redemptor hominis, 1) e con ciò esiliano persino se stessi dalla terra natia condannandosi alla vita nella miseria propria dei senzatetto, privi della terra e delle sue leggi.

Il Principe non ama le comunità delle persone, poiché non riesce a dominarle, e non riesce a farlo perché non è possibile confutare la verità che si rivela nella reciproca presenza delle persone l’una all’altra e nella loro unione a Dio. Ricordo che alla domanda: Quid sit veritas?, che cosa è la verità?, l’antico anagramma risponde: (Veritas) est vir qui adest, verità è la persona presente a un’altra persona. Questa sempre contemporanea verità, che si rivela nella persona presente a un’altra persona, costituisce per loro un reciproco compito, munus. Vivendo con questo compito, cum munere, esse creano una comunione delle persone, com-munio personarum, nella quale trovano la difesa contro l’ingiustizia. L’ingiustizia accade là dove l’uomo non risponde alla chiamata degli altri: “Addomesticaci!”, né gli altri rispondono alla stessa chiamata che lui a loro rivolge. La persona rende giustizia a un’altra persona rispondendo con l’amore all’amore. La solitudine, effetto della mancanza di fede nell’altro uomo e di amore per lui, costituisce lo spazio dell’ingiustizia il cui fantasma si delinea nella domanda che Cristo pone al termine della parabola sul giudice ingiusto: “Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?” (Lc 18, 8).

L’Europa non diventerà tale domanda sulla verità se non rinascerà come una comunità delle persone, delle amicizie, dei matrimoni, delle famiglie e delle nazioni. Resterà un artificiale insieme di classi-Stato dei vari lacchè che si combatteranno per avere il sopravvento gli uni sugli altri. I valletti alienati non entrano nel lavoro degli altri. Non vivono nel dialogo con il Passato e con il Futuro presenti nella Rosa che dimora su un altro pianeta. Di conseguenza, essi non sono soggetti, si può fare di loro tutto ciò che si vuole. Per poter funzionare i valletti non hanno bisogno che di decreti formali e di procedure che dipendono dai valletti di loro più forti. Tutti questi più o meno potenti staffieri possono essere incatenati a qualsiasi cosa, poiché loro stessi non si sono incatenati al verum, al bonum e al pulchrum, cioè alla verità, al bene e al bello. Hölderlin metteva in guardia contro il qualunquismo delle leggi e delle procedure statuite dalla gente di questo genere:

Le leggi sono buone, tuttavia,
come i denti dei draghi tagliano
e ammazzano la vita
quando le irrigidisce l’infuriato
Villano oppure il re
”. [5]

I prìncipi che ingannarono Giovanni Paolo II sull’Europa

Il Principe che detta all’Europa come debba vivere distrugge le radici con le quali essa attecchisce nel cielo della Trascendenza della verità, del bene e del bello. Egli sottomette gli Europei a effimere leggi e procedure cosi da farli dire insieme con il Kirilow dei “Demoni” di Dostoevskij, che “se credono, non credono di credere, e se non credono, non credono di non credere”[6]. In Europa egli spegne la luce della domanda greca (episteme) che chiede alla verità di non nascondersi (a-letheia) dietro le nuvole delle opinioni (doxa). Sono proprio queste nuvole a servire al suo potere “principesco”, mentre la domanda sulla verità e sul bene, che in certo modo già conosce, gli ricorda che il potere non appartiene a lui ma a Colui nel quale zampillano le sorgenti della verità e del bene. Il Principe che cerca di dominare l’Europa non è consapevole del fatto che essa avviene nella venerazione socratica del “Dio ignoto” il cui altare si trova in Atene (cfr. Ap 17, 23) e nella profezia giudaica che aveva annunciato la venuta del Messia sulla terra per vivificarla in modo salvifico con la rugiada mattutina (cfr. Is 45, 8) della libertà di Dio[7].

Il Principe combatte l’Europa che nasce negli uomini che dimorano nel dialogo con il Divino Logos-Persona rimasto in mezzo a loro. Papa Francesco pensava forse a questo, quando ha detto che l’Europa “non è una raccolta di numeri o di istituzioni, ma è fatta di persone”[8]. Chiudendo l’Europa nei numeri e nelle istituzioni, il Principe le sbarra la via del dialogo con la Parola, alla quale si rivolge da un lato la fondamentale domanda greca sulla verità e da un altro lato la profezia di Gerusalemme che annuncia la Sua venuta.

I Greci identificavano la verità con la giustizia, in cui vedevano “la figlia di Zeus”[9]. Alla “figlia di Dio”, diceva Platone, solo l’amico della saggezza (filo-sofos) può avvicinarsi, poiché soltanto lui scorge la verità alla luce del Bene che come il sole sorge nei suoi atti d’amore che rendono giustizia alla verità delle cose. Socrate diceva che “vive peggio /…/ chi ha malvagità nell’anima, e non se ne libera”[10]. Cristo completa: “Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi” (Gv 8, 31-32).

Secondo Platone l’uomo e lo Stato seguono le due specie di giustizia e, quindi, anche le due di verità. Una di queste consiste “nella misura, nel peso e nel numero”. La giustizia così determinata la chiamiamo giustizia matematica. Il legislatore e lo Stato regolano questa giustizia “con il sorteggio”, assegnando a tutti parti uguali del pane comune. L’altra giustizia, da Platone ritenuta vera giustizia e alla quale perciò lo Stato non può rinunciare, consiste nel “giudizio di Zeus”. “Agli uomini viene sempre raramente in soccorso, ma per quanto venga in aiuto a Stati e a privati cittadini realizza ogni sorta di beni: al maggiore distribuisce di più, al minore di meno, assegnando all’uno e all’altro quanto è conveniente secondo loro natura”. Lo Stato deve quindi badare a “chi possiede maggiore virtù”[11]. Prendendo umanamente le cose, l’osservanza delle due giustizie è impossibile. Occorre cercare di realizzarle “invocando allora, nelle nostre preghiere, il Dio e la buona fortuna perché dirigano la sorte nella direzione di ciò che è più giusto” [12].

I Greci credevano che l’ingiustizia fosse “figlia della tracotanza” (hybris) [13]. La tracotanza consegue alla convinzione che la ragione umana, dominando i numeri, può dominare tutto [14]. L’uomo gonfio della tracotanza provocata dal suo dominare i numeri, l’uomo che non riconosce le leggi che nascono nell’esperienza dei doveri [15], cioè nell’esperienza della presenza delle altre persone, s’arroga il diritto di decidere la vita e la morte. Ma “è pieno di paura, convulsioni e dolori per tutta la vita”. Non vivendo in timore Dei, ha paura dei più forti di lui, così da non dire la verità persino quando la dice. Non affidato alla giustizia del “giudizio di Dio”, è “povero agli occhi di chi sa contemplare la sua intera anima” [16].

Man mano che in essa viene a mancare il Grande Contenuto, cioè lo spirito d’amore che nella madre unisce la paternità e la figliolanza in una sola cosa, l’Europa degenera in una bastardia spirituale. Di conseguenza quest’Europa si consegna nelle mani dei politici che non si lasciano guidare se non dalla giustizia matematica in vari modi calcolata. I giocatori politici, “partecipando in piccola parte della verità”[17], allontanano gli uomini “dal loro bene e dalla verità” [18] e in tal modo provocano il caos, sommosse e guerre. Ad uno di questi, Callicle, il politico del nihilismo nel “Gorgia” di Platone, Socrate rivolge le parole che se fossero oggi ascoltate in Europa potrebbero restaurare la sua legittimità perduta: “Credo, o carissimo, che sarebbe meglio che la mia lira fosse scordata e stonata, e che lo fosse il coro che io dirigessi, e che la maggior parte della gente non fosse d’accordo con me e mi contraddicesse, piuttosto che sia io, anche se sono uno solo, ad essere in disaccordo con me stesso e a contraddirmi”[19]. Se in Europa fossero al governo dei politici socratici, in essa governerebbe la giustizia della verità che “non si confuta mai”[20].

Tutte le leggi devono condurre alla verità che si rivela nelle persone presenti l’una all’altra. Tutte queste leggi devono difendere le dimore delle persone così da far loro sentire che la loro identità non è affatto minacciata dall’esterno. La via da seguire nel concepire e nel fare queste leggi deve essere tracciata dall’“Introduzione”, prooimon, di Platone. L’“Introduzione”, oggi chiamata Preambolo, dovrebbe introdurre i cittadini nel lavoro delle generazioni passate e con esse concreare le leggi che obbligherebbero al lavoro per il bene comune, cioè per il Futuro. Dovrebbe allora indicare la via che conduce i cittadini alla casa familiare. Platone la intravede nel rispetto dovuto a Dio, ai genitori (tradizione), all’inestimabile anima dell’uomo e alla bellezza del suo corpo. In altri termini, l’“Introduzione” deve parlare della giustizia dovuta alla verità delle persone reciprocamente presenti a sé, che vivono cioè se stesse come un loro reciproco compito (munus).

In caso contrario questa “Introduzione” condurrà gli uomini in sentieri impervi dove ciascuno crea per sé il proprio bene e la propria verità. Gli uomini nei cui nomi e cognomi non c’è la tradizione della famiglia né la speranza che aiuta a permanere nella certezza del senso della vita, provocano una cacofonia in se stessi e nella società. La verità fugge dalla cacofonia, la verità dimora soltanto nella sinfonia che suona nelle persone e tra le persone. Dalle mie parti, alla domanda: “Come ti chiami?”, il bambino risponde indicando la sua casa familiare, come se volesse dire: “Essa è il mio cognome”. Non sono i bambini ad avere “un disaccordo” in sé e a contraddire se stessi, perché loro dimorano nella casa familiare dell’amore, ma sono invece gli adulti che dalla casa familiare si sono allontanati.

L’“Introduzione” alle leggi fondamentali (Costituzione) deve salvaguardare la società perché non perda di vista il punto di riferimento per le proprie azioni e per le leggi che devono servirle[21]. Deve aiutare i cittadini ad entrare nel dialogo laborioso con gli antenati, cioè nella tradizione, e nel dialogo altrettanto laborioso con ciò che ad-viene, cioè nella speranza. Nel Preambolo non si deve dunque parlare delle cose di poca importanza. Esso deve disegnare un orizzonte ideale, dove il cielo s’unisce alla terra, rendendola terra familiare che permette di comprendere l’uomo.

Invano Giovanni Paolo II chiese agli autori della cosiddetta Costituzione Europea del 2003 di anteporle un tale Preambolo. L’avevano ingannato facendogli discorsi basati sulle vuote parole “uguaglianza, libertà e fratellanza”, vuote perché staccate dalla realtà dalla deificata ragione dell’Illuminismo francese. Delle parole vuote la ragione calcolante fa entità economico-politiche puramente matematiche e banalmente prosaiche, nelle quali la vita spirituale si spegne.

I politici che amministrano numeri e cose di poca importanza, non stabiliti sulla domanda fondamentale sul bene comune che sempre si trova davanti a noi, non si danno cura che le leggi da loro statuite riflettano “le divine necessità” stabilite dalla natura che “neppure Dio risulta combattere” [22]. Gli amministratori dei numeri e delle cose di poca importanza si preoccupano del progresso e non del suo contenuto e del suo orientamento. Di conseguenza, invece di creare gli Stati come opere d’arte[23], producono gli Stati-kitsch, in cui i cittadini non possono dimorare poiché in tali realtà le persone non si rivelano.

“È difficile legiferare nell’ambito di questa materia che è stata precedentemente ordinata in tal modo”[24]. Per farlo bisogna avere la visione dello Stato basato sulle fondamenta che trascendono la storia. I politici privi di tale visione creano i Preamboli delle parole corrotte dal saeculum, cioè delle parole il cui contenuto dipende dal tempo che passa, delle parole non fondate nel Logos dell’atto della creazione. L’antropologia corrotta dei politici privi della visione della verità dell’uomo deforma la loro esperienza morale, così da lasciare i cittadini in preda ai “demoni” che li fanno vagare “nella nebbia”[25].

In un mondo di gente frastornata dai “demoni”, “le città non avranno tregua dai mali /…/ e neppure, /…/ il genere umano”. In un mondo così fatto nessuna “città può essere felice, nella vita privata come in quella pubblica”[26]. Gli uomini che non fissano lo sguardo sulla verità che non è possibile non solo separare da Dio ma persino da Lui distinguerla, così che per l’uomo non esista un bene di essa più grande, si mostreranno vili di fronte sia alla morte che alla perdita delle cose che tengono tra le mani. Della loro vigliaccheria contageranno lo Stato[27], così che anch’esso “non sarà mai causa né di grandi beni né di grandi mali”[28]. “Quali discorsi privati /…/ potranno opporsi con successo a costoro?” – Platone chiede e risponde: “Credo /…/ nessuno. No davvero /…/ anzi il solo tentativo sarebbe una grande follia. Non esiste, non è mai esistito e temo non esisterà mai un carattere diverso, che abbia ricevuto un’educazione alla virtù contraria a quella propugnata da costoro; intendo un carattere umano, amico, perché secondo il proverbio facciamo eccezione per uno divino. Occorre infatti essere ben consapevoli che in un simile regime politico, qualunque cosa si salvi e proceda per il verso giusto, si può ben dire che si salva per volontà di un Dio”[29].

Platone scrive con amarezza: “Deploro proprio il fatto che nessuna delle forme di governo attuali sia degna di una natura filosofica”[30], cioè dell’amico della saggezza. Negli Stati amministrati dagli “amanti del potere e delle opinioni”[31] e non della verità e della giustizia, gli uomini come asini, cavalli, buoi “abituati a procedere con grande libertà e fierezza, urtano per la strada chiunque incontrino, se non si scansa, e parimenti ogni altra cosa si riempie di libertà”[32]. In un regime così “democratico” (Platone), “i cittadini sono liberi, la città si riempie di libertà e di franchezza, e c’è la possibilità di fare ciò che si vuole. /…/ Ciascuno potrà organizzare la propria vita come gli pare”[33]. Si possono uccidere gli altri ed anche se stessi a condizione che si vinca quel dio che è il “dolore proprio della paura della morte”[34].

Gli amanti del potere, non conoscendo l’amore del Piccolo Principe per la Rosa e non riconoscendo il fatto che la verità che si rivela nella propria bellezza esige non tanto la giustizia matematica quanto la giustizia “secondo il giudizio di Zeus”, distruggono lo Stato con la loro ira contro questo “giudizio” divino. Con questa ira contro l’amore e contro la sua giustizia, distruggono quei fondamenti dello Stato che sono le amicizie, i matrimoni e le famiglie. “Il principio della nascita di ogni Stato non consiste forse nell’unione e nella relazione coniugale? /…/ Probabilmente, allora, se si stabiliscono per prime le leggi coniugali, risultano ben stabilite ed orientano lo Stato nella giusta direzione”[35]. Lo Stato che si mette al di là del matrimonio, della famiglia e della nazione vieta alla coscienza morale di andare contro la corrente della storia [36], costringe l’uomo a guardare la storia così come se essa fosse “centro” dalla sua vita e della sua coscienza morale. Lo Stato costruito su un falso “centro dell’universo e della storia” può servire a tutto tranne che alle amicizie, ai matrimoni e alle famiglie[37]. In altre parole, colui che non ritorna al Principio dell’Europa invece di edificarla la rovina. Ripeterò le ben note parole di Robert Schumann, che l’Europa sarà cristiana o non ci sarà più.

Il Principio-Persona che è “centro dell’universo e della storia” costituisce il fondamento dell’Europa e il suo bene comune. A ciò che accade in questo Principio l’Europa deve ritornare, come si ritorna alla casa familiare che dà l’identità ai suoi abitanti. Sono loro che, grazie al sapere chi essi siano, creano la cultura, mentre la produttura la fanno i mercenari, nelle cui menti, e talvolta anche sul loro corpo, il Principe marchia i numeri e costringe ciascuno a rispondere con essi alla domanda: “Chi sei?”.

Europa salva se uscirà dalla caverna delle opinioni

Il Principe il cui potere è limitato dalla libertà che si manifesta e si realizza nell’appartenenza delle persone l’una all’altra, impone alla società l’uguaglianza che cancella tutte le differenze tra gli uomini, ad eccezione di quelle determinate dai calcoli matematici. Prima di tutto egli nega le due differenze che non gli permettono di pensare l’uomo come egli vorrebbe e di formarlo secondo le proprie “principesche” opinioni. L’una di queste è la differenza ontologica che divide e allo stesso tempo unisce l’uomo con il Creatore, l’altra è la differenza sessuale che anche divide e allo stesso tempo unisce l’uomo con la donna in modo che l’uomo conosca chi egli sia guardando se stesso alla luce della donna – e così la donna alla luce dell’uomo. Il loro comune guardare al cielo ritrova la via che conduce all’ultima, Divina, risposta alla domanda di entrambi: “Chi sono?”.

La negazione di queste due differenze dà mano libera al Principe della modernità nell’imporre agli uomini le identità costruite dai numeri che si trovano nel suo cogito-volo. Il Principe non sa e non vuole sapere che l’uomo è simbolo dell’Uomo [38], cioè che l’uomo è simbolo dell’Alterità nella quale trova la casa familiare che lo definisce e con la quale egli si presenta agli altri. L’uomo porta l’Alterità davanti a sé, come sul palcoscenico l’antico attore portava sul volto una maschera (persona) che rappresentava il personaggio da lui interpretato. La conformità all’Alterità-Persona rende l’uomo dignità, cioè qualcuno che nel continuo conformarsi a questa Alterità ne riceve l’identità personale senza prezzo. Sono le nozze dell’uomo con l’Alterità Divina, che gli porta un nuovo cognome – l’inestimabile dignità.

La lingua latina indica la dignità con la parola dignitas, che proviene dal verbo digno(r), dignare(i), dignatum, riconoscere valore, rispettare. Nel medioevo la parola dignitas significava la persona, cosa che è rimasta fino ad oggi nel Prefatio latino della Messa, come anche la premessa dei ragionamenti. La Dignitas che è la Persona del Dio-uomo costituisce la Prima Premessa, grazie alla quale possiamo pensare sensatamente “l’universo e la storia”. Laddove invece si pensa appoggiandosi su altre premesse, si estende la indignitas, vale a dire l’impudenza ideologizzata e la licenza morale vilmente servile.

La mancanza della dignità fa sì che il Principe delle effimere opinioni non abbia più la forza interiore grazie alla quale sarebbe in grado di dire in pubblico ciò che disse Pericle nel rendere omaggio ai caduti nel primo anno della guerra del Peloponneso, che avevano tramandato ai figli i valori più grandi della vita stessa: “Senza alcuna costrizione nella vita privata, nei rapporti pubblici non trasgrediamo la legge, soprattutto per reverenza verso di essa: ubbidendo ai magistrati in carica e alle diverse leggi: specialmente a quante proteggono gli offesi e a quante, senza essere scritte, recano come universale sanzione il disonore. /…/ Amiamo il bello, ma senza sfarzo; né la cultura c’infiacchisce. La ricchezza è per noi stimolo di attività, non motivo di superbia loquace. E quanto alle ristrettezze della povertà, non il confessarle è umiliante presso di noi, ma piuttosto il non saperle superare lavorando. /…/ Riponete la felicità nella libertà, la libertà nel magnanimo coraggio, e non vi avviliscano i rischi della guerra”[39]. Con la sua impudente paura il Principe delle effimere opinioni contagia la società, sì che anche lei cessa di conquistare e di difendere la libertà contro i nemici fino a dare la vita per essa.

Il Principe del moderno nihilismo e della moderna paura trae origine da Callicle che, dopo aver separato le leggi della natura dalla natura dell’uomo[40], aveva rigettato i valori immutabili, non riconoscendo come bene comune che il benessere. Per tali politici, disse Socrate, i cittadini sono come pivieri ai quali devono essere date in cibo cose piacevoli. Tali politici si danno cura di ciò, che “se molto si versa, sia molto anche quello che se ne va, e che piuttosto grandi siano i fori per lo scolo”[41]. Il loro “populismo” che dà via libera alle voglie delle masse, fa “opposizione”[42] agli amici della saggezza che ritengono come loro primo compito “darsi da fare perché le anime dei cittadini diventino quanto è possibile migliori” e non invece perché aumentino i loro piaceri[43].

Gli amanti del potere che serve i loro interessi privati e le loro opinioni pensano che il governare lo Stato non sia necessità e compito, ma un elevarsi sulla massa. La loro sete di potere porta disgrazie e calamità per lo Stato[44]. Occorre allora, ammonisce Platone, che lo Stato sia governato da uomini giusti, amici della saggezza, e non invece “figli bastardi”. Sfortunatamente la stupidità, immemore della verità alla quale l’uomo appartiene, fa sì che gli uomini in quanto tali e in quanto cittadini “non si accorgono di avere a che fare in qualsiasi circostanza con persone zoppe e bastarde, nel primo caso amici, nel secondo governanti”[45].

L’uomo di Stato, cioè l’amante della saggezza, che non ha paura della morte, lotta con i cittadini, mirando “al meglio e non a ciò che è più piacevole”. Sono sue le parole di Socrate: “Credo di essere uno dei pochi Ateniesi, per non dire il solo, che tenti la vera arte politica, l’unico fra i contemporanei che la eserciti”[46].

L’uomo di Stato non si sottomette al totalitarismo della democrazia dei servili valletti che, conformemente alle procedure democratiche, possono fargli persino ciò che hanno fatto a Socrate. Egli riforma “le raccolte di numeri e di istituzioni”, ma si preoccupa molto di più della rinascita delle comunioni delle persone, come il matrimonio, la famiglia, la nazione e, last but not least, la Chiesa. L’uomo di Stato né si vergogna né ha paura di dire che l’Europa rinascerà “in Spirito e verità” (Gv 4, 23-24) oppure cesserà di essere Europa, cesserà di essere dimora della cultura nella quale si vedono e si leggono le Dieci Parole della Verità (Decalogo) incise nel cuore di ogni uomo e nella quale si sta in ascolto della voce che risuona nella venerazione ateniese del “Dio ignoto” (Ap 17, 23), nella profezia giudaica e anche nell’affidamento dell’uomo alla Persona che è “centro dell’universo e della storia”. Se cessa di essere dimora di cultura per le persone, l’Europa si trasformerà in un pascolo di civiltà tecnica per del bestiame.

L’uomo che ritorna al Principio “non è più semplicemente un civis, un cittadino dotato di privilegi da consumarsi nell’ozio; non è più un miles, combattivo servitore del potere di turno; soprattutto non è più un servus, merce di scambio priva di libertà, destinata unicamente al lavoro e alla fatica”[47]. È nell’uomo che diventa domanda fondamentale sulla verità e la cerca, che l’Europa s’integra e rinasce[48].

Parlo di qualcosa d’infinitamente più grande della cosiddetta Unione Europea. Questa non è che una fra le altre organizzazioni “di numeri e d’istituzioni” in Europa. L’Europa  è un evento spirituale.

Parlo dell’ideale dell’Europa, ideale che la trascende e in cui quelli che in essa dimorano devono crescere. Ricordo la risposta data da Platone all’accusa di parlare dello Stato ideale che “non si trova in nessuna parte al mondo”: “Ma forse se ne erge un modello su in cielo, per chi vuole vederlo e fondare se stesso su questa visione”[49].

“L’ideale /…/ non discenderà al popolo
Che non vuole o non può tendere le mani ad esso
/…/
Te lo dirò, in verità: i destini delle nazioni
E le vicende dell’umanità, e il mondo, e il cielo,
E il sole, e i cori delle stelle, e il nucleo del minerale,
E lo spirito!…
…Tutto – riceve la vita dall’Ideale”
[50]

Diventa Europeo colui che, guardando il cielo della verità bella e del bene bello, pone la domanda sulla Prima Premessa del pensare dell’“universo e della storia”, Premessa che dà forma alla sua vita. La dignità dell’Europeo, essendo in lui “immagine e somiglianza” della Prima Premessa, lo conduce fuori della caverna di Platone, dove gli schiavi delle opinioni non sono che frammenti numerati della organizzazione globale “di numeri e d’istituzioni”. Lo conduce verso la democrazia regale delle persone. Nessuna riforma salverà l’Europa. È l’Unione Europea che occorre riformare per renderla più europea. L’Europa – la comunione delle persone che la costituisce – verrà salvata dagli Europei che rinasceranno “in Spirito e in verità” (Gv 4, 23-24), cioè da quelli che desiderano essere perfetti come perfetto è il loro Padre celeste (cfr. Mt 5, 48) e come perfetta è la Santissima Trinità dell’Amore del Padre e del Figlio.

 

[1] Ruggero Bacone disse: Qui mathesim scit, potest omnia scire.
[2] Cfr. Jakub Grygiel, Two Princes, in: “The American Interest”, 6. X. 2014.
[3] Cfr. Antoine de Saint-Exupéry, Il Piccolo Principe, VII, VIII, XXI.
[4] Cfr. Omero, “Odissea”, II.
[5]   “Denn gut sind Satzungen aber Wie Drachenzähne, schneiden się Und tödten das Leben, wenn in Zorne sie schärft Ein Geringer oder ein König.”   (F. Hőlderlin, “Hymne an die Madonne. Projekt”, in: “Analecta Hölderliana,”, Band 3, hrsg. Anke Bennholdt, s. 180).
[6] F. Dostojewski, “Demoni”, Warszawa 1958, s. 609.
[7] Il profeta Isaia grida al cielo: Rorate coeli desuper et nubes pluant iustum.
[8] Francesco, Discorso ai partecipanti al Simposio “Ripensare l’Europa”, promosso dalla Commissione degli episcopati della Comunità Europea (COMECE), Roma 2017.
[9] Eschilo, “Coefore”, v. 970-972.
[10] Platone, “Gorgia”, 478 e.
[11] Platone, “Leggi”, 757 b, c.
[12] Platone, “Leggi”, 757 e.
[13] Platone, “Leggi”, 691 c.
[14] Cfr. la nota 1.
[15] Cfr. Arystoteles, „Polityka”, Warszawa 1964, s. 130 i n..
[16] Platone, “Repubblica”, 579, e.
[17] Platone, “Leggi”, 804, b.
[18] Platone, “Gorgia”, 472 b.
[19] Platone, “Gorgia”, 482 b-c.
[20] Platone, “Gorgia”, 473 b.
[21] Cfr. Platone, “Leggi”, 723, 724, 726, 727, 728.
[22] Cfr. Platone, “Leggi”, 818 b, d.
[23] Platone, “Leggi”, 817 b. d-e.
[24] Platone, “Leggi”, 818, e,
[25] Cfr. Aleksander Puszkin, „Biesy”, in: „Lutnia Puszkina””, Warszawa 1949, s. 93-94.
[26] Platone, “Repubblica”, 473 d-e.
[27] Cfr. Platone, “Repubblica”, 485 c, 486 a-b.
[28] Platone, “Repubblica”, 491 e.
[29] Platone, “Repubblica”, 492 d-e, 493 a.
[30] Platone, “Repubblica”, 497, b.
[31] Cfr. Platone, “Repubblica”, 475 e, 479 d-e, 480 a.
[32] Platone, “Repubblica”, 563, c-d.
[33] Platone, “Repubblica”, 557, b.
[34]Cfr. F. Dostojewski, „Biesy” („Demoni”), Warszawa 1958, s. 120.
[35] Platone, “Leggi”, 721, a.
[36] Cfr. Karol Wojtyła, “Pensando patria…”, in: “Tutte le opere letterarie”, Milano 2001, p. 235.
[37] Cfr. Aristotele, “Etica Nicomachea”, 1155 a.
[38] Cfr. Platone, “Simposio”, 191 d.
[39] Tucidide, “La guerra del Peloponneso”, libro II, 37, 40, 43.
[40] Cfr. Platone, “Gorgia”, 483 a-e, 484a-e, 492 a-d.
[41] Platone, “Gorgia”, 494 b.
[42] Platone, “Gorgia”, 513 c.
[43] Platone, “Gorgia”, 503 a.
[44] Cfr. Platone, “Repubblica”, 520, d, 521 b,
[45] Platone, “Repubblica”, 535, c, 536, a.
[46] Platone, “Gorgia”, 521 d. Cfr. anche Platone, “Apologia di Socrate”, 23 c, 30 a, 31 b.
[47] Papa Francesco, cfr. la nota 8.
[48] Cfr. Stanisław Grygiel, „Religia jako czynnik integracji społeczeństwa”, in: „W kręgu wiary i kultury”, Warszawa 1990, s. 71-93.
[49] Platone, “Repubblica”, 592 a-b.
[50] C. K. Norwid, “W pracowni Guyskiego”, in. „Pisma wszystkie”, II, Warszawa 1971, p.194.

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