Dalla bacheca di FB Luca Maria Blasi. Molto interessante.
Il libro del 2009 Dead Aid. Why Aid Is Not Working and How There Is a Better Way for Africa – pubblicato in Italia col titolo “La carità che uccide descrive come gli aiuti dell’Occidente stanno devastando il Terzo Mondo” – scritto da Dambisa Moyo, economista zambiana che ha studiato a Oxford e Harvard, e lavorato per Banca Mondiale e Goldman Sachs.
La Moyo sconfessa impietosamente la vulgata che per decenni ha alimentato il pauperismo buonista: i fiumi di soldi che dall’Occidente vengono destinati all’Africa si disperdono in mille rivoli e non giungono ai destinatari. Con effetti paradossali: più i sussidi aumentano, più si genera povertà.
L’autrice ha calcolato che dal 1970 al 2009 l’Africa abbia ricevuto più di trecento miliardi di dollari per promuovere lo sviluppo. Iniziative pubbliche e private, con mobilitazione anche di popstars – chi non ricorda il concerto Live Aid del 13 luglio 1985? – e continua stimolazione del senso di colpa dei Paesi occidentali benestanti per dare una mano alle disastrate economie dell’Africa subsahariana.
Ebbene, tutto questo poderoso sistema pluridecennale non ha funzionato. Perché?
Non si tratta solo della corruzione dei governi locali, che pure è il fenomeno preponderante (le enormi somme degli aiuti non solo incoraggiano la corruzione, ma la generano).
I sussidi sono distruttivi perché fanno cadere gli Stati destinatari in un circolo vizioso di assistenzialismo, creando una cultura della dipendenza della società civile dalla politica. Le imprese sono così scoraggiate.
Ma non basta: gli aiuti fomentano anche i conflitti. Chi prende il potere lo fa per accedere a un enorme flusso di denaro. Lo scopo fondamentale della ribellione è dunque la conquista dello Stato per trarne vantaggi finanziari. Gli aiuti diventano così la prima causa dei disordini sociali e probabilmente delle stesse guerre civili.
E poi c’è il fenomeno più ributtante: la carità pelosa, il colossale business per chi lavora nelle organizzazioni internazionali. Scrive implacabilmente la Moyo: “La Banca Mondiale dà lavoro a diecimila dipendenti, l’FMI a oltre duemilacinquecento; se ne aggiungano altri cinquemila di altre agenzie ONU, più i dipendenti delle almeno venticinquemila ONG registrate, istituzioni assistenziali private e la schiera di agenzie governative, presi assieme si tratta di cinquecentomila persone (…) Anche il sostentamento di questi lavoratori dipende dagli aiuti. Per la maggior parte delle organizzazioni per lo sviluppo il successo di un prestito si misura quasi interamente in base all’entità della cifra ottenuta dal donatore, e non in base alla quantità di denaro effettivamente investita per gli scopi cui era destinata: questo spiega perché si continua a concedere prestiti perfino ai paesi più corrotti (…) se il denaro non viene distribuito, aumenta la probabilità che i successivi programmi di aiuti vengano tagliati”.
Che fare, dunque?
La Moyo auspica un cambio radicale di strategia, proponendo di ridurre gradualmente gli aiuti, sino ad azzerarli, e di puntare sul mercato e sugli investimenti. E’ molto critica con l’ipocrisia dell’Occidente che ha eretto delle barriere protezioniste per tener fuori i prodotti agricoli africani. Invita dunque i Paesi africani ad eliminare i dazi anche tra di loro e a seguire l’esempio della Cina, che deve il suo miracolo economico agli investimenti esteri e alle esportazioni, non certo agli aiuti. L’Africa dovrebbe dunque imparare dall’Asia, non dall’Occidente.
La Cina, in particolare – che solo fino a trent’anni fa aveva un reddito pro-capite inferiore a quello del Malawi, del Burundi o del Burkina Faso – negli ultimi anni ha investito massicciamente in Africa, costruendo infrastrutture in cambio di materie prime come il petrolio, l’oro e il rame: strade in Etiopia, oleodotti in Sudan, ferrovie in Nigeria, centrali elettriche in Ghana.
Barattare infrastrutture con riserve energetiche conviene sia ai cinesi che agli africani. E’ uno scambio senza illusioni altruistiche. E infatti ora gli africani giudicano molto più positivamente i cinesi degli occidentali, perché toccano con mano i vantaggi di questa impostazione: ora ci sono strade dove prima non esistevano e nuovi posti di lavoro; non fissano più il deserto degli aiuti internazionali.
Morale della favola : un’ulteriore dimostrazione che la carità ha senso e valore se ha una dimensione individuale.
La carità pubblica, invece, è una delle vie che portano all’inferno.