Oggi è la giornata mondiale dell’ambiente e io ho un po’ di paura ad aprire Facebook, perché già mi immagino la mia home page invasa da meme contro quello che, apparentemente, è il principale oggetto di rancore da parte del web cattolico di oggi. No, non Boko Haram, non Planned Parenthood, ma bensì Greta, la sedicenne ambientalista.
Onestamente, mi sfugge la ragione per cui la cattolicità digitale debba avercela così tanto con l’ambientalismo. Alcune delle pagine più belle sul rispetto del creato sono state scritte, a mio parere, da Joseph Ratzinger (per non citare, ovviamente, l’intera enciclica di papa Francesco), e comunque credo che nessuno di noi possa dire “sì, a me piace inquinare, spargo rifiuti nei fossi per hobby nel mio tempo libero”.
Sarà che, come giustamente fa notare l’amico Berlicche, nel dibattito politico italiano è sempre (e solo) la sinistra radicale a parlare di questi temi: chi non vota quei partiti ha probabilmente derubricato il tutto a una fissa da fricchettoni o ‘na roba da centri sociali.
Sarà che le associazioni ambientaliste, effettivamente, ci mettono tutto il loro impegno per rendersi odiose (o peggio): storia vera, ieri mattina mi collego a Instagram e la prima cosa che vedo nella home è questa:
Ellamiseria.
Se la prima reazione è far le corna, la seconda è mettersi a ridere: io non so chi sia il pazzo che cura le PR di certi gruppi ambientalisti, ma viene il sospetto che sia davvero un fricchettone che lavora da dentro un centro sociale (probabilmente, sotto l’effetto di stupefacenti).
Forse bisognerebbe davvero provare a cambiare strategia comunicativa, per rendersi un po’ meno invisi alla brava gente. Ad esempio, io tenterei qualcosa che sia un po’ meno sulle linee di “el pueblo unido” e un po’ più sulle linee di “torniamo alle sane abitudini delle casalinghe anni ‘50”.
È meno arcancoide, è più confortante, e, secondo me, va bene uguale.
Qualche esempio?
La Casalinga Anni ‘50 non pretendeva di avere sempre la pappa pronta: era disposta a fare qualche minimo sacrificio in più, se necessario
Io credo di essere la persona meno adatta al mondo a pontificare contro “la pappa pronta”, ché i surgelati sono il mio salvavita e ne faccio un uso ampio e abbondante, soprattutto nei periodi di lavoro intenso. Ma “pappa pronta” può essere inteso anche in senso lato, come esempio di tutte quelle comodità (spesso, inquinanti) che l’industria di oggi ci propone, per risparmiarci una fatica che… è davvero minima.
Volete un esempio? Le bustine del tè.
Non so quanto tè beviate abitualmente nelle vostre case: io ne bevo in quantità industriali, vista la mia passione per le tisane. Siccome sono matta, ho questo pregiudizio per cui il tè sfuso è migliore di quello già incartato in bustina (che mi sa troppo di “industriale”). Ergo, compro quasi sempre tisane sfuse, e ben che sto.
Ebbene: mi sono stupita non poco, quando sono venuta a sapere che la maggior parte delle bustine di tè viene lavorata con delle termoplastiche che servono a tener chiusa la bustina stessa. Va da sé che queste sostanze non sono compostabili; quindi, a quanto mi si dice, la bustina inquina anche se noi, scrupolosamente, la buttiamo nel cesto dell’umido convinti di far bene. Oltretutto, c’è anche chi si interroga sulle possibili ripercussioni per la salute umana di questo sottile strato di plastica lasciato in infusione in un tazzone d’acqua bollente, che poi viene bevuta.
Quando ho letto la notiziola, ci sono rimasta di sasso. Non tanto per la gravità della scoperta in sé (mi sembra ovvio che c’è di peggio), ma per lo stupore di chi pensa “ma davvero? Ne val la pena?”.
Vi accennavo che, a causa di un mio gusto personale, preferisco bere tisane sfuse. Parafrasando, potrei dire che “ho rinunciato alle bustine del tè” già da mo’, e giuro che è una rinuncia che non pesa affatto. Apri il barattolo, prendi il colino, versi la tisana nel colino; quando hai finito, svuoti il colino nel cesto dell’umido e gli dai una passata veloce sotto l’acqua… quanti secondi di vita avrò perso, per star dietro al colino senza la comodità di una bustina usa e getta?
Dieci? Quindici? Nell’arco di una giornata?
Voglio dire: non sto parlando di decidere di farsi una lasagna in casa invece di usare quelle surgelate; sto parlando di uno sforzo extra veramente veramente minimo. Ma che davvero, siamo diventati così pigri (o così affannati) da avere bisogno del tè in bustine, nonostante ci venga detto che è inquinante, più costoso di quello sfuso (e, oltretutto, potenzialmente dannoso per la salute)?
Io ho la fortissima impressione che una Casalinga Anni ’50 ci guarderebbe come dei mentecatti, urlando “ma prendi ‘sto colino e fatti un tè, hai paura che ti cadano le braccia?”.
E potrei citare un mucchio di altre circostanze in cui la nostra amica col grembiule ci prenderebbe per idioti: usare la macchina quotidianamente anche se potresti andare a piedi; comprare acqua in bottiglie anche se quella del rubinetto è buona… Lì, però, entrano in gioco così tante varianti che diventa difficile parlare a priori.
Ma se parliamo di una cosa così minima come farsi il tè con il colino e non con una bustina, mi vien proprio da pensare che forse siamo noi ad essere un po’ troppo pigri e menefreghisti, se ci rifiutiamo di cambiare anche un’abitudine così piccina.
La Casalinga Anni ’50 non inquinava: usava il vuoto a rendere
Va detto che la Casalinga Anni ’50 era una donna di casa a tempo pieno, e c’aveva una intera giornata libera per organizzare le sue commissioni. Lei poteva anche pensare di uscire un attimo per andare dal lattaio a farsi riempire la bottiglia vuota; se io mi infilo in metro all’ora di punta con una cassa di bottiglie vuote, per andare dal lattaio in pausa pranzo e fare la scorta per una settimana, la gente giustamente chiede un TSO d’urgenza.
Però la formula del vuoto a rendere è indubitabilmente intelligente, e potrebbe funzionare per davvero, probabilmente, se ce la rendessero più comoda.
Una soluzione adatta al logorio della vita moderna potrebbe essere quella adottata da Loop, un servizio di consegna a domicilio lanciato da TerraCycle, la (ricchissima) azienda statunitense che lavora nel campo della raccolta differenziata. Ambeh: l’idea di Loop è quella di consegnarti a domicilio (a mo’ di corriere Amazon) prodotti di uso quotidiano che tu avrai precedentemente ordinato tramite Internet (gli stessi che compreresti al supermercato, ma confezionati in vetro) e poi di tornare a riprendersi i contenitori vuoti al momento della consegna successiva. I vuoti vengono sterilizzati e riutilizzati, e così via dicendo, in un sistema moderatamente virtuoso… e a prova di consumatore giustamente esausto, dopo otto ore di lavoro e altre due imbottigliato nel traffico.
Per il momento, Loop funziona (bene, a quanto pare) negli Stati Uniti e a Parigi. L’idea sarebbe di espandersi in Canada, Regno Unito e Giappone entro il 2020, e poi verso l’infinito e oltre.
In Italia, vi segnalo – ma giusto per vostra scienza – l’esistenza del Negozio Leggero, una catena che è leggera proprio perché ti vende i prodotti sfusi, e il barattolino in cui metterle te lo porti tu da casa. Purtroppo, per me, è poco pratico: il negozio è scomodo e, oltretutto, le commesse del “mio” specifico negozietto sembrano essere vocate a farti perdere un mucchio di tempo, fermandosi a chiacchierare del più e del meno invece di sbrigarsi a fare il conto. Sarà pure una presa di posizione all’insegna dello slow living, ma ci va tanto a capire che io son stanca, ho male ai piedi, mi scappa la pipì e voglio solo tornare a casa a far partire la lavatrice? Sgrunt.
La Casalinga Anni ’50 faceva la spesa dal contadino o nel negozietto del quartiere. Non andava a infilarsi in macchina nei centri commerciali a 30 km da casa
Ho già parlato in queste pagine di come, per una serie di coincidenze, io abbia (accidentalmente) partecipato alla sfida di Février San Supermarché: trascorrere un intero mese senza far la spesa nella grande distribuzione. Non credevo che sarei sopravvissuta alla sfida, e invece ci sono riuscita abbastanza tranquillamente, facendo mie alcune buone pratiche che ho continuato ad adottare anche nei mesi a venire (senza eccessi. Al supermercato, ci vado eccome!).
Non so, onestamente, se l’ambiente benefici un granché da questa mia abitudine, ma sicuramente ne beneficia l’economia locale (e non è poco). Comprare frutta e verdura da una azienda agricola che ha sede a pochi chilometri da Torino incide in modo non catastrofico sul mio budget, a fine mese – ma intanto mi fa sorridere, sapendo che la signora Antonietta (proprio lei!) riesce a pagare le bollette anche grazie alla mia spesa.
Prima o poi, se vi interessa, racconterò come mi sto trovando dentro il Gruppo di Acquisto Solidale di cui faccio parte da qualche mese. La sintesi, comunque, è che mi sto trovando bene, anche perché questo mi aiuta a fare un’altra cosa che era un must per ogni vero angelo del focolare. E cioè..
La Casalinga Anni ’50 non sprecava il cibo. Mai. Per nessuna ragione al mondo
Avete presente la frase delle nostre nonne, “il cibo non si butta”? Ma quanto l’ho odiata.
Certo che non si butta il cibo (l’hai pagato a caro prezzo, mi pare ovvio che non si butti), ma allora dovremmo dire la stessa cosa anche dei vestiti ancora riutilizzabili ma non più di moda, dei trucchi lasciati scadere nel beauty case, dei giocattoli finiti nel cassonetto perché “tanto non ci giochi più”, e di tutte le decine di oggetti ancora in buono stato che finiscono nella discarica invece di essere utilizzati o regalati.
Invece di fissarci sul fatto che “il cibo non si butta”, manco fossimo ai tempi dei nostri trisavoli nel mezzo di una carestia, meglio faremmo a dire che “è molto spiacevole avere incuria di qualcosa al punto tale da esser costretti a gettarlo via”. Cibo o mobilio o vestiti, poco cambia… sennonché, per ovvie ragioni, è effettivamente molto più facile danneggiare irrimediabilmente degli alimenti. Infilare una mozzarella in frigo e dimenticarsi della sua esistenza è così facile – e quando te ne ricordi, ormai è già scaduta.
Curiosando sul sito di Love Food, Hate Waste, una campagna di sensibilizzazione sul tema sorta nel Regno Unito, fa oggettivamente un po’ impressione venire a sapere che, in media, il 25% della spazzatura prodotta annualmente da una famiglia è composta da scarti di cibo che sarebbero stati ancora utilizzabili. Per capirci: “non stiamo parlando di gusti d’uovo o delle ossa del tuo pollo arrosto. Stiamo parlando degli avanzi rimasti nel piatto e che non hai mangiato perché eri troppo pieno, o delle croste di pane, o delle bucce delle patate – tutte cose che avrebbero potuto essere trasformate in qualche piatto delizioso”… con un po’ di impegno e di pianificazione.
Se il problema “m’è scaduta la mozzarella perché mi ero dimenticata di averla in frigo” potrebbe facilmente essere arginato con la buona pratica di pianificare la domenica tutti i pasti per la settimana entrante (io personalmente non sono una fan di questo metodo e preferisco improvvisare, ma ne apprezzo la praticità), il problema “sto buttando via avanzi che potrebbero essere riutilizzati” sarebbe facilmente aggirabile munendosi di:
- uno di quei ricettari delle nostre bisnonne (appunto), che, tra crisi del ’29, sanzioni economiche all’Italia e tesseramento di guerra, avevano ben studiato mille modi per non sprecare
oppure, alternativamente,
- dell’utile ricettario online della campagna summenzionata pensato innanzi tutto per palati inglesi ma perlopiù godibile anche per una buona forchetta mediterranea. Provate!
“Provate!”, anche perché non si tratta solamente di far bene all’ambiente: innanzi tutto, si fa bene al proprio portafoglio. In un esperimento sociale condotto in Australia su tre famiglie che avevano accettato di sottoporsi alla sfida seguendo per qualche tempo le indicazioni di questa campagna no-waste, una delle famiglie partecipanti ha risparmiato la strabiliante cifra di 140 dollari a settimana (!). Direi che questi signori avevano probabilmente delle abitudini di acquisto un po’, ehm… sballate, ma la campagna britannica promette un risparmio che si aggira attorno alle 70 sterline al mese per tutti coloro che seguono attivamente i suoi consigli… e questa stima mi sembra già un po’ più attendibile.
La Casalinga anni ’50 sapeva come prendersi cura dei suoi vestiti; non li rovinava in incidenti di lavaggio
Secondo il report del Copenhagen Fashion Summit, il mondo della moda produce ogni anno 92 milioni di tonnellate di rifiuti, una cifra esorbitante che include – tra le altre cose – gli scarti di produzione, i capi invenduti, e (ovviamente, in molto minor misura) i capi di abbigliamento che i singoli cittadini gettano via.
Com’è ovvio, noi singoli possiamo fare ben poco per l’inquinamento causato dalle grandi industrie, ma proviamo a focalizzarci su quel poco che possiamo fare a casa nostra per limitare il piccolo inquinamento che siamo noi a produrre.
Secondo una recente stima fatta intervistando consumatori del Regno Unito, un capo di abbigliamento rimane nell’armadio di un inglese per una media di 3,3 anni, prima di essere gettato. Dei vestiti che vengono gettati, circa il 26% sarebbe ancora utilizzabile: la gente se ne sbarazza (auspicabilmente, dandolo in beneficenza…) per far spazio nel guardaroba, perché quel modello ha ormai stufato… eccetera eccetera eccetera.
La cosa veramente sconfortante, però, è scoprire che il 70% dei vestiti che vengono gettati subisce quella sorte a causa di incidenti di stiratura o di lavaggio, che avrebbero potuto essere evitati.
Presente, il maglioncino infeltrito dopo un giro in lavatrice, il top rosa macchiato irreversibilmente dalla maglietta rossa che ha perso colore, la camicetta con le macchie di deodorante sotto le ascelle che non riesci a togliere in alcun modo? Ecco: quelli lì.
Come ormai sanno anche i sassi, aderisco da alcuni anni alla Fashion Revolution, un movimento che mira a riformare il mondo della moda e che, a tal scopo, tra le altre cose, pubblica annualmente una rivista contenente riflessioni e consigli pratici.
La rivista dell’anno 2017, titolata in modo eloquente Loved Clothes Last, conteneva alcune pagine francamente imbarazzanti – o meglio, io mi sono immaginata la faccia di mia nonna (ma anche solo di mia mamma!) di fronte a donna di trent’anni che legge certe cose, e m’è venuta la ridarella.
Il magazine era strapieno (ma proprio strapieno!) di consigli di buonsenso tipo questo:
alias: prima di comprare un vestito, dai una occhiata a come sono fatte le cuciture e soprattutto gli orli, perché da quel dettaglio ti fai una idea della durabilità del capo.
O peggio ancora:
alias: siamo addivenuti alla conclusione che, tu, consumatrice attenta all’ambiente (e presumibilmente anche istruita) non hai la più pallida idea di come si fa una lavatrice, ergo adesso ripartiamo da zero e impariamo assieme a leggere l’etichetta dei vestiti.
Seguivano altre pagine (e pagine e pagine) piene di perle di saggezza tipo “se devi lavare un capo in lana, usa un detersivo specifico per lana e non quello generico per il cotone”.
Ma che davvero?
Probabilmente sì (non penso che questi si divertano a sprecare pagine per dare dei mentecatti ai loro sostenitori), ma ci sarebbe seriamente da riflettere sul fatto che, fino a qualche anno fa, certe conoscenze venivano acquisite dai ragazzini di scuola media durante l’ora di Economia Domestica. Adesso siamo bravissimi a fare cose strabilianti con la tecnologia, ma comunque una casa dobbiamo mandarla avanti lo stesso, e, a quanto pare, a molti di noi non è stato insegnato come.
Sì: io credo che davvero bisognerebbe ripartire da una scuola di economia domestica anni ’50, per modificare le piccole abitudini del singolo (…che, comunque, su scala globale hanno il loro peso). E probabilmente anche per insegnare alle famiglie a risparmiare (ché è ridicolo lamentarsi delle spese troppo alte quando magari tu per primo hai uno stile di vita eccessivamente dispendioso).
Invece di proclami catastrofisti che hanno come unico risultato quello di renderti inviso alla popolazione, bisognerebbe forse provare con un garbo sorridente.
Quando si tratta di creare una icona per il movimento, bisognerebbe forse provare a scegliere una nonnina con girocollo di perle, ad experimentum, e poi vedere l’effetto che fa. Magari, si scopre che funziona meglio di un gruppo di adolescenti che gridano slogan da un palco (con ammirevole buona lena, per carità).
Io ogni tanto la faccio, questa osservazione, alle pagine che seguo e che parlano di ambiente: “bisognerebbe tornare a gestire la casa come facevano le nostre nonne”. Che secondo me non è nemmeno “decrescita infelice”, è proprio “tornare a gestire la casa come facevano tanto bene le nostre nonne”.
I gestori delle pagine mi rispondono con palpabile imbarazzo che, beh, in effetti è vero, spesso aggiungendo qualcosa tipo “ma con la consapevolezza di oggi circa il ruolo della donna”. E va bene, mettiamoci pure la consapevolezza (notoriamente le nostre nonne non sapevano chi erano né cosa facevano)… però, così è. Oggettivamente.
Se anche voi avere a cuore la tutela dell’ambiente ma non vi ritrovate in un questo ambientalismo da centro sociale, provate magari a dare una occhiata al gradevolissimo Retro Housewife Goes Green, un blog statunitense attivo dal 2008 e dedicato a green living, homemaking, food and living a vintage lifestyle.
Chissà, magari scopriamo che questa ci sta più simpatica di Greta.
Io, da storica e amante della Storia, non posso non sorridere (in senso buono, annuendo vigorosamente!) quando leggo post su come affrontare la crisi usando i trucchetti dei nostri avi durante la Crisi del ’29, o quando mi trovo di fronte a un elenco di hobby all’insegna del fai-da-te che potrebbe essere furbo decidere di rispolverare.
Si dice tanto che la storia è magistra vitae, e in effetti quante cose avrebbe da insegnare davvero!