Franco Cardini: che la Santa Madre di Dio protegga l’Europa soprattutto da sé stessa

DROLE DE GUERRE

Fonte: Franco Cardini, storico e saggista italiano

Che la Beatissima Vergine Maria protegga l’Europa (soprattutto da sé stessa)

Premessa
Nella notte fra il 24 e il 25 febbraio del 2022 accadde qualcosa che gli europei non avrebbero mai creduto potesse più accadere: con voce fredda e tranquilla dal presidente Putin annunziò, dal suo sontuoso studio del Cremlino, che la guerra stava bussando di nuovo alla porta del nostro continente. Per la verità il presidente non pronunziò la parola vajnà, di tolstoiana memoria, né permise nemmeno in seguito che essa venisse ufficialmente in tal modo definita nel suo paese. Nessuna guerra, a suo avviso: al massimo, una severa Strafexpedition, una lezione a un paese peraltro vicino, anzi intrinseco, che dopo ripetuti avvertimenti aveva dimostrato di meritarla.

È apparso sempre più chiaro Nelle settimane successive che si andava verso una guerra vera e propria: la prima sul territorio del nostro continente dopo settantasette anni, ha commentato anche autorevolmente qualcuno dimostrando scarsa memoria e forse anche cattiva coscienza. Perché la guerra ai margini orientali del continente – un po’ più a sudovest, magari – si era già affacciata, alla fine del secolo scorso: nella maledetta primavera del 1999, con i bombardamenti della NATO su Belgrado e sulla Serbia con tanto di “bombe a grappolo”, uranio impoverito e stragi di civili innocenti: ci avevano preso parte, sia detto a vergogna nostra e del governo di allora, anche aerei italiani[1].

Fu allora, ed a fortiori è oggi, un brusco amaro risveglio: ch’è tuttavia opportuno considerare senza eufemismi, con weberiano disincanto. La guerra può essere orribile e infame, ma rientra nell’ordine umano delle cose: e nell’àmbito di tale ordine è giusto nihil umani a se alienum putare.

Tre settimane dopo, a Kiev, una tregua dei combattimenti russo-ucraini consentiva ai tre premiers di altrettanti paesi vicini di visitare il governo ucraino con l’intento di contribuire a porre le basi d’una trattativa di pace.

Coincidenza. Poco più di un secolo fa, tra il dicembre del 1918 e i primi del 1919, la bella capitale dell’Ucraina era immersa in un mare di fuoco. Se ne ricordò Michail Bulgakov ne La Guardia Bianca. Kiev, da poco proclamata repubblica autonoma eppure ancora difesa dai “bianchi” zaristi (i giovanissimi Junker, quasi dei ragazzini, dell’Ataman Skoropadskij), era assediata al tempo stesso dall’esercito “rosso” bolscevico e dai nazionalisti ucraini di Simon Vasil’evich Petljura. Quello stesso che l’anno successivo, entrato in contrasto sia con i “bianchi” sia con i “rossi”, finì per allearsi con Józef Pilsudski e combattere al suo fianco – lui, discendente di una famiglia cosacca – nella guerra russo-polacca finendo poi esule a Parigi dove cinque anni dopo un ebreo lo avrebbe assassinato per vendicarsi dei pogrom ucraini contro la sua gente.

Non è pertanto poi tanto strano se il 17 marzo 2022, ora che Peltjura è tanto ricordato in Ucraina, i cittadini di Kiev accorressero a festeggiare il presidente polacco Morawichy in visita alla loro città. Eppure, chissà quanti di loro saranno andati a rispolverare quel giorno nelle loro librerie o comunque fra i loro libri – quelli che ne hanno – una delle piccole gemme della loro identità profonda, il racconto Taras Bul’ba pubblicato nel 1835 da Nicolaj Vasil’evich Gogol’, nativo di Poltava in Ucraina e gloria eterna della letteratura russa.

Taras Bul’ba è il racconto epico, sanguigno e feroce dei “cosacchi” del Dnjepr, fratelli di quelli del Don: inquiete comunità seminomadi (la parola che li designa è il torco-tataro qazaq, “vagabondo”), in origine contadini della pianura russa meridionale nel corso del XV secolo fuggiti nella steppa – “Oh cara steppa, che il diavolo ti porti, quanto sei bella!” – e quindi riunitisi in comunità agricolo-militari (un po’ come i foederati barbari ai margini dell’impero romano) e duramente sopravvissuti difendendo la loro libertà contro i turchi ottomani, i tartari di Crimea e infine il vicino colosso della “repubblica” aristocratica polacco-lituana governata da un re elettivo e la cui unità era stata sancita dalla dieta di Lublino del 1569 dove alla Polonia fu riconosciuta anche gran parte dell’Ucraina. Ma i cosacchi dell’ataman Bohdan Chmel’nyc’kij insorsero in una durissima guerra tra 1648-49 resistendo finché, nel 1654, gli ucraini riuniti a Perejaslav si posero sotto la protezione dello zar Alessio Mikhailovich Romanov. Il sentimento socioetnico cosacco alimentò l’identità ucraina associandola all’ortodossia contro i polacchi cattolici, ispirati dai gesuiti e alleati del re di Francia, fino alla spartizione della Polonia alla fine del Settecento e oltre; l’Ucraina rinacque definitivamente come repubblica federale, dopo il conato di Peltjura, con il potere sovietico nel 1922. L’indipendenza, guadagnata definitivamente dopo varie vicissitudini dopo il crollo dell’URSS, si è affarmata poi anche a causa della forza d’attrazione esercitata sulla grande, fiera ma poverissima Ucraina da parte dell’Occidente “libero” e “democratico” ma soprattutto opulento fino alla svolta di questi drammatici giorni. È la favola bella che ieri illuse i sovietici esponendoli alla spoliazione dei razziatori tecnocratici noti come Chicago Boys[2] e che oggi illude gli ucraini che, nelle loro città ridotte in miseria e in macerie, sognano le mille luci di New York. Come biasimarli? Ora possiamo, ohimè, solo assistere a quella che più o meno a breve sarà la loro delusione, com’è accaduto ai russi di un trentennio fa.

Ucraina: sussulto ribellistico indipendentista-sovranista o nascita di una nazione?

Del resto, le delusioni sono cominciate, a ben guardare, da subito. Irretiti dalle promesse americane e occidentali, gli ucraini di Želensky erano arrivati fino al risveglio del febbraio 2022 e anche oltre a credere sul serio che la NATO e l’Occidente avrebbero davvero rischiato la pace e magari la vita per accettare di far la parte del gigante alle spalle del David Želensy per assecondare il loro sogno di libertà; e ad acconciarsi per questo al disegno dell’avanzamento verso est dei missili nucleari della NATO sino ai loro confini orientali in spregio alle ripetute assicurazioni formulate al governo russo e poi disattese. Želensy e i suoi ucraini, al pari del resto di Putin e i suoi russi, sono ancora degli euro-orientali: credono di conoscer l’Occidente, che resta loro sostanzialmente estraneo come categoria geostorico-culturale, perché sono irretiti e affascinati dalla sua immagine mediatica di libertà e di opulenza; ancora non hanno capito che cos’è nascosto sotto quella coltre policroma e invitante. È gente ancora abituata a soffrire, a rinunziare. Una trentina di anni di moderato benessere li hanno scalfiti, non ancora del tutto corrotti.

Sanno poco di noi: perciò potremo continuare forse abbastanza a lungo ad ingannarli. Ma non hanno ancora capito che alla vita e al benessere – quel cocktail fatto d’individualismo, di edonismo, di cinismo, di materialismo volgare, di carenza di senso comunitario e di corresponsabilità sociale, di “cultura dell’indifferenza” (a dirla con papa Francesco) e di “processo di secolarizzazione” del senso della vita in cui ormai consiste la sua “Volontà di Potenza” – l’Occidente non rinunzierà mai perché è questo e solo questo. Ucraini e russi sono forse sul serio ancora pronti a combattere la loro battaglia fino all’ultimo ucraino e all’ultimo russo. Anche gli occidentali: fino all’ultimo ucraino, fino all’ultimo russo e magari perfino fino all’ultimo europeo. Non oltre: nevvero, mrs. Harris? Ci sono già tanti cimiteri militari americani sparsi nel mondo, dall’Europa all’Asia all’Oceania: God bless America, ma basta sangue, basta bandiere strips and stars ripiegate a triangolo e consegnate a madri e a vedove; l’impero può ben pagare in ascari e in gurkas… Tale il “manifesto destino” americano: e ai films di Clint Eastwood non credere mai[3].

Quindi, quel 17 marzo del 2022, i tre re magi rappresentanti dell’Europa orientale ex satellite di Mosca (o ex “eretica titina”) e del mondo slavo cattolicissimo (Polonia e Slovenia) e semicattolico (Cekia) di fresco passato all’Occidente e alla NATO (già, i tre “re magi”: quando si dice “Credere alla Befana”…) bussarono alla porta di Kiev, capitale dell’Ucraina catto-ortodosso-uniate impegnata a presentarsi come un paese politicamente unito e culturalmente unitario a sua volta desideroso non già di entrare in Europa – lì, storicamente e culturalmente, c’è già da almeno tre secoli e qualcosa – bensì nell’Unione Europea (pur accantonando per il momento il progetto d’ingresso anche nella NATO),e voltando pertanto le spalle a quella grande realtà, la russa, della quale esse è stata per secoli la sentinella di confine (la parola russa okràina significa appunto “sui bordi, sui confini”). Un altro passo avanti sulla via disegnata dal presidente statunitense Biden, marzialmente deciso appunto a far a qualunque costo e con qualunque mezzo la guerra alla Russia fino all’ultimo ucraino, e magari fino all’ultimo europeo. Una guerra socioeconomica, se e finché possibile: ma, se necessario…

In attesa di chiarire questo peraltro decisivo punto, andiamo un po’ a fondo nel chiederci in modo più chiaro che cosa si sta delineando dietro questo avvicinamento dell’Ucraina alla Polonia. Quest’ultima, erede della repubblica risorta nel 1918 dopo la grandi spartizioni settecentesche le quali l’avevano fatta sparire fagocitata da prussiani, austriaci e russi, nel Rinascimento – quando era ancora la grande res publica polacco-lituana retta da un sovrano elettivo – era riuscita a imporsi addirittura come grande potenza scampando alla crisi della “rivoluzione dei prezzi” grazie al suo grano, al suo cuoio, alla sua carne salata e affumicata di bue, ai suoi traffici e alla sua diplomazia ramificata fino alla Francia e alla Toscana (soprattutto alla prospera repubblica di Lucca, ai suoi banchieri e ai suoi opifici serici); ed era giunta a sfidare turchi, svedesi, tedeschi, austriaci e russi. La Polonia, ormai fieramente pur se in parte polemicamente – il “gruppo di Vyšegrad” – impiantata in quell’Unione Europa la quale sotto il profilo militare si giova degli spalti della NATO a costo, è vero, di una bella fetta della sua sovranità dal momento che quell’”alleanza difensiva” è per statuto posta agli ordini di un alto ufficiale statunitense, ovviamente agi ordini di Washington.

Al leader di un paese che per quasi tre secoli è stato il nemico storico di quella grande patria comune russa i confini della quale essi difendevano, gli ucraini di oggi si appoggiano alla ricerca di un’identità che li distingua magari sottilmente ma definitivamente dalla Russia, loro Santa Madre fino dall’età zarista; e alla Polonia guardano davvero con simpatia e fiducia, dimenticando il superbo disprezzo con il quale quegli eleganti aristocratici cattolici li hanno a lungo considerati[4].

Un ritorno dunque a Peltjura, e non addirittura in una qualche misura a Stepan Bandera, che rispetto al primo ebbe peraltro una storia molto differente? Si potrebbe sostenere di sì, ritenendo si tratti di un comune caso di corta memoria storica. Ma forse c’è molto di più. Oggi, il comune futuro polacco e ucraino sembra riposare per concorde volontà dei rispettivi popoli sul processo di cancellazione dell’Oceano atlantico in quanto limes e sull’edificazione in suo luogo di un blocco euro-atlantista che abbia il suo scudo nella NATO e che si opponga a un blocco eurasiatico sempre più esile e sempre più svenduto se non addirittura regalato al gigantesco dragone cinese. È questo il futuro che a Kiev si cerca di preparare per l’Ucraina, per la Polonia e per tutti noi, con il plauso dell’Unione Europea di Bruxelles e all’ombra delle colonne protettrici dei missili a testata nucleare e a lunghissima gittata? È per questo che l’Europa affronterà la risacca delle sanzioni alla Russia, letali per entrambe? E a noi euroterroni, a noi euromediterranei, tutto ciò conviene?

Se vogliamo superare queste pur legittime perplessità politiche per attingere alle fonti di una ragionevole comprensione storica, la plaque tournante consiste forse in qualcosa che a noialtri potrebbe tornare una sorta di reciproca ostinata ripicca: la richiesta di Putin, nel pacchetto delle condizioni di pace, del riconoscimento da parte della repubblica ucraina della lingua russa coma primaria al pari della locale, che le è molto affine; e la fermezza con al quale il governo ucraino sembra respingere questa soluzione. Gli osservatori più attenti si rendono adesso conto – qualcuno lo diceva da tempo: ma la sua testimonianza era stata sottovalutata – che dopo il fatidico 2014 il processo di nazionalizzazione ucraina, di “ucrainizzazione degli ucraini”, già intrapreso dal 1991, si è molto rafforzato e consolidato in penetrazione, in ampiezza e in profondità, toccando fra l’altro i lidi di quello che Eric Hobsbawm ha definito “l’invenzione della tradizione”. L’affinità e per molti versi la semidentità storica e linguistica tra russi e ucraini ha impedito a lungo a chi fosse estraneo ad entrambi i due gruppi di rendersene conto: essa ha reso quasi invisibile dall’esterno il lento processo attraverso il quale il mondo ucraino, pur non concorde né sempre né in ogni parte del suo ben altrimenti che omogeneo attuale territorio, stava costruendo un deciso processo identitario nazionale: il processo che andava trasformando la “patria” di Gogol’, l’ucraino che resta e resterà per sempre un russo, in “nazione”; e sappiamo bene che a lungo andare la nazione diventa realtà quando esiste un qualche soggetto comunitario che vuole diventarlo.

Analogo processo, era già stato affrontato, sia pure in tempi, modi e contesti ben diversi, dai coloni del Regno Unito impiantati nel Nuovo Mondo: divenuti anch’essi a partire dal terzo quadro del XVIII secolo “nazione americana” pur mantenendo radici storiche, legami socioculturali e perfino patrimonio linguistico sostanzialmente comune e affine, per quanto non proprio identico, rispetto alla madrepatria. Con la differenza che i coloni del New England tardosettecentesco e degli altri territori che ad esso si assimilarono, pur mantenendo molteplici legami e subendo svariati influssi dal mondo che stava ad est dell’Atlantico – soprattutto, oltre alla Gran Bretagna, anche dalla Francia, dai Paesi Bassi e da quelli scandinavi (altri europei sarebbero arrivati più tardi) –, non potevano disporre di alcuna potenza europea alternativa che potesse appoggiarli e magari perfino accoglierli: mentre gli ucraini possono guardare non solo all’Europa, alla quale a livello geostorico essi stessi appartengono, ma anche a una risorsa “al negativo” che li accomuna ad altri paesi esteuropei. Parliamo del patrimonio paraideologico e paraculturale del rancore e della diffidenza nei confronti dell’orso “sarmatico” russo. E non si tratta, attenzione, soltanto o propriamente di antisovietismo o di anticomunismo. C’è qualcosa di più: molto di più.

Un fantasma si aggira per l’Europa. La russofobia

Una storiella che circola tra gli ebrei galiziani, appartenenti cioè a una regione che oggi è divisa tra Polonia (la regione di Cracovia) e ucraina (la regione di Leopoli), ma che dopo le spartizioni settecentesche era passata rispettivamente al Sacro Romano Impero e all’impero zarista, è estremamente emblematica al riguardo. Due ebrei appartenenti rispettivamente ai due gruppi s’incontrano fuori dalla loro patria e seggono amichevolmente all’osteria. Nella conversazione fa a un certo punto ingresso il tema dei rispettivi conviviali costumi. “Noi – dice l’ebreo di Cracovia – ogni volta che conversando nominiamo il Sacro Romano Imperatore, ci alziamo in piedi: e brindiamo”; “Anche noi – ribatte l’ebreo di Leopoli – ogni volta che conversando nominiamo lo zar, ci alziamo in piedi: e sputiamo per terra”. Di questi gesti e di questi usi è tessuta la trama di quella cultura profonda che sostiene il complesso della “russofobia”. Se non conosciamo tutto ciò, se non ne teniamo conto, ci sfugge anche buona parte di quel ch’è accaduto non solo nell’area slava, bensì – attenzione! – in quella baltica e finnica dell’ex impero zarista, che con la fine della prima guerra mondiale disparve con la frammentazione di esso per ricomporsi poi poco più di un quarto di secolo più tardi con l’impero sovietico e i trattati di Yalta. La “putinfobia” della quale hanno estesamente parlato Nicolai Lilin[5] e altri è almeno in una certa misura un annesso e un succedaneo della “russofobia” che circuisce la storia europea forse da addirittura un millennio, ma certo quanto meno fino dai tempi della Rivoluzione francese e quindi della “guerra di Crimea” del 1853-1856 che, mutatis mutandis e con infiniti mutanda da mutare, conobbe uno schieramento internazionale che ha qualche analogia con l’attuale: Francia e Inghilterra, per sfuggire alla loro cattiva coscienza di far parte di un’alleanza che faceva di loro lo scudo di quell’impero ottomano che a torto o a ragione veniva considerato il prototipo dell’odioso e decadente “dispotismo orientale”, fecero scintille nel dipingere la Russia come nefasta intollerabile tirannia. Questo cliché non mancò di compromettere l’immacolata reputazione degli alleati democratici del 1914, a loro volta accusati di essersi compromessi con l’autocrazia zarista[6].

L’”inaspettata” comparsa di una guerra annunziata (e programmata)

Queste considerazioni sono comunque propedeutiche a un esame di quanto sta adesso accadendo nell’area ex sovietica tra Mar Nero e Mar Baltico: che, come tempestivamente e lucidamente ha già da un po’ di tempo dimostrato Eugenio Di Rienzo in un compendio che ha davvero per noi il ruolo di un prezioso companion, è un momento fondamentale e uno snodo essenziale (e pericolosissimo) di una ridefinizione dell’assetto planetario pervicacemente programmata e spregiudicatamente provocata dal governo statunitense che senza scrupoli si è servito e si va servendo dello strumento della NATO[7]. E qui la storia “locale” di un “incidente di confine” dalle pur importanti prospettive confluisce – e non certo in modo casuale – con la grande storia della globalizzazione contemporanea.

All’interno di essa, per chiarirci le idee è necessario tornare al fallimento delle prospettive di Fukuyama e dello schema del “conflitto di civiltà” di huntingtoniana memoria: al naufragio del folle, ambizioso disegno neoconservatore del Project for the New American Century (PNAC) al quale si era ispirato George W. Bush convinto assertore della raggiunta egemonia unilateralista e di “un solo paese al comando del mondo”[8].

Naufragato ma in fondo mai davvero dimenticato o superato quel progetto, dopo la deludente presidenza Obama e la disastrosa presidenza Trump, era evidente che una nuova fase dei rapporti internazionali stava prendendo avvio. Qual era il ruolo che a quel punto la Russia di Putin poteva legittimamente aspirar a coprire? Proviamo a rispondere utilizzando una lucida intervista di Mara Morini, euro-orientalista e politologa dell’Università di Genova nonché autrice di un recente, apprezzato saggio monografico[9]. A proposito della prospettiva di Mosca nel suo progressivo raggelarsi nei confronti dell’Occidente e del rafforzamento dell’asse con la Cina, essa dichiarava due anni or sono:

“Il rafforzamento è una scelta strategica russa in chiave anti-occidentale per ridefinire un nuovo ordine internazionale (multilateralismo) dopo l’egemonia americana che ha provocato instabilità e crisi economica (unilateralismo). È prevalentemente un interesse geopolitico sia per contenere eventuali mire espansionistiche della Cina nel territorio della Russia orientale sia per il graduale allontanamento della Russia dall’Occidente. Come si può evincere dai ‘concetti di politica estera russa’ gli allargamenti della NATO e dell’UE hanno costituito una seria minaccia al confine russo e sono stati valutati come un ‘tradimento’ dell’amministrazione presidenziale americana, che ha rifiuitato la proposta, avanzata per primo da Michail Gorbačëv, di creare una ‘casa comune europea’ da Lisbona a Vladivostock. A ciò si aggiunga che la Russia accusa l’Occidente (USA e UE) di non averla riconosciuta e legittimata come un ‘partner alla pari’ nella politica globale. In particolare, la Russia imputa alla UE una ‘sudditanza americana’ che ostacola le relazioni politiche tra i due attori, già compromesse con l’avvìo delle sanzioni economiche e, nelle recenti parole del Ministro degli Affari Esteri Sergej Lavrov, ‘distrutte dalle decisioni unilaterali di Bruxelles’…Si tratta quindi di ‘un’alleanza soft’ per contrastare il dominio unilaterale americano che si sta rafforzando in diversi settori”[10].

All’atto di queste equilibrate note della Morini, la situazione era già grave anche a causa di alcune cose accadute fino dal 2014, e che tra breve preciseremo.
In chiari termini, l’attuale conflitto[11] è un episodio (per ora l’ultimo cronologicamente parlando) di una fase della “riprogettazione dell’ordine mondiale” avviata con l’inizio dell’amministrazione Biden negli USA e caratterizzata da tre aspetti salienti: primo, la ripresa forte, con il binomio Biden-Harris, della tradizionale politica del Partito Democratico statunitense che consiste nella fede nel “manifesto destino” della nazione americana facente centro sul principio che interesse statunitense e libertà-diritto alla felicità del genere umano coincidono; secondo, la necessaria consapevolezza ch’è, crediamo, patrimonio generalmente acquisito dell’obiettiva fase di declino attraversata dall’egemonia mondiale della superpotenza statunitense dopo il “picco” dell’inizio degli Anni Novanta (gli anni della maldestra “profezia” di Francis Fukuyama); terzo, la sensazione diffusa tra molti autorevoli osservatori mondiali che al governo di Washington prema alquanto il “distrarre” l’opinione pubblica statunitense ( e mondiale) dallo spettacolo del declino degli USA, dall’impoverimento socioeconomico e culturale del popolo statunitense all’enormità insostenibile del debito pubblico ed estero ecc.; e che il presidente Biden abbia le sue eccellenti ragioni per costringere gli USA e il mondo a guardare altrove, allo scenario mondiale; e ciò a qualunque costo, anche a quello di una guerra.

E se guerra avrà a essere, quale più degna di una “guerra umanitaria”, per la tutela della libertà e la democrazia di un popolo aggredito da un crudele dittatore? Difatti ne hanno scelta una: quella con la Russia, a meno che non sia possibile anche là il golpe della “Rivoluzione arancione”, magari provocata dagli oligarchi che attualmente possono essere più o meno putiniani, ma che sono sempre e comunque, in quanto appunto “oligarchi” (pertanto una lobby plutocratica, affaristica e imprenditoriale), spettatori sensibili nonché in parte coprotagonisti del turbocapitalismo che governa o comunque dirige il pianeta.

Il presidente-travicello Biden, insediato alla Casa Bianca nel gennaio del 2021, si è fatto immediatamente trascinare dai suoi consiglieri politici e militari – “multilateralisti” sì, da buoni democratici (si pensi al “modello Obama”), ma fautori dell’eterna crociata per la pace e la libertà a favore di tutto il mondo del quale si sentono gendarmi – ad avviare un processo di ridefinizione degli schieramenti internazionali: ma è incerto se colpire duramente la Russia col rischio di gettarla tra le fauci del dragone cinese o se limitarsi a un tentativo di obbligarla a cambiare di campo (con una sconfitta militare o una “rivoluzione arancione”) in modo di spostare decisamente ancora più ad est il “Vallo Atlantico” (cioè il confine armato delle forze NATO) e passare al deciso contrattacco contro il progetto One Belt One Road del 2013. Ha cominciato subito con l’inondare l’Ucraina di aiuti economici, armi e addestratori e – com’egli stesso ha dichiarato nella conferenza del 16 marzo scorso – ha progressivamente intensificato gli aiuti militari.

Attualmente però, l’amletico Biden (ma chiedo scusa al triste Principe di Danimarca per tale definizione) si trova in una situazione “di margine”, dinanzi a un bivio. C’è già una guerra in atto: la si potrebbe spingere oltre, ma allora si aprirebbe una china molto simile a un baratro in fondo al quale si troverebbe il pozzo senza fondo, oscuro e fiammeggiante, della terza guerra mondiale. Oppure si potrebbe restare al di qua del limite fatale, prolungare uno scontro formalmente russo-ucraino al fine di logorare il più possibile Putin – è un dato obiettivo, in effetti, che il tempo non lavori a vantaggio dell’ospite del Cremlino – e al tempo stesso brigare con i satrapi infedeli e pronti ad abbandonare la nave Vladimir se e appena dovesse cominciar a far acqua sul serio. In questo caso, il maquillage arancione sarebbe pronto e l’opinione pubblica internazionale applaudirebbe al trionfo della democrazia.
Ma è tempo di procedere con un certo ordine, analizzando sia pur sommariamente le fasi del conflitto sino allo status quaestionis presente.

Note e meno note effemeridi ucraine “prebelliche” (!?)

Contrariamente a quanto i media occidentali hanno continuato ad affermare in spregio a una verità che ha cominciato quasi subito a filtrare dappertutto, l’attuale guerra è cominciata non alla fine del febbraio 2022 con l’aggressione russa all’Ucraina, bensì nel 2014 con il golpe che a Kiev rovesciò il governo legittimo di Janukovyč[12], secondo il cliché collaudato prima nel 2003 con la “rivoluzione delle rose” in Georgia e poi con quella “arancione” del 2004-2005 nella stessa Ucraina. Fra 2013 e 2014 si erano avute in effetti forti proteste, culminate dei sanguinosi moti tra 18 e 20 febbraio 2014: si sparse allora la voce che il governo russofilo avesse fatto sparare sulla folla, facendo vittime tra i civili e perfino tra gli stessi agenti dell’ordine. All’indomani dell’evento Janukovyč si salvò con la fuga. Solo otto anni più tardi, nel 2018, una puntata del programma televisivo “Matrix” della quale parlarono ampiamente i quotidiani italiani (soprattutto “Il Giornale” e “Il Manifesto”) e la stampa israeliana rivelò che a esplodere i colpi omicidi erano stati i “cecchini” georgiani assoldati con l’intermediazione dell’ex presidente della Georgia, il famigerato Mikeil Saak’ashvili, divenuto governatore dell’oblast di Edessa dopo essere fuggito dal suo paese dov’era perseguito per truffa e omicidi politici.

Dopo la fuga di Janukovyč si formò un governo presieduto da Arsenj Jacenuk che condussero Petro Porošenko al seggio di primo ministro. Si verificavano frattanto episodi infami, come il massacro a Odessa di una trentina d’inermi cittadini russi perpetrato il 2 maggio da parte delle milizie estremiste ucraine[13]. Pochi giorni dopo, il 27 giugno, Porošenko firmò a Bruxelles l’accordo di associazione tra Ucraina e Unione Europea; le successive elezioni assisterono alla vittoria dei partiti coalizzati di Jacenuk e di Porošenko. Si avviò allora un primo tentativo di adesione formale all’Unione Europea, alla quale avrebbe tenuto dietro quella alla NATO. Ma tutto ciò provocò la rivolta nella filorussa Crimea dove si procedette a un referendum sull’autodeterminazione concluso a favore dell’annessione alla Federazione Russa.

La crisi dell’Ucraina orientale si concluse con il cosiddetto “Protocollo di Minsk”, concordato il 5 settembre del 2014 tra Russia, Ucraina e comunità russofone del Donbass (le repubbliche popolari di Doneck e di Lugansk sotto l’egida dell’OSCE). In quella sede furono assicurate ampie autonomie per l’area del Donbass, mentre la NATO si era impegnata nel rinnovare la promessa, iterata dal 1991, di astenersi dall’avanzare ulteriormente in direzione est.

Ma gli accordi di Minsk furono in seguito disattesi: sia dalla NATO, che soprattutto col governo Želensky ha trattato di nuovo il passaggio dell’Europa all’UE (cioè sostanzialmente alla NATO, con avanzata verso est della sua linea missilistica “difensiva”), sia dai governi ucraini che almeno dal 2015 intensificarono la repressione contro i gruppi politici stimati “filorussi” e le azioni militari contro le comunità del Donbass e le sevizie ai cittadini “non allineati”[14].

Fra 2015 e 2016 si era già arrivati a un livello di provocazioni e si segnali d’aggressione intollerabili. Denunziava Sergio Romano:
“La NATO sta certamente sbagliando. E questo è il tipo di provocazione peggiore. In giugno è stata organizzata una grande esercitazione in Polonia con 30 mila uomini: si chiamava ‘Anaconda’, un serpente che stritola. Se decidiamo di presidiare una frontiera, seppure con un numero di soldati simbolico, il gesto rimane lo stesso”[15].
Da allora il governo russo aveva più volte avvertito quello ucraino ammonendolo affinché violenze e prevaricazioni cessassero. Nel dicembre 2021 decise di romper gli indugi e di saltar a piè pari gl’inutili intermediari di Kiev per rivolgersi direttamente al “Convitato di Pietra”, Motore nemmeno troppo Immobile e anzi occulto ma evidente mandante della situazione: e inoltrò ufficialmente inoltrato al governo statunitense una proposta di accordo sulla situazione ucraina. Tutti gli appelli da allora sono rimasti inevasi e i media occidentali non ne hanno parlato[16].

L’errore obbligato di Putin: ovvero la caduta in una trappola inevitabile

A questo punto la Federazione Russa non aveva scelta: doveva affidarsi solo alle armi per le tutela delle due autoproclamate repubbliche del Donbass; e farlo al più presto per precedere un eventuale ingresso ufficiale ucraino nella NATO che gli avrebbe rovesciato addosso tutto il potenziale bellico dell’intera alleanza se avesse fatto qualcosa dopo tale evento.

Da qui il discorso televisivo di Putin della notte del 25.2.2022. Commise errori, in quel momento, il presidente russo? Senza dubbio, sì. E ne è prova palese il celebra passo falso dell’invito agli alti ufficiali dell’esercito ucraino a destituire Želensky, prendere in mano la situazione e trattare direttamente la pace[17]. Quell’appello risentiva di un’effettiva disinformazione a proposito sia del progresso della popolarità del leader di Kiev presso la sua gente, sia dell’avanzare in Ucraina di un nuovo sentimento nazionale che andava radicandosi al di là dei vecchi schemi autonomistici e separatisti e che da tempo aveva metabolizzato, fagocitato e superato – anche se forse non del tutto, né magari per sempre – l’antica affezione per la Russia, quando non fosse stato addirittura sostituito da un più o meno accentuato senso russofobico. A ciò vanno aggiunti il crescere soprattutto tra le giovani generazioni di atteggiamenti e costumi “occidentali” e – cosa non ancora sufficientemente studiata, e almeno per ora e dall’Occidente difficile a studiarsi – la capacità d’innervamento che il costante, intenso lavoro di propaganda mediatica e di reclutamento magari anche materiale da parte della NATO e delle sue organizzazioni parallele e complementari avevano potuto portar avanti.

Così come, se possiamo avanzare alcune ipotesi quantitative sulle armi entrate dall’Occidente in Ucraina, poco si può dire sui “consiglieri militari” come quelli britannici, sul personale tecnico più o meno celato sotto veste militari, sui “volontari” o contractors o istruttori che hanno rafforzato qualitativamente e quantitativamente le forze armate ucraine in una misura ch’era ed è probabilmente sfuggita ai servizi russi. La trappola tesa dagli americani a Putin, oltre che consistere nell’obbligarlo a scegliere tra un’azione militare che gli avrebbe fatto guadagnare il titolo e la veste giuridica di aggressore e un’immobilità che sarebbe stata forse letale non solo per le sue funzioni, ma per il suo stesso prestigio, ha consistito nel fargli trovar la sorpresa di un paese ch’era già in un modo o nell’altro sostanzialmente già membro della NATO. Gli errori tattici e strategici, l’impantanamento, la “guerra d’attrito”, il cedere dell’entusiasmo e della sicurezza, sono venuti di conseguenza. Ma non è detto che questo iniziale svantaggio, che ha ridotto l’efficacia della superiorità della forza d’urto militare, non si trovi sulla via di vanir assorbito e corretto.
D’altro canto, Putin può essere stato sorpreso anche dal grado di coesione tra americani ed europei, vale a dire dal livello di subordinazione ormai anche intima e magari compiaciuta, che l’Unione Europea nei suoi quadri politici, militari, mediatici e civili ha dimostrato nei confronti degli USA e della NATO. Forse, dalla prospettiva della lontana Mosca e nonostante il disgelo degli ultimi decenni, i risultati di tre quarti di secolo di americanizzazione a tutti i livelli – dall’America way of life al “Tu’ vuo’fa’ l’ammericano” – hanno alfine dato i loro frutti. “Ribellarsi: ecco la nobiltà dello schiavo”, diceva il vecchio Nietzsche. Gli europei, e soprattutto gli italiani, hanno dimostrato di essere degli schiavi ignobili.

L’Europa e in particolare l’Italia: la galoppante eclisse della sovranità

E schiavi incoscienti. Una scelta come la plebiscitaria approvazione da parte del nostro parlamento di armi da inviare agli ucraini, che costituisce un atto formale non di pura ostilità bensì di aperta dichiarazione di guerra, non sembra essere stato valutato nella sua esatta gravissima portata nemmeno da parte di quel governo che l’ha accettata e magari perfino sollecitata, nemmeno da parte di quei parlamentari che l’hanno fieramente promossa. Ne fa fede il senso di sconcerto con il quale quegli stessi soggetti hanno poi accolto la notizia delle indignate reazioni russe; e la mancanza di sensibilità e di cultura che non ha fatto loro nemmeno capire fino a che punto dietro quella rabbia russa ci fossero amore e delusione, passione e rabbia per un “tradimento”. Noi siamo russofobi bovinamente fieri di esserlo e pecorescamente felici che il padrone d’Oltreoceano premi la nostra infamia con una carezza. Ma non è vero il reciproco: la Russia trabocca d’amore per il paese del Sole e del Bel Canto, i russi già dall’epoca zarista (ricordate le immagini di Karl-Friedrich Schinkel dedicate al palazzo della zarina ad Orianda, lungo la costiera del Mar Nero? Ricordate La signora dal cagnolino di Juri Chejfic?) vedevano la Crimea come una sorta di dolce promontorio amalfitano, siamo – noi e loro – “fratelli di vino, di limone e di melone”, il mandolino è quasi gemello della balalaika. Il voto del parlamento italiano sulle armi è stata una pugnalata alla schiena che si poteva e si doveva evitare: non sarebbe cambiato nulla nemmeno per gli ucraini. E di tutto ciò da noi nessuno si è nemmeno accorto. Vergogna. E vergogna per la viltà, dal momento che sapevamo bene, compiendo quell’atto di guerra, che la diplomazia russa non era in grado di reagire adeguatamente dal momento che siamo protetti dallo scudo NATO. Con tutto ciò, abbiamo perfino fatto la figura delle vergini offese quando ci è pervenuta da parte russa notizia del disprezzo con il quale giustamente venivamo ripagati. Vergogna, vergogna, vergogna.

Verso una dicotomia tra Euramerica ed Eurasia?

E perveniamo all’ultimo punto. Aggressione di uno stato sovrano? Benissimo: proceda pure la corte dell’Aja contro la Federazione Russa. A quando i processi contro la NATO (posta sotto alto comando USA) per Serbia 1998-9, Afghanistan 2001, Iraq 2003, Georgia 2004-13 (l’infame governo del criminale Saak’ashvili), Libia 2011, Siria 2011 eccetera? E a quando le sentenze quanto meno morali per l’infamia del Cermis (a un caso grosso modo analogo gli iraniani tra 1978 e 1979 hanno risposto con un’autentica rivoluzione) e per il disonore che pesa su tutti noi, su “noialtri occidentali”, del carcere di Guantanamo tenuto aperto contro tutte le leggi divine e umane e a proposito del quale lo stesso Obama non riuscì a fare giustizia?[18]
Non parleremo qui invece dei costi economici di questa follìa per gli europei e in particolare per gli italiani. Le sanzioni contro la Russia le paga la Russia, ma anche l’Europa; gli USA e la NATO, che pagano pochissimo, se ne fregano[19].

La verità ultima, da tener bene presente, è che quella in corso è una guerra scatenata dalla NATO direttamente contro la Russia per sovvertire l’ordinamento interno di quel paese e distogliere l’opinione pubblica statunitense e mondiale dalla rovina nella quale il governo Biden sta precipitando gli USA; e indirettamente contro l’Europa asservita alla NATO, indirettamente colpita da sanzioni demenziali e a rischio di trovarsi in prima linea in caso di estensione del conflitto[20]. Ma ciò solo in superficie. In realtà, e in termini di movimenti tettonici profondi, siamo dinanzi a un episodio del generale riposizionamento del mondo e delle alleanze internazionali. Per il momento, almeno in apparenza, tutto è magmatico e difficili sono le previsioni. Sospendiamo il giudizio, ma in vigile attesa.

Ma torniamo solo un istante – la troppo grave situazione lo richiede – all’Europa e all’Italia, presumibilmente vittime non casuali né secondarie (“danni collaterali”, “fuoco amico”…) del conflitto e a quanto pare felicissime d’inasprirlo. L’invio di armi all’Ucraina in un momento come questo – ripetiamolo e ribadiamolo – rappresenta formalmente un atto di guerra della NATO contro la Russia. Consideriamo i precedenti storici. Dal 1914 al 1917 l’America mandava aiuti all’Inghilterra con la scusa della legge sugli affitti e i prestiti: il Kaiser affondava i convogli inglesi con i sottomarini. Sembrava un brutale gioco delle parti, alla fine però è scoppiata anche la guerra: cerchiamo di non arrivare a questo. Quanto alle sanzioni contro la Russia: paga la Russia, ma anche l’Europa mentre gli USA e la NATO, che pagano pochissimo, se ne fregano. Preoccupanti comunque le notizie dagli States: se Želensky comincia a dar segni di cedimento (che sarebbe piuttosto ragionevolezza), attorno a lui spuntano “falchi” che rifiutano ogni sorta di trattativa e sembrano trovare una sponda inattesa negli ambienti vicini al presidente Biden, che per la sua cronica indecisione viene messo in difficoltà. Entra a gamba tesa nel dibattito anche l’ineffabile Mike Pompeo, il “superfalco”, che da par suo perora la linea dura. C’è da chiedersi se tutto ciò non sia per caso sintomo di qualcosa che bolle in pentola. La storia è imprevedibile. Se nelle prossime ore o nei prossimi giorni avvenisse qualcosa d’inatteso, che rimettesse tutto in discussione, non ci sarebbe da stupirsi. Magari qualcosa di grave da attribuirsi subito e facilmente ai russi – “che bisogno abbiamo dei testimoni?” –, una specie di nuovo “incendio del Reichstag”. Che cosa significa la vaga ma ostinata insinuazione, circolante in molti ambienti giornalistici e addirittura militari, che i russi potrebbero usare “le armi chimiche”, un’eventualità obiettivamente remota in questo tipo di conflitto? Ricordiamoci della voce che correva all’inizio dell’anno, secondo la quale i russi avrebbero attaccato il 16 febbraio? Pura invenzione fortunosamente “azzeccata”? Fuga di notizie, magari malintese? O mossa strategica travestita da “profezia”?

Le notizia del 16 marzo scorso a proposito della prossima presenza del presidente Biden a Bruxelles per il prossimo vertice NATO fa crescere le inquietudini. L’Amleto della Casa Bianca si sente sempre addosso l’ombra incombente delle due Moire Americane: la signora Kamala Harris e quindi la signora Clinton, patrone di tutti i “falchi americani”, fiere e indefesse fautrici dell’”Armiamoci-e-partite” e ben decise a combattere la Russia fino all’ultimo ucraino, magari fino all’ultimo europeo. Quanto reggeranno le buone intenzioni di Želensky – ammesso che ci siano – a proposito della necessità di tenersi fuori dalla NATO?

Mio umile e sommesso convincimento sarebbe d’altronde che Putin farebbe bene ad accettare quanto l’Occidente a questo punto gli propone anziché, dichiararlo insufficiente: altrimenti rischia seriamente di venire stritolato dalle ganasce di quelli che (in Ucraina, in Europa, soprattutto negli USA) vogliono l’indurimento dell’embargo antirusso e magari anche la guerra, convinti che pagheranno di persona pochissimo il contraccolpo delle sanzioni e che vinceranno per corpora alterius (alias Europaeorum) anche un’eventuale e magari (per loro) auspicabile guerra “allargata”… E, viene da domandarsi, quanto allargata, fino a che punto? Nel peggiorissimo dei casi, i missili russi difficilmente cadrebbero sul New England o sulla California, bensì quasi subito sulla Sicilia, sul Veneto, sulla Toscana e sulla Sardegna, sedi principali delle basi USA-NATO in Italia e linea avanzata dello schieramento “occidentale”.

Abbia o no ragione o torto marcio il signor Putin, stia “vincendo” o stia “perdendo” la “sua” guerra, la sostanza delle sue richieste resta la stessa: congelamento permanente del confine della “linea di fuoco” NATO, incremento di un provvidenziale “spazio neutro” tra Euramerica ed Eurasia (se a questo punto vogliamo definirle così, mettendola giù dura), riconoscimento quanto meno di larga e seria autonomia per Crimea e Donbass, si conceda loro definitivamente o meno la facoltà di liberamente e ufficialmente collegarsi alla Federazione Russa.

[1] Cfr. M. dell’Agli, F. Lamberti, Il Peacekeeping: fine di un (falso) mito, Milano 2021; S. Cannavò, Delgrado 99, quando noi eravamo Putin, “Il Fatto quotidiano”, 17.3.2022, pp. 4-5.
[2] Vale la pena di consultare al riguardo S. Halimi, Le grand bond en arrière. Comme l’Ordre libéral s’est imposé au monde, Paris 2004.
[3] Meglio volgersi altrove, anche al cinema. In Annie Hall, un film del ’94 uscito nelle sale italiane col titolo di Io e Annie, a una problematica Diane Keaton che trepidante si chiede se sarebbe mai riuscita a resistere a un interrogatorio della Gestapo, un cinico e scafato Woody Allen risponde: “A te, sarebbe bastato ritirarti la carta di credito”. This is West, babies: e noi non possiamo farci proprio niente. Con le dovute eccezioni, beninteso. È sempre tempo di eroi, e se dai diamanti non nasce niente dal letame possono sempre nascere i fiori. Ma ci vorrebbe una gran tempesta per far rinascere quel tipo di primavera.
[4] Non è facile per gli italiani, che ben poco sanno in genere di cose esteuropee, orientarsi nel ginepraio ucraino: consigliamo ad esempio il recentissimo M. Vassallo, Storia dell’Ucraina. Dai tempi più antichi ad oggi, Milano 2020, semplice ma tutt’altro che semplicistico e generoso si annessi bibliografici, storici e fonetico-linguistici.
[5] Cfr. G. Chiesa, Putinfobia, Milano 2016. Sulla pagine del frontespizio della copia di questo libro che l’indimenticabile Giulietto Chiesa mi dedicò in data 8 settembre 2017 è scritto: “A Franco, con la sensazione che siamo (sono) al penultimo atto”. Una dedica che mi fa rabbrividire ogni volta che la rileggo. Giulietto è mancato il 26 aprile del 2020.
[6] Cfr. G. Mettan, Russofobia. Mille anni di diffidenza, tr.it., Roma 2016.
[7] Cfr. E. Di Rienzo, Il conflitto russo-ucraino. Geopolitica del nuovo dis(ordine)mondiale, Soveria Mannelli 2015. Giungendo alla fatidica tappa del 2014, Di Rienzo riesce lucidamente e quasi “profeticamente” – la “profezia” dello studioso che dal passato sa ricavare la lezione del presente in funzione di un futuro che resta pur imprevedibile ma le linee di fondo del quale si possono comunque intuire e indicare, salvo quello che per Vilfredo Pareto era l’Imponderabile e per gli ebrei è ezba’ Elohim, il “dito di Dio”.
[8] Ci permettiamo il rinvio a F. Cardini, Astrea e i Titani. Le lobbies americane alla conquista del mondo, Roma-Bari 2003.
[9] M. Morini, La Russia di Putin, Bologna 2020.
[10] Cfr. Il mondo di Putin. Intervista a Mara Morini, a cura di C. Lovotti e C. Mingardi, in Frontiere (“Pandora. Rivista”, 1/2021, pp. 272-73; sullo stesso numero, su temi in parte analoghi, cfr. le interviste a Gianpiero Massolo, pp. 202-11, e a Vittorio Emanuele Parsi, pp. 266-71.
[11] Consigliamo a meglio precisarlo la preliminare consultazione di: Grand Atlas du monde, dir. p. F. Tétart, Paris 2013; La géopolitique mondiale en 40 cartes, Paris 2022; Le bilan du monde – “Le Monde”, Hors Série, éd. 2002, Paris 2022: La Russia cambia il mondo, “Limes”, 2, 2002.
[12] Viktor Janukovyč era stato nominato primo ministro nel novembre del 2002; dopo le proteste popolari contro presunti brogli elettorali la cosiddetta “rivoluzione arancione” condusse alle elezioni del 26 dicembre 2004 e alla vittoria del presidente Viktor Juščenko, che s’insediò il 23 gennaio del 2005 con il favore e il sostegno decisi degli Stati Uniti e dell’Unione Europea. Dopo tale data la Russia applicò nei confronti dell’Ucraina un considerevole rialzo del prezzo del gas, fornito da Gazprom. Il malcontento salì e nelle elezioni presidenziali del 2010 venne di nuovo eletto Janukovyč, che batté di stretta misura la filoccidentale Julija Tymošemko.
[13] O.Boyd-Barrett, Western Mainstream Media and the Ukraine Crisis, Routledge 2016.
[14] OSCE Supplementary human dimension meeting, April 2016, PC.SHDM.NGO/17/16, 15 April 2016.
[15] S. Romano, “Panorama”, 26 ottobre 2016.
[16] Ma cfr. “Il Manifesto”, 15.12.2021, l’unico che ne parlò.
[17] Cfr. Su tutto ciò l’esemplare saggio di M. Tarchi, La trappola, “Diorama”, genn.-febbr.2022.
[18] Cfr. M.D. Nazemroaya, La globalizzazione della NATO, Bologna 2014; D. Ganser, Breve storia dell’impero americano, Roma 2021.
[19] Cfr. M. Fulgenzi, La guerra delle sanzioni, Rimini 2021.
[20] Cfr. A. Bedini, L’Italia “occupata”. La sovranità militare italiana e le basi USA-NATO, Rimini 2013.

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