Non ho visto il film intitolato “Bohemian Rhapsody”, su Freddie Mercury dei Queen, non conosco la musica del suo gruppo musicale, quel poco che ho ascoltato mi ha fatto capire che non è il mio genere. Prediligo il jazz e la classica. Molti stanno parlando del film uscito nelle sale. Vari gli articoli scritti.
La musica dei Queen risponde a un bisogno sociale diffuso, è un balsamo da strofinare sopra il malessere antropologico dell’uomo occidentale. È l’equivalente musicale della psicologia comportamentalista da bancarella, quella del potere del pensiero positivo: sii ottimista e ti sentirai meglio, continua a sorridere e i pensieri cupi se ne andranno, visualizza l’immagine di te stesso che agisce con successo e successo otterrai. Psicanalisti di scuole diverse – dal post-reichiano Alexander Lowen allo junghiano Claudio Risé, solo per dirne due – convergono nella diagnosi che le nevrosi dell’uomo di oggi dipendono dalla frattura fra l’io e il sé, dalla mancata integrazione fra psiche e corpo. La cultura dominante è sempre più centrata sui rapporti virtuali e sul narcisismo, il corpo è ridotto alla sua immagine, e la conseguenza è l’impoverimento emotivo, sentimentale, vitale. La via d’uscita che la musica dei Queen propone è afferrare l’emozione che non si prova realmente, musicarla, portarla sul palco davanti a 50 mila persone e recitarla nel modo più enfatico possibile: lieviterà fino a diventare esperienza psichica e fisica soddisfacente.
Tutta l’ironia e l’autoironia di cui il gruppo e il suo leader danno prova, tutta la vena parodistica che pervade la loro musica (i Queen sono la parodia permanente dell’heavy metal, della musica operistica, del gospel, e chi più ne ha più ne metta) sono il logico pendant della consapevolezza dell’operazione che conducevano. Che è anche, in Freddie Mercury, coscienza amara e sarcastica del proprio dramma personale. Della sua vita affettiva dice: «Godo a essere una troia. Godo a essere circondato da troie. La noia è la più grave malattia del mondo, tesoro… A volte penso che la vita debba essere qualcosa di più che non correre per il mondo come pazzi, ma non sopporto di annoiarmi». E ancora: «Ho avuto più amanti di Liz Taylor – maschi e femmine – ma le mie storie non sembrano mai durare. Sembra che io divori la gente e la distrugga».
Per Lowen l’omosessualità e la bisessualità altro non sono che manifestazioni della personalità narcisista (in Italia Lowen è stato tradotto da Feltrinelli: altri tempi), e all’uomo Freddie Mercury si attaglia perfettamente una frase di un testo dello psicanalista americano: «L’io rigido è come un cavaliere rigido in sella, che rischia di essere sbalzato a ogni movimento (sentimento) brusco. Per l’io la salvezza sta allora in un corpo insensibile, quasi privo di emozioni. Ma proprio questa insensibilità crea una fame di sensazioni che porta all’edonismo tipico di una cultura narcisistica» (Il narcisismo, pagina 154).
Freddie Mercury ha fatto con la musica quello che Van Gogh ha cercato di fare con la pittura: liberarsi della propria sofferenza interiore attraverso la forma artistica. Nessuno dei due ci è riuscito. Lo strumento non è adeguato allo scopo. Ma l’errore ce li fa sentire fratelli e ci mette ancora una volta davanti al consueto mistero: la creatività è indissociabile dalla sofferenza. I doni di bellezza che gli artisti ci lasciano – la musica ilare e bambina di un istrione gaio – grondano di un dolore insostenibile.
L’articolo Freddie Mercury: “La noia è la più grave malattia del mondo, tesoro…” proviene da Il blog di Sabino Paciolla.