Nella notte tra il 26 e il 27 marzo del 1996 un commando formato da una ventina di uomini armati irruppe nel monastero dei Trappisti di Notre Dame dell’Atlas, sequestrando sette dei nove monaci che ne formavano la comunità, tutti di nazionalità francese. Il sequestro fu rivendicato un mese dopo dal Gruppo Islamico Armato, che propose in cambio alla Francia uno scambio di prigionieri.
Dopo inutili trattative, il 21 maggio dello stesso anno i terroristi annunciarono l’uccisione dei monaci, le cui teste furono ritrovate il 30 maggio; i corpi non furono invece mai ritrovati. Due monaci della comunità scamparono al sequestro, Amédée Noto e Jean-Pierre Schumacher, e dopo la morte dei loro confratelli si trasferirono nel monastero di Fès in Marocco. L’assassinio dei monaci è avvenuto nel contesto della sanguinosa guerra civile algerina (Wikipedia) . Perciò i 7 monaci verranno beatificati insieme al gruppo dei 19 MARTIRI DI ALGERIA.
Riproponiamo, nell’anniversario del loro martirio, la testimonianza di FrèreJean-Pierre Schumacher, raccolta da Laurence Faure e pubblicata su La Vie
Marzo 2012: P. Jean Pierre SCHUMACHER, ultimo sopravvissuto dei monaci di Tibhirine saluta un’impiegata musulmana del Priorato di Notre Dame de l’Atlas, Midelt, Marocco. © Bruno ROTIVAL / CIRIC
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FrèreJean-Pierre Schumacher, ultimo sopravvissuto di Tibhirine, parla della prossima beatificazione dei suoi sette fratelli, recentemente riconosciuti come martiri dalla Chiesa cattolica con altri 12 uomini e donne religiosi algerini. Come padre Amédée, morto nel 2008, Jean-Pierre Schumacher era chiuso nella sua stanza durante il rapimento degli ostaggi del 1996. Malgrado il dramma vissuto 22 anni fa, il monaco trappista che ora ha 94 anni ha scelto di continuare a vivere a Midelt (Marocco), nel Monastero di Notre-Dame-de-l’Atlas.
“Quando ho appreso della prossima beatificazione dei miei sette fratelli… ho sentito anzitutto una gioia grande e profonda! Ora essi sono potenti intercessori presso Dio. Questo riconoscimento conferisce un significato particolare al loro martirio, come a quello di Monsignor Pierre Claverie e degli altri loro compagni martiri in Algeria. Non hanno lasciato il paese. Nonostante i rischi. Perché non si abbandonano i propri amici quando sono in pericolo. Per arrivare a ciò, ovviamente, devi stabilire amicizie reali e profonde. È anche necessario che questi amici esprimano il loro desiderio di avere la nostra presenza al loro fianco.
“L’annuncio del Vangelo in silenzio”, “essere da soli una Cristianità”, diceva il Beato Charles de Foucauld … È un po’ quello che la Chiesa vive qui, in Nord Africa, nel suo rapporto con l’Islam. Abbiamo vissuto a Tibhirine qualcosa che illustra questo spirito. Eravamo in rapporto con una dozzina di membri della congregazione musulmana Alawiya, di obbedienza Sufi. Non potevamo pregare insieme, perché le nostre religioni sono diverse, ma ci incontravamo due volte all’anno nel ‘Ribat es Salaam’ (il Legame della Pace, un’associazione di dialogo spirituale con l’Islam supportata da Christian de Chergé con Claude Rault, padre bianco, vescovo di Laghouat in Algeria, dal 2004 al 2017, ndr). Una delle prime cose che ci hanno chiesto di fare, era di non entrare nelle discussioni teologiche. Senza negare la teologia cristiana, ovviamente – perché ne abbiamo bisogno e lo sappiamo – non ne parlavamo perché ciò avrebbe rotto qualsiasi dialogo.
Fede cristiana, fede musulmana
Così ci siamo riuniti in una stanza del monastero, con alcune panche e un tavolo, ma ognuno pregava separatamente, in silenzio: è assolutamente monastico, e ciò mi è piaciuto molto! Christian de Chergé chiedeva di accendere la candela. Era una candela rossa. Non c’era bisogno di spiegazioni teologiche, è risaputo cosa significa : Dio è presente. È anche uno dei più bei nomi di Dio, tra i 99 nomi dati a Lui dai musulmani: “Dio è luce” – “Allah e’ Nur” in arabo. Così senza pronunciare parola eravamo silenziosi e ognuno stava alla presenza di Dio per circa mezz’ora. Poi ci scambiavamo una parola e quelli che lo desideravano condividevano la risonanza che assumeva questa parola nelle loro vite. Ad esempio, “Dio è luce”: noi come loro, potevamo meditare questa frase secondo la nostra fede.
Così ci siamo riuniti in una stanza del monastero, con alcune panche e un tavolo, ma ognuno pregava separatamente, in silenzio: è assolutamente monastico, e ciò mi è piaciuto molto! Christian de Chergé chiedeva di accendere la candela. Era una candela rossa. Non c’era bisogno di spiegazioni teologiche, è risaputo cosa significa : Dio è presente. È anche uno dei più bei nomi di Dio, tra i 99 nomi dati a Lui dai musulmani: “Dio è luce” – “Allah e’ Nur” in arabo. Così senza pronunciare parola eravamo silenziosi e ognuno stava alla presenza di Dio per circa mezz’ora. Poi ci scambiavamo una parola e quelli che lo desideravano condividevano la risonanza che assumeva questa parola nelle loro vite. Ad esempio, “Dio è luce”: noi come loro, potevamo meditare questa frase secondo la nostra fede.
Conosciamo un certo numero di imam che si sono opposti al terrorismo e alla violenza durante la guerra, a rischio della loro vita.
È difficile confrontare la fede cristiana con la fede musulmana. Eppure anche i musulmani hanno i loro martiri, in un senso vicino al nostro: conosciamo un certo numero di imam che si sono opposti al terrorismo e alla violenza durante la guerra, a rischio della loro vita. E, naturalmente, non possiamo che provare grande ammirazione per quel padre di famiglia musulmano che ha dato la sua vita per salvare quella di Christian Chergé quando egli era un ufficiale in Algeria nel 1959. Un atto compiuto secondo la sua fede, la sua carità. E questo è proprio ciò che all’epoca ha interpellato Christian: quest’uomo, che non era un cristiano, ha vissuto ciò che è al vertice della nostra fede cristiana e del Vangelo! Dare la propria vita per coloro che si amano… Questo fatto ha riecheggiato nella vita personale del nostro priore di Tibhirine; egli pensava di non poter fare altro che dare la sua vita, a sua volta, per il popolo algerino. Non poteva sapere cosa poi sarebbe successo, ma era già la disposizione del suo cuore.
La bellezza e il lavoro dello Spirito SantoQuesta storia mostra, se uno lo vuol vedere – e crederci – che lo stesso Spirito agisce negli uomini di fede e di preghiera che si lasciano guidare da Dio. Era la passione di Christian scoprire la bellezza e l’operato dello Spirito Santo in ognuno, e di cooperarvi, incoraggiarlo. Senza alcun desiderio di proselitismo. Questa è la nostra specificità.
Una volta ho incontrato un uomo, in un eremo di Charles de Foucauld, che voleva attirare i musulmani a diventare Cristiani… Noi diamo un significato diverso alla parola conversione: anche noi abbiamo bisogno di convertirci a Dio, di ascoltare meglio la sua Parola e di viverla. Il primo punto, quindi, è diventare tu stesso migliore e più disponibile a Dio. Partendo da questo, lasciamo che il Signore agisca sull’altro, reciprocamente. Noi speriamo che questa azione dello Spirito cresca nell’uomo e gli consenta di rispondere fedelmente a ciò che Dio si aspetta da lui. Ma è opera di Dio, è Lui che fa il lavoro, in modo intimo. Esiste una forma di eguaglianza tra noi e colui al quale ci rivolgiamo: siamo tutti figli di Dio. A volte pensiamo che siamo più avanti, ma non è sempre sicuro … a volte l’altro può essere più avanti di noi. Il Signore ci vuole tutti. Agisce nell’altro e in noi. Ciò deve essere incoraggiato da questa offerta di se stessi a Dio.
Dal 1993, dopo l’intrusione di un gruppo armato nel monastero, avevamo riflettuto e, dopo molti scambi d’opinione, abbiamo preso la decisione unanime di rimanere.
Molti ci fanno questa domanda: perché siamo rimasti a Tibhirine in quel momento? È un po’ come quello che è accaduto a Christian: questo desiderio di scoprire l’anima musulmana, tramite una reciproca ricerca di Dio. Già nel 1993, dopo l’intrusione di un gruppo armato nel monastero, avevamo riflettuto e, dopo molti scambi di opinione, preso la decisione unanime di rimanere. Questo momento cruciale appare bene nel film “Uomini di Dio” (Xavier Beauvois, 2010, ndr). È la nostra vocazione, allora, che era in gioco. Rimani o parti? Rimanere significava essere fedeli alla nostra vocazione, al motivo per cui Dio ci aveva voluto lì. Andarsene, sarebbe stato come un soldato che lascia il fronte per paura del pericolo, quando lui non comanda, che la sua vita è al servizio di ciò per cui è stato mandato. Qualunque cosa costi. Non potevamo andarcene per questo: questa missione la riceviamo, la viviamo, l’abbiamo dentro di noi.
L’amore prevarrà sull’odio
Dopo il rapimento dei nostri fratelli nel 1996, quando rimanemmo soli con padre Amédée (morto nel 2008, ndr), eravamo determinati a continuare. Per prima cosa volevamo rimanere a Tibhirine per proseguire l’opera di Dio e accoglierla in mezzo agli eventi che ci avesse dato di vivere. Avevamo anche pensato che i nostri fratelli potessero essere liberati e quindi dovevamo aspettarli …
Più tardi, quando la loro morte fu confermata, pensammo di accogliere altri fratelli, per rilanciare la vita monastica con lo stesso spirito. Ma le forze militari hanno insistito perché partissimo, per la nostra sicurezza.
Ci portarono ad Algeri, in una casa diocesana, poi raggiungemmo il Marocco, come era stato concordato con i nostri fratelli scomparsi: se, nonostante il nostro desiderio di rimanere, ci fossimo dispersi, avevamo deciso all’unanimità di incontrarci a Fez – un annesso di Tibhirine aperto dal 1988.
Ci portarono ad Algeri, in una casa diocesana, poi raggiungemmo il Marocco, come era stato concordato con i nostri fratelli scomparsi: se, nonostante il nostro desiderio di rimanere, ci fossimo dispersi, avevamo deciso all’unanimità di incontrarci a Fez – un annesso di Tibhirine aperto dal 1988.
Quello che era certo, era che se fossimo stati costretti a lasciare l’Algeria, saremmo rimasti in un paese musulmano. Nel monastero di Notre Dame de l’Atlas, a Midelt, viviamo come una continuazione di Tibhirine. È la stessa comunità che si è trasferita e vogliamo continuare a vivere di tali amicizie, perché è questo l’essenziale del nostro “dialogo islamo-cristiano”. I nostri martiri in Algeria ci stimolano oggi – e probabilmente per molti anni a venire – a credere che l’Amore prevarrà sull’odio e sulla violenza che esso genera.
Un desiderio di condividere
I nostri legami con la popolazione locale si riassumono nella convivialità, attraverso tutte le questioni concrete della vita quotidiana. La nostra regola di solito impone una stretta clausura, ma non si può vivere qui come in un paese della cristianità: ci devono essere cose che passano tra le due comunità, per arrivare a una conoscenza e a una stima reciproca. Creare dei legami è essenziale per dialogare e accogliere lo Spirito che lavora in ciascuno.
Questo scambio è facilitato dall’ospitalità del popolo berbero … Penso in particolare allo spuntino di mezzogiorno offerto dai dipendenti musulmani del monastero: non possiamo evitarlo, dobbiamo andarci! (Ride). Ci piace, ovviamente, è un desiderio di condivisione. Questa è la carità: il desiderio di piacere a Dio, che ci chiede di essere buoni con gli altri. Durante la nostra quaresima, alcuni amici musulmani agiscono anche verso di noi come agirebbero tra di loro: ci offrono la loro zuppa del Ramadan.
Qui siamo quindi oranti tra oranti.
Il nostro ruolo di monaci, è principalmente quello di essere oranti. La nostra vita deve essere tutta una preghiera: è l’obiettivo della vita monastica. Gli antichi Padri del deserto, nei primi secoli, insistevano molto sulla purezza del cuore, quella disposizione permanente dell’essere proteso verso Dio, un traguardo che si raggiunge solo alla fine della vita. Per questo, ci esercitiamo nel corso della nostra giornata ad essere presenti a Dio. Questo è l’essenziale.
Assomiglia un po’ a questo ciò che fanno i musulmani: hanno cinque preghiere distribuite nella giornata, in momenti specifici. Noi ne abbiamo sette, dalle vigilie alla compieta. Lo scopo di questa distribuzione della preghiera è di santificare le altre ore del giorno: ci strappiamo dalle attività materiali per lodare e riempirci di Dio. Anche quella dei musulmani ha questo obbiettivo. Qui siamo quindi oranti tra questi oranti. Le persone tra le quali viviamo spesso ci danno questo esempio: qualunque cosa facciano nella loro giornata, la fanno nel nome di Dio – “Bismillah“, dicono. “
Cosa significa la frase “Monsignor Claverie e i suoi compagni”?
La causa di beatificazione dei martiri d’Algeria porta il nome di “Monsignor Claverie e i suoi compagni”. Il termine “compagno” ha attraversato la storia della Chiesa. “È la traduzione usuale, ricevuta dal latino socius (socii al plurale), che si riferisce al fatto che i missionari non sono di solito inviati da soli, ma sempre in gruppi di almeno due che si accompagnano (Marco 6, 7, Luca 10, 1),” ci spiega Jean Duchesne, membro dell’Osservatorio Fede e Cultura. Così, un gran numero di martiri non sono soli, ad esempio i santi Blandina e Potino “e i loro 46 compagni”, martiri del II° secolo a Lione. “La fede non è mai solitaria: è sempre trasmessa da altri, messaggeri di Dio, e porta frutto in quanto esige di non essere tenuta per sé ma condivisa, prima ancora che venga messa alla prova nel martirio”, dice Jean Duchesne. I martiri in Algeria non hanno vissuto da soli la loro chiamata, hanno dato la loro vita fino alla fine “in un unico corpo di membri di Cristo”.
Anne-Laure Filhol
Anne-Laure Filhol
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