Per approfondire la comprensione degli eventi recenti in Palestina, che hanno portato all’allontanamento di migliaia di civili palestinesi e alla distruzione delle loro case e infrastrutture, è indispensabile esaminare il passato, in particolare la Nakba. Questo termine, che in arabo significa “catastrofe”, descrive l’espulsione di circa 800.000 palestinesi da 500 città e villaggi, parte di un’ampia operazione di pulizia etnica della popolazione indigena palestinese tra la fine del 1947 e la metà del 1948.
Il trasferimento forzato di questa popolazione continuò per mesi, se non anni, dopo il termine ufficiale della Nakba, un evento che, in realtà, persiste ancora oggi. Le comunità palestinesi di Gerusalemme Est, delle colline meridionali di Hebron, del deserto del Naqab e di altre regioni vivono oggi le conseguenze delle politiche israeliane volte a consolidare la supremazia demografica ebraica. Inoltre, milioni di rifugiati rimangono privati della cittadinanza e dei diritti umani fondamentali.
La mia posizione non vuole essere una difesa ideologica delle persone coinvolte semplicemente perché sono palestinesi. Al contrario, è evidente che la leadership palestinese ha mostrato significative carenze e ha gestito in modo inadeguato il confronto con Israele, perdendo anche il sostegno di paesi vicini come Siria, Giordania ed Egitto, che inizialmente li avevano accolti. Per esempio, in Siria, Hamas ha scelto di supportare i golpisti sostenuti da Israele, dall’Occidente e dai paesi del Golfo.
Per comprendere la situazione attuale, è fondamentale riconoscere gli eventi storici che l’hanno preceduta. La presenza di Israele è stata resa possibile sin dall’inizio attraverso la deportazione della popolazione palestinese, un processo che si è protratto nel tempo.
Questo processo è avvenuto per fasi. Inizialmente, una parte della popolazione fu costretta a partire e, successivamente, vista la situazione sfavorevole e non allineata ai desideri e alle necessità di sicurezza di Israele, questa soluzione è oggi in fase di completamento. Questa situazione ha paralleli con quanto accaduto agli armeni, sebbene in maniera più devastante e cruenta.
Il “Piano di trasferimento” ha radici storiche profonde
I primi leader sionisti furono chiari riguardo ai loro piani di “trasferimento” per ottenere una “maggioranza ebraica” in Palestina. Yosef Weitz (1890-1972), noto come “l’architetto del trasferimento”, fu a capo di comitati che misero in atto piani sionisti di lunga data per espropriare i palestinesi dalle loro case, terre e attività commerciali. Il suo diario del 12 dicembre 1940 è illuminante: “Deve essere chiaro che nel paese non c’è spazio per entrambi i popoli… Se gli arabi se ne vanno, il paese diventerà vasto e spazioso per noi…. L’unica soluzione è una Terra di Israele… senza arabi. Qui non c’è spazio per i compromessi… Non c’è altro modo che trasferire gli arabi da qui ai paesi vicini, e trasferirli tutti, tranne forse [alcuni]”.
Weitz parlò anche di espandere i confini dello “Stato ebraico” per includere aree in Libano e Siria. In un incontro con Menachem Ussishkin (1863-1941), Weitz scrisse: “La terra di Israele non è affatto piccola, se solo gli arabi fossero allontanati e se le sue frontiere fossero ampliate un po’; a nord fino a Litani [fiume in Libano], e a est comprese le alture di Golan… mentre gli arabi [palestinesi] verranno trasferiti nel nord della Siria e in Iraq… D’ora in poi dobbiamo elaborare un piano segreto basato sull’allontanamento degli arabi [palestinesi] da qui… [E]… per includerlo nei circoli politici americani… oggi non abbiamo altra alternativa… Non vivremo qui con gli arabi”. ( Espulsione dei palestinesi , 134-135) , da CounterPunch
La strategia di Netanyahu e il sostegno israeliano
La maggior parte della popolazione israeliana sostiene le azioni di Netanyahu nella Striscia di Gaza perché comprende che sta perseguendo un obiettivo chiaro e condiviso: il controllo dell’intera area dal fiume Giordano al Mar Mediterraneo, in linea con le aspirazioni di espansione territoriale dei pionieri del sionismo.
È cruciale riconoscere che la strategia attuale non è una novità, ma si inserisce in un contesto storico di 75 anni, in linea con le ambizioni demografiche e territoriali che risalgono alla nascita dello stato ebraico.
L’uso di Hamas come pretesto per giustificare lo spostamento forzato della popolazione autoctona rivela l’attuazione di un antico desiderio sionista, una versione moderna del Piano Dalet, concepito nel 1948 come piano d’azione per una pulizia etnica.
Mentre il primo esodo è noto come Nakba, il piano per l’espulsione degli abitanti della Palestina è denominato “Piano Dalet”, come descritto dall’Institute for Middle East Understanding:
“Il Piano Dalet fu il progetto adottato dall’esercito israeliano per espellere i palestinesi dalla loro patria durante la fondazione di Israele nel 1948. Come evidenziato dallo storico israeliano Benny Morris nel suo libro fondamentale sugli eventi del 1948, il Piano Dalet era ‘un piano strategico-ideologico’ che servì da guida per le espulsioni a livello dei comandanti di fronte, distretto, brigate e battaglioni… Oggi, queste azioni di espulsione di massa sarebbero definite pulizia etnica.
Adottato ufficialmente il 10 marzo 1948, il Piano Dalet delineava le città e i villaggi palestinesi da colpire, fornendo istruzioni su come espellerne gli abitanti e distruggere le comunità. Prevedeva la ‘distruzione dei villaggi… in particolare quelli difficili da controllare continuamente… la popolazione doveva essere espulsa fuori dai confini dello Stato’.
Circa tre quarti di tutti i palestinesi, approssimativamente 750.000 persone, furono costretti a lasciare le proprie case, diventando rifugiati durante la fondazione di Israele. Le loro abitazioni, terre e altri beni furono sistematicamente distrutti o sequestrati dagli israeliani, che negarono loro il diritto al ritorno o qualsiasi forma di risarcimento. Più di 400 città e villaggi palestinesi, inclusi centri urbani fiorenti, furono distrutti o ripopolati con ebrei israeliani.” –
In conclusione, la storia della Palestina e di Israele è segnata da profonde cicatrici, radicate in decenni di conflitti, aspirazioni territoriali e strategie politiche che hanno profondamente influenzato la vita di milioni di persone. La Nakba non è solo un evento storico isolato, ma un capitolo doloroso che continua a riflettersi nelle politiche e nelle tensioni attuali. Il sostegno di una parte significativa della popolazione israeliana alle politiche di Netanyahu in Gaza rivela una complessa rete di convinzioni, desideri e paure che trascendono la semplice questione di sicurezza o di ideologia politica.
La comprensione di questi eventi richiede un’analisi attenta e imparziale della storia, riconoscendo le sofferenze e le ingiustizie subite da entrambe le parti. Solo attraverso il riconoscimento del passato e un impegno condiviso verso la giustizia, la pace e la coesistenza, sarà possibile intravedere un futuro libero da rancori prevaricazioni gli uni sugli altri, anche se certi errori stratificati avranno conseguenze per decenni..
Il cammino verso la pace è irto di sfide, ma è indispensabile per la stabilità della regione e il benessere delle future generazioni. La storia ci insegna che la violenza e la pulizia etnica non sono mai soluzioni sostenibili; solo attraverso il dialogo, la comprensione reciproca e il rispetto dei diritti umani di tutti sarà possibile costruire un futuro di pace e prosperità per tutti.
Ma tutto questo va oltre la comprensione umana e senza l’affidamento a Dio, queste derive con la cancellazione dell’altro, si ripeteranno inevitabilmente nella storia. Inoltre, è incoerente proclamarsi sostenitori di un ordine mondiale basato su regole, democrazia e diritti umani, e contemporaneamente far finta che Israele stia combattendo Hamas.