Gaza: un cessate il fuoco vuol dire possibilità di sopravvivere, ma rimane una condizione di stallo drammatico.

Uno sguardo più ampio sul Cessate il Fuoco a Gaza

Il cessate il fuoco appena raggiunto tra Israele e Hamas – che prevede una tregua iniziale di 42 giorni, la liberazione di 33 ostaggi israeliani (inclusi alcuni cittadini americani) e il rilascio di circa 2.000 detenuti palestinesi – rappresenta un passo necessario di fronte alla devastazione e alla sofferenza che hanno colpito la popolazione di Gaza, sottoposta a bombardamenti incessanti dal 7 ottobre 2023. Tuttavia, questa tregua sembra lontana dal poter risolvere un conflitto radicato da generazioni, alimentato da interessi geopolitici, divisioni ideologiche e responsabilità condivise che coinvolgono molteplici attori: dallo Stato di Israele alla leadership palestinese, fino alla comunità internazionale, incapace di trovare una soluzione duratura e giusta.

Il Contenuto dell’Accordo e le reazioni contrapposte

La cosiddetta “Struttura dell’Accordo” stabilisce che Hamas rilascerà, oltre ai civili israeliani, anche alcuni cittadini americani, mentre Israele dovrà scarcerare detenuti palestinesi, inclusi individui condannati per reati gravi e altri che non hanno mai avuto un processo formale. Contestualmente, è stato concordato un parziale ritiro delle forze israeliane dal nord di Gaza, dove si prevede il ritorno graduale dei civili.

Se da un lato Hamas definisce l’intesa una “vittoria storica” – con festeggiamenti che hanno suscitato forti polemiche sui social israeliani – dall’altro, alcuni politici di spicco in Israele, come il ministro delle Finanze Smotrich, contestano l’accordo per timore di ripercussioni sulla sicurezza. In mezzo a tali posizioni divergenti, le famiglie degli ostaggi israeliani sostengono con forza l’intesa, che potrebbe riportare a casa i propri cari.

Il Qatar si è impegnato in un ruolo di mediazione fondamentale, coadiuvato dagli Stati Uniti che, attraverso il presidente Biden, continuano a insistere sull’urgenza di affrontare le criticità umanitarie di Gaza. Tuttavia, la pressione più efficace verso Israele sembra essere stata esercitata dalla squadra di Trump e per l’intervento di Trump stesso. L’ONU, dal canto suo, ha annunciato un pacchetto di supporto umanitario da 100 milioni di dollari in medicinali e alimenti, pur con la preoccupazione che i rifornimenti possano essere bloccati in alcune zone chiave. Questo supporto è però molto eseguo, anche considerando le ingenti risorse stanziate per la parte militare a favore di Israele e dell’Ucraina da parte degli Stati Uniti.

L’Incancrenirsi del conflitto e lo Sguardo Oltre i Confini

E’ utile notare che se si guarda però all’intera area mediorientale, il conflitto israelo-palestinese non è l’unico nodo irrisolto. Paesi come l’Armenia (nella regione del Nagorno-Karabakh) o la vicina Siria vivono situazioni di altrettanta tensione, dove l’autodeterminazione e i diritti civili sono costantemente messi in discussione. È come se la regione fosse ostaggio di un più ampio schema di “divide et impera”, portato avanti nel tempo da molte potenze, le quali spesso preferiscono sfruttare le divisioni esistenti piuttosto che cercare soluzioni condivise.

In questo quadro, la leadership palestinese non è esente da responsabilità. Per decenni, l’approccio ideologico e intransigente ha impedito di trovare forme di mediazione più concrete, limitando la possibilità di una “liberazione” reale della Palestina. Allo stesso modo, Israele ha adottato strategie che, con la scusa della sicurezza, hanno creato profonde fratture territoriali e sociali all’interno della popolazione palestinese, relegandola in un regime di apartheid. Senza un ridisegno complessivo delle attuali rivendicazioni e una maggiore assunzione di responsabilità degli Stati Uniti, la stabilità rischia di rimanere precaria: ogni tregua rischia di essere solo una pausa in vista di nuove ostilità, visto l’accumularsi ed il perpetuarsi dell’odio da parte delle future generazioni.
In questo senso è emeblematico, che in questa devastazione , c’è chi dice di aver vinto e festeggia.

Prospettive future e ineludibile ricerca di soluzioni

La tregua di 42 giorni potrebbe portare un momentaneo sollievo a entrambe le parti, ma la vera sfida si giocherà nella fase successiva, al 16° giorno, quando dovranno riprendere i negoziati sulle questioni territoriali e sul futuro degli ostaggi rimasti. Gli scambi di prigionieri, asimmetrici nelle proporzioni (si parla di 9 ostaggi feriti in cambio di 110 prigionieri condannati, e di uno schema 1 a 31 per il rilascio di anziani maschi), illustrano l’estrema complessità morale e politica di questa fase.

Mentre migliaia di persone non possono ancora tornare in sicurezza nelle proprie case, diventa chiaro che un cessate il fuoco, di per sé, non esaurisce le fonti del conflitto. Senza riconsiderare tutta la regione e senza un intervento serio che affronti le aspettative e le esigenze reciproche, lo scontro resterà latente. Il rischio è che si ripiombi ancora una volta nella spirale di violenza , aggravando la situazione umanitaria e rendendo sempre più distante una risoluzione seria condivisa.

Ecco perché, alla luce delle tante aree di crisi nel mondo – dal Nagorno-Karabakh alla Siria – è sempre più evidente che un approccio frammentario e ideologico alle dispute mediorientali non farà che prolungare e aggravare le sofferenze. Gli sforzi di mediazione dovranno perciò andare ben oltre l’accordo momentaneo: sarà necessaria una rivalutazione complessiva dell’intera area, nella consapevolezza che solo una via diplomatica, certamente complessa e lunga, potrà scongiurare l’ennesimo ritorno all’uso delle armi e delle vendette.

Le tempistiche del cessate il fuoco lasciano perplessi. La tregua, infatti, entrerà in vigore domenica alle 12:15, ma fino a quel momento l’IDF continuerà le operazioni militari. I negoziati per le fasi successive prenderanno il via al 16° giorno, ma la prosecuzione della tregua resta incerta. Ma considerando la distruzione pressoché totale di interi settori abitativi, viene naturale chiedersi contro chi Israele stia realmente combattendo.

Se l’intento fosse realmente quello di esercitare il diritto alla legittima difesa, risulta difficile spiegare come ciò possa giustificare attacchi mirati contro basi, depositi, unità navali e risorse aeronautiche delle Forze Armate siriane, che non hanno intrapreso alcuna azione offensiva contro Israele. Secondo i fautori di tali azioni, esse sarebbero motivate da una presunta necessità “precauzionale”, volta a impedire che le armi dell’ex esercito siriano vengano utilizzate contro il territorio israeliano dai nuovi attori presenti in Siria. Tuttavia, questa giustificazione appare contraddittoria, poiché i “nuovi padroni” della Siria sono gli stessi la cui vittoria contro il governo legittimo siriano è stata apertamente sostenuta da Israele e dagli Stati Uniti.

Tale comportamento sollecita inevitabilmente interrogativi. E altrettante perplessità riguardano il ruolo dei mediatori internazionali.

Se questi continuano ad agire con la stessa mentalità e lo stesso modus operandi che hanno contribuito alla distruzione dell’Iraq, come possiamo sperare in soluzioni realmente eque? E se un’organizzazione ancora in attesa di essere rimossa dalla lista dei gruppi terroristici può aspirare a governare un paese come la Siria, quale credibilità possono avere questi presunti “costruttori di pace”?