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di Francesco Dalmazio Casini
Il 28 di dicembre avrà luogo a Marrakech la firma del trattato GCM(Global Compact for safe, orderly and regular migration), o “Patto di New York”, che si propone di essere una “pietra miliare” di un nuovo corso delle politiche migratorie mondiali. Il documento, che è il punto di arrivo di tre anni di consultazioni, si riallaccia alla Dichiarazione di New York per i Migranti e i Rifugiati(19 settembre 2016) e prevede(per il momento) anche la firma dell’Italia.
Gli obbiettivi del patto sono chiari. Nelle dieci disposizioni vincolanti per gli Stati firmatari si articola una chiara volontà di abbattere qualsiasi tipo di barriera che possa ostacolare i grandi flussi migratori; ed è dalla stessa pagina di apertura che traspare una visione “a priori” positiva di qualsivoglia forma di transito di persone e il loro successivo inserimento nella società che, volente o nolente, le dovrà ospitare: “La migrazione ha fatto parte dell’esperienza umana attraverso la storia e noi riconosciamo che è fonte di prosperità, innovazione e sviluppo sostenibile nel nostro mondo globalizzato e questi impatti positivi possono essere ottimizzati dal miglioramento della gestione migratoria”(Global Compact for safe, orderly and regular migration, pt8, pg2).
Insomma, diaspore e migrazioni sono liquidate come fenomeni esclusivamente benefici, basandosi su dei non meglio precisati precedenti storici. Ancor più interessante risulta il fatto che l’approccio, in questo come in altri punti, sia in primis di natura economico-produttiva e solo in seguito “umanitaria”, con l’obbiettivo di “supplire alle richieste del mercato del lavoro locale e nazionale”(pt21, comma C, pg11).
Sono completamente assenti nel testo i riferimenti relativi alla gestione e alla risoluzione dei “danni collaterali” delle migrazioni, quali la creazione dei quartieri ghetto come il Mollenbeck a Bruxelles, fratture etniche e culturali e scontri di natura religiosa; problemi che l’Europa ha imparato a conoscere bene, sulla propria pelle, negli ultimi quattro anni. La volontà di raggiungere l’integrazione dunque, nel patto GCM, non si realizza su un piano culturale-educativo ma semplicemente su quello lavorativo e produttivo.
Nel documento, tutto ciò che riguarda la gestione dell’immigrazione è trattato con dovizia di dettagli, e non fa eccezione l’informazione; gli Stati si devono infatti impegnare a “fornire a tutti cittadini l’accesso a informazioni obbiettive, prove fondate e chiare informazioni riguardo i benefici e le potenzialità dell’immigrazione”(pt10, pg3). Un altro punto, in sostanza, che non accetta dibattito, come specifica la frase seguente, “al fine di dissipare narrazioni fuorvianti che generano percezioni negative riguardo i migranti”. Il trattato, in questi punti, come altrove, sembra spesso assumere toni propagandistici più che quelli di un documento ufficiale.
Procedendo nella lettura sono elencati i motivi per cui la detenzione deve essere l’ultimo delle misure adottate nei confronti dei migranti(clandestini o no), senza escludere una rivisitazione delle legislazione in termini di gestione dell’ordine pubblico(Obj13, comma C, pg21) e severi inasprimenti nella repressione delle discriminazioni(Obj17, comma A, pg24). Gli Stati dovranno inoltre fare in modo di snellire i processi di naturalizzazione per fare in modo di integrare più rapidamente i migranti nella compagine lavorativa.
Delle prerogative che, in sostanza, viaggiano in direzione opposta rispetto all’agenda politica di molti dei paesi europei(oltre che degli USA), tra cui l’Italia stessa. E’ bene precisare, infatti, che la firma preliminare del settembre 2017 è stata opera del Governo Gentiloni. Responsi negativi non sono mancati, da Budapest a Washington: se l’ambasciatrice statunitense Nikky Haley non ha esitato a ritirare gli USA dal trattato, altrettanto ha fatto il ministro ungherese Pèter Szijàrtò, mentre di pochi giorni fa sono le dichiarazioni del cancelliere austriaco Kurz, che escludono definitivamente l’Austria dalla sottoscrizione del documento(nella stessa direzione le dichiarazioni di Polonia e Bulgaria). Dubbi sulla reale utilità del GCM sono stati espressi da Australia e Croazia.
Sono due gli aspetti del trattato che hanno sollevato le critiche più aspre da parte dei leader europei: il primo è che il testo non considera alcuna distinzione tra rifugiati, migranti economici o clandestini, cui sostituisce il più generico termine “migrante”, mentre il secondo riguarda il fatto che le deposizioni, essendo vincolanti, oltrepassano di fatto la sovranità dei singoli paesi.
In merito alla posizione dell’Italia non sono state fatte dichiarazioni ufficiali; se di fatto il Bel Paese figura ancora nei firmatari del trattato, il documento è in forte contrasto con la linea dura in termini di immigrazione del governo giallo-verde. Non è da dimenticare inoltre, che non più di due mesi fa, la linea Salvini è stata duramente attaccata dal Commissario ONU per i diritti umani, Michelle Bachelet, cui era seguita una risposta forte del Vicepremier, che aveva definito l’Organizzazione delle Nazioni Unite come “prevenuta, inutilmente costosa e disinformata”. In sostanza, un precedente che non lascia presagire una serena adesione dell’Italia al Global Compact.
Quali che saranno le sorti del patto, duramente biasimato fin dalle fasi preliminari, una sua eventuale approvazione potrebbe rappresentare un punto di svolta nella gestione delle migrazioni ed è proprio per questo che risulta strano lo scarso interesse che questo ha destato nei grandi media, nonostante la firma definitiva sia ormai fissata a tra poco più di un mese. Certo è che la firma di un documento volto ad implementare il fenomeno migratorio cozza con la situazione attuale di un’Europa che -c’è da dire a furor di popolo- chiude porti e alza muri alle frontiere dall’Italia, all’Austria all’Ungheria
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