L’inusitata vicenda che coinvolge i giornalisti della RAI, Stefania Battistini e Simone Traini, solleva gravi interrogativi sulla gestione dell’informazione sulla guerra in Ucraina, ed ora nell’invasione di Kiev nella regione russa di Kursk (vedi qui: link). La missione dei giornalisti che sembra serva più a rilanciare l’immagine dell’establishment ucraino che ad informare equamente, evidenzia anche una problematica più ampia riguardante il ruolo del servizio pubblico, finanziato da tutti i cittadini italiani. La RAI, infatti, pare sempre più orientata verso una narrazione univoca e propagandistica del conflitto, in cui le voci discordanti vengono immediatamente etichettate come disinformazione o, peggio, stigmatizzate come “putiniane”. Questa tendenza confligge con l’asserita pluralità dell’informazione e sul rispetto del diritto dei cittadini a un’informazione equilibrata e imparziale.
I giornalisti sono accusati dalle autorità russe di aver attraversato illegalmente il confine e di aver realizzato un reportage dalla città di Sudzha, attualmente sotto il controllo delle truppe ucraine. Ma oltre all’aspetto legale, è il contesto politico e morale della vicenda che merita un’analisi critica.
Innanzitutto, il comportamento dei giornalisti RAI appare irresponsabile e decisamente incauto, per usare un eufemismo. Attraversare un confine internazionale senza il necessario permesso, soprattutto in una zona di guerra, non solo mette a rischio la loro sicurezza, ma compromette gravemente la neutralità e la credibilità del giornalismo. La scelta di accompagnare le forze ucraine in una missione di questo tipo, entrando in territorio russo, e precisamente nella regione di Kursk, dove ottant’anni fa si svolse una delle più sanguinose battaglie durante l’invasione nazista, assume agli occhi della Russia un significato profondamente provocatorio. Questa azione, infatti, può essere vista come una replica di quella stessa invasione, amplificando ulteriormente la tensione e con certe ripercussioni diplomatiche tra Italia e Russia.
La giustificazione fornita dalla RAI, secondo cui i giornalisti si trovavano in Ucraina e non in Russia, non regge di fronte all’evidenza. I reportage sono stati chiaramente girati a Sudzha, come confermato dagli stessi autori, che hanno descritto la situazione in loco e mostrato attrezzature militari danneggiate. La difesa della RAI, quindi, appare non solo debole, ma addirittura controproducente, aggravando la gravità dell’accusa e sollevando dubbi sull’efficacia dei meccanismi di controllo e supervisione all’interno dell’ente pubblico.
L’intervento del Ministero degli Interni russo, che intende aprire un procedimento penale contro i giornalisti, sottolinea la serietà della situazione. Questo caso non può essere liquidato come un semplice incidente di percorso, ma deve essere visto nel contesto delle tensioni geopolitiche attuali. Il fatto che un popolare canale Telegram russo abbia addirittura invocato la violenza contro i corrispondenti esteri, definendoli “combattenti” che meritano la morte, dimostra quanto sia pericoloso e incendiario questo tipo di giornalismo.
In conclusione, il comportamento dei giornalisti italiani della RAI in questa vicenda è manifestatamente di parte e potenzialmente dannoso su più fronti. È fondamentale che la RAI prenda una posizione chiara e responsabile, rivedendo le proprie procedure e garantendo che situazioni simili non si ripetano in futuro. Il giornalismo, soprattutto in tempi di conflitto, deve mantenere un equilibrio delicato tra la ricerca della verità e il rispetto delle leggi e delle sensibilità geopolitiche, altrimenti rischia di diventare un’arma nelle mani delle parti in conflitto, con conseguenze disastrose come in effetti si vanno accumulando.