Giovanni Paolo II in Fides et Ratio: “al momento attuale, la ricerca della verità ultima sembra spesso trascurata”. L’esito è uno “scetticismo diffuso” che diventa nichilismo.

Oggi ricorre il 21° anniversario della promulgazione dell’enciclica Fides et Ratio. Lo vogliamo ricordare con un saggio del prof. Joseph G. Trabbic, professore associato di filosofia all’Università di Ave Maria ed assistente redattore di Thomistica.net, un sito web per lo studio accademico di San Tommaso d’Aquino, pubblicato su The Catholic World Report. Il professor Trabbic ha conseguito il dottorato di ricerca presso la Fordham University nel 2008.

Ecco il saggio nella  traduzione dal blog di Sabino Paciolla. 

 

Il 14 settembre 1998 Papa Giovanni Paolo II ha promulgato la sua tredicesima enciclica, Fides et ratio. Come suggerisce il mio titolo (Fides et ratio: Un’enciclica ancora più rilevante oggi di quanto non lo fosse nel 1998, ndr), nell’enciclica il Papa discute il bisogno della Chiesa per la Filosofia, che egli interpreta secondo la sua etimologia greca come “amore della sapienza”. Poiché vede la filosofia come l’amore della sapienza, la vede anche come amore della verità, in particolare la verità sulle cose che contano (o dovrebbero contare) di più per noi, verità ultime sulla nostra origine e sul nostro destino di persone umane. È con queste verità che la filosofia si occupa soprattutto di se stessa.

La Chiesa, naturalmente, è anche profondamente interessata e coinvolta in queste verità. Dopo tutto, la sua missione primaria è quella di attirare l’umanità verso il Dio trinitario rivelato in Gesù Cristo e di essere così la via della salvezza. Il Dio rivelato in Gesù Cristo è il nostro Alfa e Omega; egli è il principio come nostro Creatore e Redentore (in quanto le persone umane hanno un inizio naturale e soprannaturale), e il termine ultimo come la vera felicità a cui aspiriamo (la visione beatifica).

Sebbene la filosofia, come naturale abitudine naturale della ragione, non possa dimostrare che ci relazioniamo con il Dio cristiano nei modi sopra citati – che va oltre la sua competenza in ciò che è proprio della fede – essa può mostrarci che le affermazioni cristiane sulle verità ultime dell’esistenza umana sono le più ragionevoli. Su questo e altri temi, che tratterò più avanti, Giovanni Paolo II vede la filosofia, tra tutte le discipline umane, come l’alleato più importante della teologia.

La decisione del Santo Padre di fare della filosofia il tema centrale di un’enciclica è stata motivata dalle preoccupazioni per una crescente minaccia alle verità ultime – o, più precisamente, al loro perseguimento e riconoscimento – che egli percepiva nella cultura contemporanea. Riflettendo sulla filosofia, ci dice, sta seguendo l’esempio dei suoi predecessori, e giudica “necessario” farlo ora perché “al momento attuale, in particolare, la ricerca della verità ultima sembra spesso trascurata” (5). Il Papa osserva che la situazione contemporanea è l’eredità delle filosofie moderne che “più che avvalersi della ragione umana per conoscere la verità”, hanno “preferito accentuare i modi in cui questa capacità è limitata e condizionata” (5). Da questa mossa, spiega, “Ne sono derivate varie forme di agnosticismo e di relativismo, che hanno portato la ricerca filosofica a smarrirsi nelle sabbie mobili di un generale scetticismo” (5). E a questa raccolta di tendenze sfortunate si aggiungerà poi il nichilismo (46, 81, 90-91).

Come filosofo di professione, e che lavora nel pensiero moderno e contemporaneo, posso dire che le osservazioni del Papa qui non sono affatto fuori luogo. Aggiungerei comunque, e sono sicuro che non avrebbe problemi a concederlo, che alcuni filosofi applicherebbero etichette diverse ai fenomeni che nomina e giudicherebbero positivamente, e come progresso, ciò che lui giudica negativamente, e come declino. Tanto per fare un esempio, l’influente filosofo italiano contemporaneo Gianni Vattimo, sostenitore del cosiddetto “pensiero debole”, ha certamente una visione della situazione attuale molto diversa da quella del Papa.

 

Prima di Fides et ratio

 

Giovanni Paolo II ci dice, come ho appena detto, che nel parlare di filosofia sta facendo qualcosa che anche i suoi predecessori hanno fatto. Molti documenti papali precedenti si sono occupati di filosofia, così come molti documenti conciliari e documenti di congregazioni romane. Questo non è il posto per cercare di essere esaustivi. Ma vale la pena di notare l’esistenza di questa letteratura magisteriale, se non altro per sottolineare che la Fides et ratio non è senza precedenti nel fare della filosofia un tema.

Tra i maggiori interventi magisteriali rilevanti del secolo e mezzo scorso, possiamo citarne tre: la costituzione dogmatica sulla fede cattolica del Concilio Vaticano I, Dei Filius (1870), che ha alcune cose importanti da dire sulla nostra conoscenza naturale di Dio; l’enciclica di Leone XIII, Aeterni Patris (1879), che propone la filosofia di San Tommaso come guida essenziale per i pensatori cattolici e le istituzioni accademiche; e l’Humani generis di Pio XII (1950), che, tra l’altro, individua alcune correnti filosofiche problematiche dell’epoca e incoraggia i pensatori cattolici a formare le loro menti secondo la “sana philosophia” (sana philosophia) “tramandata da epoche cristiane precedenti” e accettata dallo “stesso magistero della Chiesa” che l’ha “giudicata secondo i criteri della rivelazione divina” (29).

Dei Filius, Aeterni Patris e Humani generis sono tutti citati e ripresi da Giovanni Paolo II nella Fides et ratio. Ma in termini di intenzione e strategia, si potrebbe sostenere che la Fides et ratio si avvicina di più alla Humani generis. In entrambi c’è la preoccupazione, da un lato, di mirare a filosofie errate e, dall’altro, di suggerire la giusta via filosofica per il futuro. Non voglio, tuttavia, dare troppo peso alla somiglianza, perché ci sono anche differenze significative, e un confronto più adeguato delle due encicliche è un progetto da perseguire altrove.

 

La natura della filosofia

 

Vorrei discutere alcuni degli argomenti chiave di Fides et ratio e considerare e rispondere – in via preliminare – ad alcune delle critiche all’insegnamento del Papa. Il primo tema è la natura della filosofia. Senza comprendere come Giovanni Paolo II concepisce la filosofia, l’enciclica è incomprensibile. Ho già fatto alcuni commenti su come la filosofia è intesa nella Fides et ratio. Come amore della sapienza, la filosofia persegue le verità ultime e cerca di vedere la realtà alla luce di queste verità. Ecco le parole del Santo Padre:

Molteplici sono le risorse che l’uomo possiede per promuovere il progresso nella conoscenza della verità, così da rendere la propria esistenza sempre più umana. Tra queste emerge la filosofia, che contribuisce direttamente a porre la domanda circa il senso della vita e ad abbozzarne la risposta: essa, pertanto, si configura come uno dei compiti più nobili dell’umanità. Il termine filosofia, secondo l’etimologia greca, significa « amore per la saggezza ». Di fatto, la filosofia è nata e si è sviluppata nel momento in cui l’uomo ha iniziato a interrogarsi sul perché delle cose e sul loro fine. In modi e forme differenti, essa mostra che il desiderio di verità appartiene alla stessa natura dell’uomo. E una proprietà nativa della sua ragione interrogarsi sul perché delle cose, anche se le risposte via via date si inseriscono in un orizzonte che rende evidente la complementarità delle differenti culture in cui l’uomo vive. (3)

Sebbene il Papa consideri la filosofia in parte come una ricerca di verità ultime, non dobbiamo trascurare il fatto che egli insegna anche, come vediamo in questo testo, che la filosofia può generare conoscenza e trovare risposte. Per questo egli rifiuta lo scetticismo e il nichilismo. Del nichilismo scrive che “ha una certa attrazione per gli uomini del nostro tempo”. E prosegue:

I suoi seguaci teorizzano la ricerca come fine a se stessa, senza speranza né possibilità alcuna di raggiungere la meta della verità. Nell’interpretazione nichilista, l’esistenza è solo un’opportunità per sensazioni ed esperienze in cui l’effimero ha il primato. Il nichilismo è all’origine di quella diffusa mentalità secondo cui non si deve assumere più nessun impegno definitivo, perché tutto è fugace e provvisorio. (46)

Evidentemente, il nichilismo è antitetico alla vita cristiana, che richiede impegni irrevocabili, prima nel battesimo ma poi anche nel matrimonio e negli ordini sacri. Se non possiamo dimostrare che la verità è raggiungibile – compito che riguarda la filosofia – allora queste domande della vita cristiana verrebbero giustamente liquidate come irrazionali.

Il teologo anglicano di Oxford John Webster lamenta che il punto di vista della filosofia offerto in Fides et ratio è “a-storico….esso tiene in scarsa considerazione le strutture di pensiero politiche, sociali e culturali, separando il lavoro filosofico da particolari progetti, domande e attività umane”. Webster ci dice che “ciò che l’enciclica ha in mente non è la filosofia come pratica, ma la filosofia come una grande teoria unificata della realtà”. Certo, la filosofia, come ogni pratica umana, emerge in specifici contesti storici. Ma non ne consegue, come sembra supporre Webster, che in questa pratica non possiamo identificare una natura definita, universale, così come in altre azioni umane. Posso riconoscere che certe azioni contano come il mangiare o leggere o fare matematica, ecc. Perché dovrebbe essere diverso con la filosofia? Webster non lo dice e non sono a conoscenza di una buona ragione per pensare che la filosofia dovrebbe essere l’eccezione. In altre parole, non credo che Giovanni Paolo II abbia torto a prendere la filosofia per avere una natura che ci permetta di identificarla e ri-identificarla in diversi contesti storici.

Gianni Vattimo, cui ho accennato prima, suggerisce che Fides et ratio difenda una visione “violenta”, o comunque fuorviante, della filosofia. È fuorviante, pensa Vattimo, perché si aggrappa all’idea che ci sono verità finali oggettive e stabili, cioè modi oggettivi e stabili che riguardano il nostro essere e il mondo. Insieme a Nietzsche, Vattimo sostiene che la “realtà” non è altro che la nostra interpretazione di essa e che questa interpretazione è in continuo cambiamento. Vattimo è disposto anche a dire che questa affermazione sulla realtà è di per sé solo un’interpretazione. Sempre prendendo in prestito da Nietzsche, egli chiama questa comprensione delle cose “nichilismo completo” (nichilismo compiuto). Presumibilmente, però, Vattimo dovrebbe ammettere che ci sono interpretazioni, cioè, che hanno un essere. Ma se hanno l’essere, non sarebbero così soggetti alle “leggi” dell’essere, come la non-contraddizione? Se Vattimo lo ammette, allora deve anche ammettere che la realtà non è interpretazione fino in fondo. Se non lo fa, ed è disposto a buttare via cose come la non-contraddizione, non sono sicuro che abbia molto senso prendere sul serio le sue opinioni.

 

L’autonomia della filosofia

 

Un secondo tema chiave di Fides et ratio è l’autonomia della filosofia. Ho spiegato sopra che Giovanni Paolo II vede la filosofia, tra tutte le discipline umane, come il più importante alleato della teologia. I teologi medievali si riferivano alla filosofia come l’ancilla theologiae, la “serva della teologia”. Ne parlerò ancora tra un attimo. Per ora voglio osservare che nonostante il servizio che la filosofia può e deve rendere alla teologia, il Papa insiste sul fatto che anche la filosofia ha una certa autonomia. Che cosa intende con questo e perché insiste su di questa cosa? Passiamo al seguente testo:

Persino quando si occupa di teologia, la filosofia deve rimanere fedele ai propri principi e metodi. Altrimenti non ci sarebbe alcuna garanzia di rimanere orientata alla verità e di muoversi verso la verità attraverso un processo governato dalla ragione. Una filosofia che non procedesse alla luce della ragione secondo i propri principi e metodi non servirebbe a molto. A livello più profondo, l’autonomia di cui gode la filosofia è radicata nel fatto che la ragione è per sua natura orientata alla verità ed è inoltre dotata dei mezzi necessari per arrivare alla verità.

La ragione è il nostro naturale potere per conoscere la verità. Anche se, come il resto della nostra natura, è stata ferita dal peccato, [ma] non è stata distrutta. Questo significa che possiamo ancora raggiungere da soli le verità naturalmente conoscibili (a differenza delle verità che possiamo conoscere solo attraverso una rivelazione soprannaturale), e questo include le verità ultime, anche se queste richiedono molto più sforzo. La filosofia, quindi, può ancora fare molto con le proprie luci. Se la filosofia non potesse farlo, non avremmo un modo indipendente dalla rivelazione per accertare la ragionevolezza delle affermazioni centrali del cristianesimo. Abbracciare la fede cristiana sarebbe, in tal caso, veramente un salto alla cieca.

Di conseguenza, non solo la filosofia è autonoma nel senso che ho appena esposto, ma è importante per il cristianesimo che sia così.

Eppure Richard Bernstein, filosofo americano e professore alla New School for Social Research di New York (il cui eccellente seminario su Gadamer ho avuto modo di studiare molti anni fa come studente laureato), nutre dubbi sulla sincerità del Papa nel sostenere l’autonomia della filosofia. Bernstein ha un paio di ragioni per questi dubbi. Da un lato, egli pensa che, affermando, come fa lui, che ci sono alcune verità di base che sono, in un certo senso, conosciute da tutti i popoli e costituiscono una sorta di “filosofia implicita” (philosophia implicita), Giovanni Paolo II sta limitando perentoriamente la libera indagine filosofica. “Se si vuole essere fedeli allo spirito dell’autonomia della filosofia”, scrive Bernstein, “allora bisogna riconoscere che queste presunte verità sono ancora razionalmente dibattute dai filosofi”. Quali verità ha in mente il Papa? Egli elenca le leggi della non contraddizione, della finalità e della causalità, il concetto di persona come soggetto libero e intelligente con la capacità di conoscere Dio, verità e bontà, e “alcune norme morali fondamentali” (4). Queste verità si dice che siano conosciute da tutti “in modo generale e non riflessivo” (sub forma omnino universali neque conscia).

Senza dubbio molti filosofi contesterebbero le affermazioni del Papa su queste verità e lui ne è ben consapevole. Ma da nessuna parte dice che le persone devono accettare le sue affermazioni….. oppure no! Anche se insegnasse che il rifiuto di queste affermazioni è incoerente con la fede cattolica (e credo sia vero), sarebbe il primo a dire che nessuno può essere costretto ad adottare questa fede. Come spiega in Redemptoris missio: “La Chiesa propone; non impone nulla. Essa rispetta gli individui e le culture, e onora il santuario della coscienza” (39).

Un secondo motivo per cui Bernstein mette in discussione la sincerità di Giovanni Paolo II in ciò che dice sull’autonomia della filosofia ha a che fare con la discussione del Papa nell’enciclica della nostra ricerca di un “assoluto”. Questo è il passaggio che preoccupa Bernstein:

l’uomo cerca un assoluto che sia capace di dare risposta e senso a tutta la sua ricerca: qualcosa di ultimo, che si ponga come fondamento di ogni cosa. In altre parole, egli cerca una spiegazione definitiva, un valore supremo, oltre il quale non vi siano né vi possano essere interrogativi o rimandi ulteriori. Le ipotesi possono affascinare, ma non soddisfano. Viene per tutti il momento in cui, lo si ammetta o no, si ha bisogno di ancorare la propria esistenza ad una verità riconosciuta come definitiva, che dia certezza non più sottoposta al dubbio. (27)

Commentando queste osservazioni, Bernstein ci dice che “diversi filosofi hanno messo in discussione l’idea stessa di una verità così assoluta e definitiva”. Egli è attento a chiarire che i “migliori” di questi filosofi non sostengono che il relativismo “va bene” come alternativa all’assoluto. Sottolineano invece che le conclusioni a cui siamo ragionevolmente giunti possono essere sempre riviste.

In ogni caso, Bernstein sospetta ancora una volta che il Papa stia cercando di chiudere l’indagine filosofica e che quindi stia minacciando l’autonomia filosofica che ci dice di sostenere. In risposta, posso solo ripetere quanto ho già detto. Giovanni Paolo II si limita a proporre, non a imporre.

 

Filosofia ancilla theologiae

 

C’è molto che la filosofia possa fare per aiutare nel progetto di teologia. La teologia è essenzialmente, per usare la ben nota formula di Sant’Anselmo, fides quaerens intellectum, “la fede richiede l’intelletto”. Lo scopo della teologia è quello di comprendere il contenuto della rivelazione. Quindi, non abbandona la ragione ma la utilizza in un contesto nuovo, un contesto che arriva alla ragione come dono. A causa della sua enfasi sull’autonomia della filosofia, il Papa esprime qualche esitazione nel parlarne come ancilla theologiae ma, tuttavia, riconosce che le connotazioni del termine tradizionale non devono essere negative.

Nell’enciclica esplora una serie di modi diversi riguardo il fatto che la filosofia aiuta la teologia, ma ora non posso entrare in ciascuno di essi. Ho già accennato a come la filosofia possa mostrare la ragionevolezza di affermazioni teologiche che superano la capacità dimostrativa della ragione. Il Papa sottolinea anche il ruolo della filosofia nell’aiutare la teologia ad articolare l’universalità delle verità rivelate. La filosofia, per sua natura, non si ferma al particolare ma spinge verso l’universale e il trascendente. Questo è il caso soprattutto della divisione con la filosofia che chiamiamo metafisica. L’importanza del contributo della metafisica alla teologia, come il Papa la vede, è difficile da sottovalutare.

La parola di Dio si riferisce costantemente a cose che trascendono l’esperienza umana e persino il pensiero umano; ma questo “mistero” non poteva essere rivelato, né la teologia poteva renderlo in qualche modo intelligibile, fosse la conoscenza umana limitata strettamente al mondo dell’esperienza dei sensi. La metafisica svolge quindi un ruolo essenziale di mediazione nella ricerca teologica. Una teologia senza orizzonte metafisico non potrebbe andare oltre l’analisi dell’esperienza religiosa, né permetterebbe all‘intellectus fidei di dare un resoconto coerente del valore universale e trascendente della verità rivelata.

Non tutti, ovviamente, condividono l’apprezzamento del Santo Padre per l’uso della metafisica in teologia. Per tornare a John Webster, egli sostiene che “la ricerca di concetti critici e universalmente comunicabili” per articolare il contenuto della rivelazione non è una questione innocente e continua dicendo che la traduzione dell’azione divina della creazione nel linguaggio della causalità “ha gettato i semi del declino della dottrina nella marginalità e, anzi, nella quasi incomprensibilità”. Purtroppo, Webster non fa nulla per sostenere questa tesi. Ma dubito che potrebbe comunque farlo. A meno che non sia disposto a negare una realtà che trascende il mondo fisico – e, da quello che so del lavoro di Webster, non lo è – allora sarebbe difficile per lui rifiutare la metafisica in linea di principio. Il problema, quindi, si ridurrebbe forse a una mera questione di apprendimento dei concetti e del linguaggio della metafisica. Naturalmente, i concetti e il linguaggio di qualsiasi disciplina con cui non abbiamo esperienza ci sembreranno inizialmente incomprensibili. Ma questo non significa che non possano essere appresi.

 

Fides et ratio oggi

 

Le correnti filosofiche che hanno turbato Giovanni Paolo II oltre vent’anni fa e che lo hanno spinto a scrivere Fides et ratio non sono scomparse. Semmai, sono diventate più importanti. A questo proposito, potremmo dire che l’enciclica è oggi ancora più attuale di quanto non lo fosse nel 1998.

Tuttavia, come spero di aver chiarito, Fides et ratio non era solo un monito contro gli errori. Riflettendo anche sui modi positivi in cui la filosofia e la teologia dovrebbero lavorare insieme, Giovanni Paolo II ha voluto rivitalizzare la filosofia e la teologia cattolica. Ma perché questo avvenga dobbiamo prendere a cuore il suo messaggio. In questo anniversario della promulgazione di Fides et ratio invito tutti i filosofi e teologi cattolici a fare proprio questo.

[Nota dell’editore: questo saggio è stato originariamente pubblicato il 14 settembre 2018, in occasione del ventesimo anniversario di Fides et ratio, ed è stato ripubblicato con piccole modifiche.)

Note finali:

Non sto dicendo che la filosofia non possa provare definitivamente che abbiamo un Creatore divino o che la nostra felicità sta in lui. Quello che dico è che la filosofia non può dimostrare in modo formale che questa divinità è il Dio cristiano.

L’articolo Giovanni Paolo II in Fides et Ratio: “al momento attuale, la ricerca della verità ultima sembra spesso trascurata”. L’esito è uno “scetticismo diffuso” che diventa nichilismo. proviene da Il blog di Sabino Paciolla.

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