Gli innominabili (“noi cristiani”)

Tutti anglisti sulla rete, da un paio di giorni. E così anche noi poveretti abbiamo imparato quanto corretta, appropriata ed elegante sia la denominazione di Easter worshippers scelta all’unisono da Obama, da Hillary Clinton e da altri della stessa risma per indicare i cristiani uccisi negli attentati avvenuti il giorno di Pasqua in Sri Lanka.

Resta il fatto che quella preziosa perifrasi è stata adottata appunto per non dire la parola «cristiani». Perché poveretti sì, lo saremo, ma completamente scemi no.

La questione dei nomi è sempre stata importante per noi cristiani. Il libro degli Atti degli apostoli, che è un po’ la Magna Charta della chiesa, si premura di registrare, come un fatto importante di cui non si deve assolutamente perdere la memoria, quando e dove «per la prima volta i discepoli sono stati chiamati cristiani» (At 11,26). Fu ad Antiochia, probabilmente tra la fine degli anni trenta e l’inizio degli anni quaranta del I secolo. E non si trattò verosimilmente di un’autodesignazione, ma di un nome attribuito dall’esterno: cristiani, cioè “quelli di Cristo” (considerato come un nome proprio), così come cesariani o pompeiani voleva dire, nel linguaggio politico corrente, “quelli di Cesare” e “quelli di Pompeo”. Si avverte, nel calco della parola, qualcosa di rozzo e un po’ semplicistico. È significativo, a questo proposito, che tale denominazione in tutto il libro degli Atti ricorra solo qui e a 26,28, dove non a caso a pronunciarla è un non cristiano come il re Agrippa.

«Cristiani»: sarà anche una definizione un po’ rozza, ma è efficace, perché va subito al sodo. “Quelli di Cristo”: è esattamente ciò che siamo, (o che vorremmo essere). Quando siamo riconoscibili, è così che agli altri viene spontaneo  chiamarci. Se non lo fanno, i casi sono due: o non lo vogliono fare perché non vogliono che noi esistiamo, oppure non possono farlo perché non si accorgono che ci siamo o non ci riconoscono come cristiani. Nel primo caso sono in malafede, ed è colpa loro. Nel secondo, è colpa nostra.

Nel IV secolo, l’imperatore Giuliano, che è stato in un certo senso il primo ex cristiano (o post-cristiano) di cui la storia faccia menzione, e che non è carino chiamare “l’apostata” come faceva Gregorio Nazianzeno (ma che tale tecnicamente era), si rifiutò sistematicamente di usare il termine “cristiani” per designare i suoi ex correligionari e li definì sempre e solo come «galilei», una denominazione molto ben pensata, dal suo punto di vista, perché li confinava irrimediabilmente ad una dimensione etnica, e per giunta periferica e squalificante, che ridicolizzava le loro ambizioni “ecumeniche”. Sapeva quel che faceva, e conosceva i suoi nemici.

Nel XXI secolo, “cristiani” sta rapidamente tornando ad essere un termine sconveniente, imbarazzante, da evitare tra persone civili e moderne, da non pronunciare nell’agorà. La nostra resistenza all’odio del mondo, quindi, passa anche per la rivendicazione di un nome, che forse ci hanno dato gli altri, ma che adesso è nostro.

«Noi cristiani …» sia dunque sempre più spesso il soggetto – grammaticale o logico, esplicito o implicito – di tutti i nostri enunciati nello spazio pubblico.

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