La strategia della “terra bruciata” indusse migliaia di famiglie indigene a fuggire verso la Tunisia, l’Algeria, il Ciad e l’Egitto.
Nel 1928 anche la piccola oasi di Gife, situata tra la costa mediterranea a sud di Nufilia e la catena dei monti Harugi fu distrutta da bombe italiane, alcune delle quali caricate a gas. Ciò costituiva una aperta violazione del diritto internazionale in quanto l’Italia fascista aveva firmato a Ginevra, il 17 giugno 1925, con altri 25 Paesi, il “Protocollo per la proibizione di gas asfissianti, tossici o di altri gas, e degli strumenti di guerra
batteriologici”. La distruzione di Gife venne raccontata nelle memorie di guerra di Vincenzo Biani, un volume che riscosse gli elogi di Italo Balbo: «Una spedizione di otto apparecchi fu inviata su Gifa, località imprecisata dalle carte a nostra disposizione, che erano dei semplici schizzi ricavati da informazioni degli indigeni; importante però per una vasta conca, ricoperta di pascolo e provvista di acqua in abbondanza. Ma senza oasi e senza case: un punto nel deserto. Fu rintracciata perché gli equipaggi, navigando a pochi metri da terra, poterono seguire le piste dei fuggiaschi e trovarono finalmente sotto di sé un formicolio di genti in fermento; uomini, donne, cammelli, greggi; con quella promiscuità tumultuante che si riscontra solo nelle masse sotto l’incubo di un cataclisma; una moltitudine che non aveva forma, come lo spavento e la disperazione di cui era preda; e su di essa piovve, con gettate di acciaio rovente, la punizione che meritava. Quando le bombe furono esaurite, gli aeroplani scesero più bassi per provare le mitragliatrici. Funzionavano benissimo. Nessuno voleva essere il primo ad andarsene, perché ognuno aveva preso gusto a quel gioco nuovo e divertentissimo. E quando finalmente rientrammo a Sirte, il battesimo del fuoco fu festeggiato con parecchie bottiglie di spumante, mentre si preparavano gli apparecchi per un’altra spedizione. Ci si dava il cambio nelle diverse missioni. Alcuni andavano in ricognizione portandosi sempre un po’di bombe con le quali davano un primo regalo ai ribelli scoperti, e poi il resto arrivava poche ore dopo. In tutto il vasto territorio compreso tra El Machina, Nufilia e Gifa i più fortunati furono gli sciacalli che trovarono pasti abbondanti alla loro fame».
Ma nonostante i massicci bombardamenti la guerriglia senussita, equipaggiata di armi dall’Egitto, continuava a creare seri problemi al regio esercito. Per dare una svolta alla “pacificazione” il 18 dicembre 1928 Badoglio venne nominato governatore delle due province della Tripolitania e della Cirenaica, quindi, il 21 gennaio 1929, “governatore unico” di entrambe. Nel contempo, come da lui richiesto, il maresciallo conservava anche la carica di capo di stato maggiore generale.
Sbarcato in Tripolitania, Badoglio si mise subito al lavoro per completare la riconquista della provincia. Tra i suoi primi provvedimenti un bando che garantiva l’amnistia ai ribelli che si fossero arresi e la minaccia di morte ai recidivi. Tra l’estate del 1929 e il gennaio del 1930, grazie anche alle colonne di Graziani, furono occupate tutte le oasi del Fezzan mentre gruppi di armati arabi sconfinarono in territorio francese. Ormai la Tripolitania era completamente conquistata, con le tribù nomadi decimate dai bombardamenti e dalla fame.
Diversa, invece, la situazione in Cirenaica dove i guerriglieri senussiti, grazie a una efficiente organizzazione, dominano ancora il Gebel, l’altopiano centrale della regione.
I gruppi di armati (duar), composti ciascuno di 3-400 uomini, davanti ai rastrellamenti italiani si nascondevano nei numerosi burroni del Gebel per poi riapparire dietro le linee italiane colpendo le installazioni militari. Qualche tentativo di trattare con i ribelli di Omar al-Mukhtar fu messo in atto nel giugno del 1929 dal vice-governatore Siciliani. Si concordò anche una tregua, che però non durò a lungo.
Nel 1930 Mussolini, insoddisfatto di come andavano le cose in Cirenaica, inviò Rodolfo Graziani come vice governatore a Bengasi. Il risultato fu una grande operazione di rastrellamento la quale, tuttavia, non diede l’esito sperato. I “mujaheddin” di Omar al-Mukhtar potevano infatti contare sull’appoggio morale e materiale delle popolazioni locali. Dirà due anni dopo Graziani: «Avevamo contro di noi tutta la popolazione della Cirenaica che partecipava alla ribellione: da una parte, allo stato potenziale, i cosiddetti sottomessi; dall’altra, apertamente in campo, gli armati. Tutta la Cirenaica, in una parola, era ribelle».
Per rompere il collegamento tra popolazione e guerriglia non era sufficiente neanche l’esproprio integrale dei beni mobili e immobili delle zavie senussite, veri e propri centri spirituali ed assistenziali. Il 29 maggio i reali carabinieri penetrarono contemporaneamente nelle 49 zavie, arrestando 31 capi zavia e mettendo i sigilli alle proprietà (centinaia di abitazioni e circa 70.000 ettari di buona terra). I religiosi, dopo essere stati confinati in alcuni campi presso Benina, vennero quindi imbarcati per Ustica.
Ma l’impostazione “tradizionale” della repressione messa in atto da Graziani non soddisfece Badoglio, che il 20 giugno 1930 scrisse al vice governatore per sollecitare nuovi metodi: «Bisogna anzitutto creare un distacco territoriale largo e ben preciso tra formazioni ribelli e popolazione sottomessa. Non mi nascondo la portata e la gravità di questo provvedimento, che vorrà dire la rovina della popolazione cosiddetta sottomessa. Ma ormai la via ci è stata tracciata e noi dobbiamo perseguirla sino alla fine anche se dovesse perire tutta la popolazione della Cirenaica. Urge dunque far rifluire in uno spazio ristretto tutta la popolazione sottomessa, in modo da poterla adeguatamente sorvegliare ed in modo che vi sia uno spazio di assoluto rispetto fra essa e i ribelli. Fatto questo allora si passa all’azione diretta contro i ribelli».
Solo cinque giorni dopo Graziani ordinò il trasferimento delle popolazioni del Gebel. Iniziò così un massiccio spostamento dall’altipiano verso la costa: 900 tende Abid furono spostate nella piana di Barce, 1.400 tende Dorsa intorno a Tolmeta, altre 3.600 distribuite fra Cirene e Derna.
Ma per completare quella che sarà la deportazione di ben 100.000 civili, quasi la metà dell’intera popolazione della Cirenaica, saranno necessarie ulteriori tappe. Il 16 luglio Badoglio diramò a Graziani le seguenti istruzioni: «1) Riunire tutti i parenti dei ribelli in uno stretto e molto sorvegliato campo di concentramento, ove le loro condizioni siano piuttosto disagiate. 2) Arrestare nelle varie cabile ed in Bengasi i notabili che notoriamente hanno esplicato azione contraria a noi e mandarli al confino in Italia».
Graziani stesso, come racconterà in seguito, non ebbe alcuna esitazione: «Tutti i campi furono circondati da doppio reticolato; i viveri razionati; i pascoli contratti e controllati; la circolazione esterna resa soggetta a permessi speciali. Furono concentrati nel campo di el Agheila tutti i parenti dei ribelli, perché più facilmente portati alla connivenza [.] I capi e le popolazioni refrattarie e sorde ad ogni voce di persuasione e di richiamo ricevevano così il trattamento che si erano meritato. Il rigore estremo, senza remore né tregua, cadeva inesorabile su di esse».
Naturalmente la responsabilità della deportazione non va ascritta al solo Badoglio ma anche, come puntualizza Angelo Del Boca, al ministro De Bono che aveva da tempo sollecitato la misura e allo stesso Mussolini che l’aveva approvata.
Le varie tribù, con vecchi, donne e bambini, furono sottoposte a terribili marce forzate per centinaia di chilometri che si trasformarono in vere e proprie “marce di sterminio”. Chi indugiava o si attardava nelle poche soste viene immediatamente abbattuto. Numerosi gli episodi di crudeltà gratuita, come l’abbandono di 35 indigeni, tra cui donne e bambini, in pieno deserto, senza acqua né viveri, a causa di una rissa scoppiata tra loro. Senza contare i maltrattamenti, le fustigazioni, i morti per sete. La tribù degli Auaghir raggiunse il campo di concentramento di Soluch, circondato dal filo spinato, dopo 350 chilometri di marce forzate. Circa 6.500 tra Abeidat e Marmarici, che avevano tentato di ribellarsi, furono sottoposti a una marcia di 1.100 chilometri in pieno inverno verso la Sirtica.
Secondo Del Boca furono 90.761 le persone giunte nei campi e quasi 10.000 quelle morte durante la marcia per stenti, mancanza di cibo, malattie e tentativi di fuga.
Dopo le deportazioni e la creazione dei campi di concentramento la resistenza dei duar di Omar al Mukhtàr si trovò sempre più isolata. I gruppi ribelli furono costretti a dividersi per sfuggire agli accerchiamenti, riducendo però in tal modo la loro capacità offensiva. Le sconfitte minarono il morale e a nulla servirono le scorrerie delle bande di Abd el Gelil Sef en-Nasser e Saleh el Atèusc, rifugiatesi nell’oasi di Taizerbo, situata 250 chilometri a nordovest di Cufra.
Ed è proprio su quest’oasi, dove si pensava fossero ancora i ribelli, che si concentrò l’attenzione italiana. Il 31 luglio 1930 quattro aerei al comando del tenente colonnello Roberto Lordi partono da Gialo con l’ordine di distruggere Taizerbo. Vengono lanciate 24 bombe da 21 chili caricate a iprite e 12 bombe da 12 chili e 320 da 2 chili con esplosivo convenzionale.
Anche Cufra, città santa dei senussiti nella Libia sudorientale, dove intanto si erano ritirate le bande ribelle di Abd el Gelli Sef en-Nasser e Saleh el Atèusc, subì un attacco dal cielo prima di essere presa nel gennaio del 1931 da una colonna di “meharisti”, mercenari libici su cammelli e autocarri.
I guerriglieri sopravvissuti fuggirono con le proprie famiglie ma i reparti cammellati e l’aviazione li inseguirono per vari giorni fino ad annientarli in gran parte: tra le vittime anche donne e bambini.
Cufra fu sottoposta a tre giorni di saccheggi e violenze: 17 capi senussiti furono impiccati, 35 indigeni evirati e lasciati morire dissanguati, 50 donne stuprate; si registrarono anche 50 fucilazioni e 40 esecuzioni con ascia, baionette e sciabole. Le truppe vittoriose si abbandonarono a ogni atrocità: alle donne incinte venne squartato il ventre e i feti infilzati, giovani furono donne violentate e sodomizzate con le candele, teste e testicoli mozzati portati in giro come trofei, tre bambini immersi in calderoni di acqua bollente, ad alcuni vecchi vennero estirpate le unghie per essere poi accecati.
Nonostante la caduta di Cufra, che generò un’ondata di sdegno in tutto il mondo islamico, Omar al Mukhtàr continuò a resistere con le poche truppe rimaste grazie, secondo Graziani, al contrabbando con la frontiera egiziana. E’ a questo punto che Badoglio e Graziani decidono di isolare del tutto i ribelli con la costruzione di una recinzione tra la Cirenaica e l’Egitto.
Nonostante il parere contrario di De Bono e del sottosegretario alle Colonie Roberto Cantalupo, Mussolini dà il suo via libera e il reticolato – una barriera di filo spinato larga alcuni metri e lunga ben 270 chilometri, dal porto di Bardia all’oasi di Giarabub – viene costruito in sei mesi, da aprile a settembre del 1931.
Bloccato ogni rifornimento, dunque, le bande ribelli erano destinate a soccombere. Il 9 settembre 1931 il settantatreenne capo della resistenza libica Omar al Mukhtàr venne catturato. La condanna a morte fu pronunciata il 16 settembre. Ferito, inutilmente tutelato dal diritto internazionale che avrebbe imposto un suo trattamento come prigioniero di guerra, fu impiccato nel campo di Soluch. Graziani raccontò che 20.000 beduini furono costretti ad assistere all’esecuzione per dimostrare loro che i giorni del compromesso e della debolezza italiana erano terminati.
Dando per buono il censimento della Cirenaica del 1920 che annotava 225.000 abitanti e tenendo conto che 20.000 fuggirono in Egitto, ricordando poi il censimento italiano del 1931 che registrava solo 142.000 anime (oltre a 18.500 italiani), si deve dedurre che in undici anni la popolazione del Paese diminuì di circa 83.000 persone: 20.000 rifugiate in Egitto e ben 63.000 per la guerra, la deportazione e la prigionia.
Anche il patrimonio zootecnico venne ampiamente distrutto: gli ovini da 800.000 nel 1926 si ridussero a 98.000 nel 1933, i cammelli da 75.000 a 2.600, i cavalli da 14.000 a 1.000, gli asini da 9.000 a 5.000.
Una vera e propria carneficina, dunque, o, per meglio dire, un “genocidio” praticato dal “buon italiano” il cui ricordo risulta ancora rimosso dalla memoria collettiva dell’Italia nonostante gli sforzi di quegli storici che l’additano all’attenzione di chi non ha paura della verità.