Humanae Vitae è la soluzione, non il problema

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di Luca Del Pozzo

Quando il Figlio dell’Uomo tornerà, troverà ancora la fede sulla terra?” Alla fine, tutto ruota attorno a questa domanda. Ed è a partire da questa domanda che va inquadrato il dibattito ecclesiale attorno all’Humanae Vitae del Beato e futuro santo Paolo VI, di cui il 25 luglio ricorrerà il 50^ anniversario. Così come, pur con tutti di distinguo del caso, è a partire dalla stessa domanda che va inquadrata anche la questione della morale sessuale e familiare che sarà uno degli argomenti centrali del prossimo Sinodo sui giovani. Senza entrare nel merito dell’enciclica di papa Montini (chi vuole può documentarsi a dovere in primis su questo blog grazie al meritorio lavoro che sta portando avanti Costanza Miriano), ciò che qui interessa sottolineare – e il discorso vale tanto per l’apertura alla vita quanto per altre specifiche questioni – è che c’è una questione, per così dire, “a monte” su cui bisognerebbe soffermarsi.

La domanda è duplice: da un lato, il fine dell’azione ecclesiale, ovvero la coscienza di sé e della sua missione nel mondo che ha oggi la Chiesa; dall’altro, e strettamente congiunta con la prima, la domanda circa il modo in cui la Chiesa interpreta la realtà contemporanea e, di conseguenza, i mezzi dell’azione pastorale. Ridotto all’osso, il refrain ricorrente – per altro comune a tanta teologia contemporanea – è questo: le chiacchere stanno a zero, è con la realtà che dobbiamo fare i conti. E la realtà, come disse il card. Kasper nella relazione al Concistoro del febbraio 2014 che diede il “la” a tutto ciò che è venuto dopo, è che “tra la dottrina della chiesa sul matrimonio e sulla famiglia e le convinzioni vissute da molti cristiani si è creato un abisso. L’insegnamento della Chiesa appare oggi a molti cristiani lontano dalla realtà e dalla vita”. Dunque, bisogna prendere atto che si è creata una spaccatura profonda tra ciò che la Chiesa dice e ciò che molti uomini e donne pensano (e soprattutto fanno) sul matrimonio e sulla famiglia.

Un fenomeno non nuovo, certo, e che anche di recente l’Instrumentum laboris del prossimo Sinodo non ha mancato di evidenziare in rapporto alla sessualità laddove afferma che: “gli studi sociologici mostrano che molti giovani cattolici non seguono le indicazioni della morale sessuale della Chiesa”. Se questa è la situazione, anziché domandarci il perché e il percome si sia arrivati a questo punto – un esercizio intellettuale magari interessante ma che ha un piccolo limite: in concreto non serve a nulla, dunque è inutile perdere tempo – dobbiamo piuttosto riflettere, interrogarci, scrutare i segni dei tempi per capire come colmare l’abisso, cioè come parlare in modo convincente di Gesù Cristo all’uomo contemporaneo.

Il punto fermo di questo approccio è che i tempi sono cambiati, e la Chiesa deve adeguarsi ai tempi andando incontro agli uomini e alle donne del suo tempo perchè è con questa umanità che dobbiamo sporcarci le mani. E se agli uomini e alle donne di oggi la fede e la morale cattolica, in tutte le loro declinazioni, stanno strette, innanzitutto il problema non è loro ma caso mai della Chiesa (laddove “problema” diventa sinonimo di “colpa”); secondo, e cosa più importante: se le cose stanno così la Chiesa meglio farebbe a rimboccarsi le maniche per trovare il modo di non caricare sulla vita delle persone già provate da mille difficoltà fardelli che non possono portare. Il che, ad esempio per quanto riguarda l’ammissione ai sacramenti, per don Pepe di Paola, uno dei cosiddetti “cura villero”, cioè preti di strada che operano nelle baraccopoli di Buenos Aires, si traduce in una scelta pastorale molto semplice: “Noi  – disse qualche tempo fa al Foglio – rispettiamo la gente. Se le persone cercano di comunicarsi, diamo loro la comunione. Non siamo giudici che decidono chi si deve comunicare e chi no.” E ancora: “Quando ci troviamo davanti alle persone che convivono senza essere sposate in chiesa non alziamo barricate, neppure nel caso dei sacramenti e della comunione. Ci opponiamo a quelli che hanno solo precetti”. Insomma l’approccio pastorale è chiaro: “Avvicinare e non respingere, includere, rendere le coppie partecipi di un progetto, di una comunità, di una casa comune. Queste persone spesso sono fuori dalla chiesa perché fanno scelte diverse dalle nostre, e se tu opponi loro un rifiuto, in partcolar modo dei sacramenti, non otterrai niente, semplicemente resteranno fuori”.

Insomma ciò che conta è seguire l’evoluzione, sapersi adattare alla scena cangiante del mondo, saper intercettare, assecondandole, le dinamiche di cambiamento della società. Ma – questo è il punto – sospendendo ogni giudizio sulla realtà. Anche sulla scia di una visione ecclesiologica secondo cui il cristiano, laico o ecclesiastico che sia, al pari di Cristo che, incarnandosi, è entrato nella realtà concreta degli uomini e con essa ha fatto i conti, è tenuto a sua volta a vivere nel mondo così come è (come se il fatto dell’incarnazione sia più importante della realtà incarnata), l’analisi si riassume nella semplice “presa d’atto”: le cose stanno così e così, inutile stare a cincischiare se i tempi, il mondo e la società siano cambiati in bene o in male. E se per l’uomo contemporaneo – questo il passaggio successivo del ragionamento – l’asticella della dottrina e della morale sessuale è troppo alta, forse converrà riflettere se non sia il caso di abbassarla un po’, l’asticella, adattandola alla sua misura, se vogliamo davvero provare a recuperarlo o quanto meno a non perderlo del tutto.

La domanda sorge spontanea: siamo proprio sicuri che sia questa la strada da percorrere? Non si corre seriamente il rischio che in questo modo ciascuno si sentirà legittimato a vivere come meglio crede, senza alcuna necessità di convertirsi e cambiare vita posto che la conversione è la dinamica essenziale della vita cristiana? Cosa vuole fare insomma la Chiesa del terzo millennio: continuare nella missione che Cristo le ha affidato, che è quella di evangelizzare il mondo perché gli uomini si salvino abbandonando il peccato, o semplicemente di accompagnare l’uomo lungo la sua strada affiancandolo nella sua fatica quotidiana ma senza disturbare troppo e sempre agendo con discrezione, quasi che essere cristiani o no sia tutto sommato indifferente?

Di nuovo, torna la domanda di Gesù da cui siamo partiti: “Quando il Figlio dell’Uomo tornerà, troverà ancora la fede sulla terra?” Una domanda quanto mai pertinente, tanto più oggi, e tanto più rispetto al dibattito sull’Humanae Vitae come su tutto il resto. E allora, per dirla con Pascal, bien penser pur bien agir. Se davvero la Chiesa vuole provare a sintonizzare di nuovo sul Vangelo gli uomini e le donne del nostro tempo, e i giovani in particolare, con la dottrina sulla sessualità, sul matrimonio e sulla famiglia, bisogna innanzitutto andare al cuore del problema. E il cuore del problema – al di là e oltre tutte le possibili manchevolezze e debolezze della Chiesa e dei suoi membri, che pure ci sono ma che costituiscono solo un aspetto (e pure marginale) della questione – è proprio la fede, come ha ribadito Benedetto XVI nel libro-intervista “Ultime conversazioni”. O meglio, il fatto che nella società occidentale ormai da oltre mezzo secolo è in atto una profonda crisi di fede, che S.Giovanni Paolo II stigmatizzò con due parole precise: “apostasia silenziosa”. Ora la cosa interessante è che, in effetti, tutti (o quasi) sembrano essere d’accordo sul fatto che sia proprio questo il problema numero uno. Ma se sulla messa a fuoco della “malattia” c’è (abbastanza) consenso, è sulla “cura” da intraprendere che invece sembra non esserci molta chiarezza. Perchè, di nuovo, se da un lato la parola d’ordine che risuona in ogni consesso convegno dibattito o tavola rotonda è ri-evangelizzare, è altrettanto evidente che sembra mancare una comune visione circa il il modo di intendere la parola “evangelizzazione”, con conseguenze piuttosto gravi quando dal piano teorico si passa a quello pratico.

Per rispondere alle sfide attuali non c’è altra via che provare a riaccendere la fiamma della fede nel cuore degli uomini. La Chiesa ha già dove attingere, senza bisogno di inventarsi nulla ed anzi rifuggendo la tentazione, sempre alle porte, di cercare improbabili mediazioni o soluzioni pastorali che rischiano di confondere ciò che è il bene per le persone con quello che gli individui pensano essere il bene per se stessi o, ancora peggio, con ciò che l’opinione pubblica chiede (come è accaduto, ad esempio, per la comunione ai divorziati risposati la cui situazione, pur rappresentando numericamente un’esigua minoranza dei cattolici praticanti – l’1% appena disse il card. Brandmüller in un’intervista a Repubblica – è stata surrettiziamente enfatizzata dal partito di quanti, dentro e fuori la Chiesa, premevano perché ci fosse un’apertura essendo questo, e solo questo, l’obiettivo).

In ogni generazione contro la tentazione di Aronne di mettersi dalla parte del popolo, c’è bisogno di un Mosè che scelga di stare dalla parte di Dio, guidando il popolo non dove il popolo vuole andare né tanto meno dove vuole lui ma dove Dio vuole. Nella consapevolezza che tanto grave è la malattia, tanto più forte e incisiva dev’essere la cura. La crisi di fede di cui oggi vediamo le conseguenze non è frutto del caso ma affonda le sue radici in un ben preciso processo culturale, che partendo da Cartesio e culmimando in Nietzsche ha progressivamente prodotto quella che il più grande filosofo cattolico italiano del ‘900, Augusto Del Noce, definì la “società opulenta” – caratterizzata da secolarizzazione, libertinismo di massa e relativismo integrale – e che più tardi un altro grande interprete dei nostri tempi come il card. Biffi avrebbe ribattezzato “sazia e disperata”. Parliamo di un processo che nella seconda metà del XX secolo, soprattutto dal ’68 in poi, ha condotto all’affermarsi, complice anche il crollo delle ideologie politiche, di un’antropologia compiutamente nichilista e tecnocratica, come conseguenza del fallimento della cultura – ma anche della politica, in primis della ex Dc – che aveva tentato di opporsi al marxismo conservandone l’aspetto materialistico, ed anzi opponendo ad esso un materialismo compiuto.

Tratto saliente di questo uomo post moderno, tollerante, amante dell’umanità, disincantato e indifferente al fatto religioso – magistralmente affrescato in epoca non sospetta nelle opere di R. H. Benson e V. Solovev – è la sua visione radicalmente ego-centrica della vita. “All’ascesa a Dio – scriveva Del Noce già nel 1967 – si sostituisce l’idea della conquista del mondo, ovvero l’affermazione del diritto che il singolo soggetto ha sul mondo. Diritto che non ha limiti, perché, chiamato al mondo senza il suo volere, egli sente di aver diritto, quasi a compenso di questa chiamata, a una soddisfazione infinita nel mondo stesso”. Anche per questo, dopo il divorzio e l’aborto il progressismo in salsa ecclesiale ammaliato dalle sirene del laicismo oggi come ieri reclama a gran voce la contraccezione, il sacerdozio delle donne, il matrimonio per i preti, la comunione ai divorziati risposati, i rapporti sessuali prima del matrimonio (ovviamente protetti), e via discettando delle magnifiche sorti e progressive di una Chiesa che finalmente potrà dirsi moderna.

Tra l’altro, proprio sul tema della contraccezione certi teologi (e non solo) à la page che ultimamente hanno proposto letture a dir poco stravaganti dell’Humanae Vitae farebbero bene a rileggersi quanto ebbe a dire S. Giovanni Paolo II nell’Evangelium Vitae sul rapporto tra contraccezione e aborto:

Si afferma frequentemente che la contraccezione, resa sicura e accessibile a tutti, è il rimedio più efficace contro l’aborto. Si accusa poi la Chiesa cattolica di favorire di fatto l’aborto perché continua ostinatamente a insegnare l’illiceità morale della contraccezione. L’obiezione, a ben guardare, si rivela speciosa. Può essere, infatti, che molti ricorrano ai contraccettivi anche nell’intento di evitare successivamente la tentazione dell’aborto. Ma i disvalori insiti nella «mentalità contraccettiva» — ben diversa dall’esercizio responsabile della paternità e maternità, attuato nel rispetto della piena verità dell’atto coniugale — sono tali da rendere più forte proprio questa tentazione, di fronte all’eventuale concepimento di una vita non desiderata. Di fatto la cultura abortista è particolarmente sviluppata proprio in ambienti che rifiutano l’insegnamento della Chiesa sulla contraccezione. Certo, contraccezione ed aborto, dal punto di vista morale, sono mali specificamente diversi: l’una contraddice all’integra verità dell’atto sessuale come espressione propria dell’amore coniugale, l’altro distrugge la vita di un essere umano; la prima si oppone alla virtù della castità matrimoniale, il secondo si oppone alla virtù della giustizia e viola direttamente il precetto divino «non uccidere». Ma pur con questa diversa natura e peso morale, essi sono molto spesso in intima relazione, come frutti di una medesima pianta. È vero che non mancano casi in cui alla contraccezione e allo stesso aborto si giunge sotto la spinta di molteplici difficoltà esistenziali, che tuttavia non possono mai esonerare dallo sforzo di osservare pienamente la Legge di Dio. Ma in moltissimi altri casi tali pratiche affondano le radici in una mentalità edonistica e deresponsabilizzante nei confronti della sessualità e suppongono un concetto egoistico di libertà che vede nella procreazione un ostacolo al dispiegarsi della propria personalità. La vita che potrebbe scaturire dall’incontro sessuale diventa così il nemico da evitare assolutamente e l’aborto l’unica possibile risposta risolutiva di fronte ad una contraccezione fallita. Purtroppo la stretta connessione che, a livello di mentalità, intercorre tra la pratica della contraccezione e quella dell’aborto emerge sempre di più e lo dimostra in modo allarmante anche la messa a punto di preparati chimici, di dispositivi intrauterini e di vaccini che, distribuiti con la stessa facilità dei contraccettivi, agiscono in realtà come abortivi nei primissimi stadi di sviluppo della vita del nuovo essere umano”.

Il tratto comune del progressismo teologico, speculare a quello di stampo laicista, è una continua, incessante richiesta di allargamento della sfera dei diritti – che fa tutt’uno con una visione “democratica” della Chiesa a sua volta irricevibile – che spesso e volentieri altro non sono se non la legittimazione dei propri desideri. Chiaro che in tale situazione non servono pannicelli caldi. E’ dalla fede che bisogna ripartire. Lo aveva messo a fuoco con lungimiranza profetica lo stesso San Giovanni Paolo II quando nel 1985 lanciò la “nuova evangelizzazione”, per la quale si spese in prima persona fino all’ultimo giorno della sua vita, di cui oggi più che mai se ne sente il bisogno innanzitutto in seno alla Chiesa stessa. Ciò che serve è tornare ad annunciare il Vangelo; con un linguaggio nuovo, più esistenziale, meno astratto e moralistico, ma lo stesso Vangelo di sempre, ovvero quelle poche parole racchiuse in quei quattro libriccini scritti da Marco, Matteo, Luca e Giovanni. E in tale ottica forse non è un caso se proprio negli anni del Concilio Vaticano II, quando la “società opulenta” era agli inizi, sorsero e si svilupparono tanti carismi (basti pensare a CL, i Focolarini, il Cammino Neocatecumenale, il Rinnovamento nello Spirito, ecc.), grazie ai quali molti uomini e donne hanno potuto riscoprire la fede che avevano perduto, e dove altrettanti hanno incontrato Cristo per la prima volta.

Quanti matrimoni ricostruiti, quante coppie salvate sull’orlo del divorzio o della separazione, quante famiglie aperte di nuovo alla vita avendo accolto senza riserve proprio l’Humanae vitae, con ciò mostrando che si può vivere quanto la Chiesa annuncia! Per rispondere alle sfide attuali, sui giovani e non solo, non c’è bisogno né di un Trento II né di un Vaticano III. Né tanto meno di avventurarsi in improbabili quanto stravaganti riletture “situazioniste” dell’Humane Vitae, che invece oltre ad aver conservato intatta in questi cinque decenni tutta la sua carica profetica, oggi più di ieri continua ad essere, caso mai, la soluzione, non il problema. La Chiesa ha già dove attingere, senza inventarsi nulla. E’ vero, i tempi sono cambiati, e la Chiesa deve stare al passo con i tempi. A patto però che questo non significhi adeguarsi allo spirito del tempo, né tanto meno alle mode o alle tendenze del momento.

 

 

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