Su LiberoQuotidiano dell’8 Settembre viene riportata la conversione del no-global Luca Cesarini, attratto dai temi ecclesiali legati ai migranti e all’ecologia. Vale a dire, a temi che erano già suoi, prima della coloritura evangelica. Augurandoci naturalmente la salvezza della sua anima, ci viene da chiedere se si sia lui convertito al Vangelo o piuttosto abbia trovato «un prodotto» in grado di convertire il Vangelo a se stesso, avallando scelte personali di natura morale, ambientale e politica. Qui è il punto: ogni conversione presuppone un rinnegare se stessi, spesso la propria esperienza e la propria spiritualità, in funzione di Cristo. Alcuni, invece, valorizzano talmente tanto la propria esperienza di fede, da sostituire lo stesso Vangelo con se stessi e la propria testimonianza di fede. E chi ascolta non si converte più a Cristo, ma a noi e alla nostra fede. Ma il dio della nostra coscienza ed esperienza è quello vero o una nostra creazione?
di Pierluigi Pavone
È forse scortese a prima vista, impopolare e antipatica, ma mai snob: la mia richiesta che mi venga detto di Cristo e non tanto della vostra esperienza. Non vi crederò, sulla base della vostra spiritualità o su quanto vi emozionate quando parlate dello Spirito Santo. Forse vi scandalizzerete, ma potrebbe essere probabile che ciò in cui crediate sia solo la proiezione della vostra coscienza, un vostro pio desiderio su chi sia Gesù e cosa da Lui inconsciamente volete.
Eppure, è Cristo che antepone alla sua sequela, il rinnegamento di se stessi e ha disposto che tra Sé e noi ci sia soltanto Maria, mediatrice di tutte le Grazie e la Chiesa – di cui Maria è regina – che svolge l’azione sacramentale nel mondo.
Il cattolicesimo è così, bello, logico, diretto.
Mi ha sempre affascinato la figura di Giovanni il Battista: e non per le illazioni pseudo-teologiche sulle sue esperienze essene o mistico-messianiche. Al contrario: mi affascinano i suoi dubbi: sia Matteo, sia Luca riportano il fatto che mentre è in carcere, si informa se Gesù sia il Messia.
Notate bene: per due volte fondamentali non compare mai il dato della esperienza di fede!
Prima di tutto, nel caso specifico, Gesù non raccomanda a Giovanni di trovare la risposta nella sua interiorità, non lo invita a nessuna ascesi, né gli raccomanda di ricordare cosa ha sperimentato di Lui. Al contrario, indica di raccontare a Giovanni fatti. Sono i fatti a testimoniare la Verità. Non tanto la propria spiritualità. In secondo luogo e più in generale, avete mai riflettuto su chi era il Battista? Non come figura profetica del tempo, nel ruolo che gli veniva riconosciuto indipendentemente da Cristo. Ciò che sappiamo di lui, a parte il battesimo di Gesù nel Giordano, è di una figura emblematica nella spiritualità ebraica del tempo: la sua vita nel deserto e la sua predicazione di pentimento, così radicale e semplice da colpire lo stesso Erode, anticipano di fatto la vita pubblica di Gesù. Ma prima di questo, il Battista è Giovanni, figlio di Zaccaria e cugino di Gesù. Uno che aveva sussultato nel grembo della madre quando aveva ricevuto la visita di Maria, già incinta del Cristo. Giovanni, il cugino di Gesù, quante occasioni avrà avuto di parlare con la madre, con Maria, con lo stesso Gesù? Possiamo provare a immaginare che se Gesù a dodici anni discute con i dottori della Legge nel Tempio e antepone la volontà del Padre alle preoccupazioni dei genitori, abbia avuto più che una occasione per parlare con Giovanni. Quale esperienza di fede abbiamo del Battista a proposito del Cristo? Quale esigenza hanno avuto gli evangelisti – specialmente il Vangelo di Giovanni – di raccontare la testimonianza del Battista su chi era per lui il Cristo.
Nessuna. Nessuna esperienza di fede e nessuna esigenza evangelica.
Il Battista, quando vede Gesù, indica di vedere l’Agnello di Dio e dice a suoi discepoli di seguire Lui. Non si frappone tra i discepoli e Cristo, lui che di esperienze e testimonianze ne poteva dare a bizzeffe.
Perché? Perché a chi crede – cattolicamente parlando – interessa soltanto una cosa: i fatti.
Di quelli che distinguono il Cristo storico da quello della fede, insegnando che sappiamo cinque cosine sul rabbi ebreo Gesù e tutto il resto è una costruzione fideistica delle comunità cristiane del primo secolo, non sappiamo che farcene. Se fosse vero che di fatti reali, quelli indipendenti dalla nostra coscienza, quelli che non esistono perché ci crediamo noi, ma esistono perché sono accaduti, con buona pace della nostra spiritualità, se fosse vero che di questi fatti non possiamo dire nulla, non sappiamo nulla, allora la nostra fede si basa su una illusione.
Aveva ragione Feuerbach – uno che di ateismo se ne intendeva – a leggere il dio di Lutero come una proiezione della coscienza. Feuerbach è convinto che l’uomo superi la bestia, proprio nella misura in cui percepisce e coglie l’infinito, cioè è in grado di trascendere se stesso, nella mera individualità. L’uomo è in grado di conoscere se stesso nell’essenza di umanità. Questa essenza però non è una conoscenza innata, ma acquisita per mezzo di un processo dialettico (recuperato da Hegel) di alienazione, in cui nega se stesso per proiettarsi in Dio, e sintesi, in cui si riappropria di quelle qualità umane, precedentemente divinizzate e alienate. Qui il ruolo fondamentale della religione: Feuerbach ritiene che Dio sia l’antitesi, cioè la negazione che inconsciamente l’uomo crea per conoscersi. Dio, allora, non è altro che la rivelazione dell’uomo: Dio è ciò che l’uomo nega di se stesso, per attribuirlo ad un essere infinito e perfetto. L’uomo non farebbe altro che divinizzare alcune sue caratteristiche, per poi proiettarle fuori di sé. Dio, quindi, non è nulla in se stesso; Dio esiste soltanto nella coscienza dell’uomo, nella sua esperienza religiosa e spirituale.
È questo il vostro dio? Di certo era il dio di Lutero. Non lo è mai stato – all’opposto – di Giovanni il Battista.
La tesi tradizionalmente cattolica – modernismo a parte – secondo cui tutte le religioni sono false, se non demoniache, è una tesi valida almeno tre volte: quando si tratta di evangelizzare un popolo pagano, quando si tratta di convertire un uomo, quando si tratta di misurare la propria fede.
Primo. Quanto al popolo pagano, è necessario per favorire l’evangelizzazione, come prima di arare un campo, purificarlo da eventuali spiritualità demoniache. Le religioni sono false, allora in un certo senso innocue; oppure hanno margini di verità: in questo caso la misura della loro verità è la presenza del Diavolo (che in effetti esiste realmente!). A ben guardare, la storia dell’evangelizzazione, nel Cristianesimo, è sempre stata una storia di esorcismi.
Secondo. Quanto al singolo, le sue credenze – soprattutto se inficiate da visioni etiche orientali, come il buddhismo – saranno di ostacolo alla conversione: non si convertirà a Cristo (tanto meno salverà la sua anima) «grazie» al proprio credo, ma all’opposto, «contro» la propria fede in divinità inesistenti. Dovrà rinnegare esperienze, testimonianze e coscienze, per convertirsi a fatti. Prima di lui, lo ha fatto anche san Pietro, cacciato via da Gesù quando pensava secondo se stesso e le proprie umane proiezioni, e non secondo Dio. Quanto è stata lunga la conversione di Pietro al fatto dell’Incarnazione, Passione e Resurrezione del suo Signore?! Quante volte ha dovuto rinnegare se stesso, le sue aspettative, i suoi fantasmi?!
Terzo. Quanto a noi, spesso siamo luterani nella fede. Ci affidiamo e prestiamo culto ad un dio costruito dalla nostra coscienza. A questo credeva Lutero: uno che sosteneva che Dio in se stesso non è nulla, ma che esiste solo nella coscienza umana; uno che negava la teologia – cioè la scienza dei fatti e dell’esistenza di Dio, indipendentemente dal credo umano –, per ricondurre ogni dottrina cristiana ad un discorso sulla salvezza umana; uno che faceva dell’uomo il senso stesso della fede e di Dio. L’acume di Feuerbach ne rintracciò la radice atea: logicamente. Pur non avendo affermato la non esistenza di Dio o la fede come proiezione inconsapevole della coscienza umana, Lutero, tuttavia, ha negato la teologia tomista. E in questo la fede cattolicamente pensata e vissuta. Se per san Tommaso Dio è Ipum Esse subsistens, l’essere sussistente, Colui che è, indipendentemente dal creato o dalla stessa opera creatrice, indipendentemente dalla redenzione umana o dalla fede degli uomini, per Lutero invece, Dio è nulla in sé, ma Dio è per l’uomo. Dio esiste, quindi, solo in quanto Creatore, solo in quanto Salvatore, solo nella mia coscienza, solo nella esperienza di fede. Tolto l’uomo, non ha più ragione di esistere neppure Dio.
L’ateo Feuerbach conferma. Seppur in modo radicale, legge logicamente quello che Lutero asserisce: interpreta coerentemente, fino alle sue estreme conseguenze, le tesi di Lutero. Se Lutero sostiene che Dio, in se stesso, è nulla, che Dio esiste solo nella coscienza dell’uomo, in fondo – leggerà giustamente Feuerbach – questo dio della coscienza, questo dio dell’esperienza – allora – non è altro che il frutto della proiezione inconscia di se stessi, non è altro che una creazione inconsapevole dell’uomo, una creazione che funge da specchio per l’autocoscienza umana.
Per questo ammiro il Battista: uno che poteva anteporre tanta esperienza e spiritualità e invece – con estrema umiltà – ha totalmente oscurato la sua persona, perché risaltasse quella di Cristo.
Potremmo elevare il Battista a patrono della testimonianza cattolica e Lutero ad avvocato brillante di ogni ateismo.
L’articolo Il Battista o Lutero: testimoniare Cristo o la propria esperienza? proviene da Il blog di Sabino Paciolla.