Nel libro Il «cambio di paradigma» di papa Francesco. Continuità o rottura nella missione della Chiesa? (Instituto Plinio Corrêa de Olivera, 216 pagine) José Antonio Ureta si propone di fare un bilancio del pontificato di Bergoglio dopo cinque anni di regno, e i titoli dei capitoli in cui si suddivide il testo possono benissimo riassumere il contenuto delle argomentazioni dell’autore. Basta quindi elencare questi titoli per capire che cosa Ureta pensa della linea di Francesco in campo dottrinale, pastorale, sociale e politico.
Prima di tutto Ureta vede nel magistero di Francesco un «restringimento pastorale dei “valori non negoziabili”» che furono al centro dell’insegnamento sia di san Giovanni Paolo II sia di Benedetto XVI. Poi, di seguito, ecco la «promozione dell’agenda neomarxista e no global dei “movimenti sociali”», la «promozione dell’agenda “verde”, di un governo mondiale e di una mistica ambigua», la «promozione dell’immigrazione e dell’Islam» accompagnata da una «reticenza sui cristiani perseguitati in Medio Oriente», e ancora: un «indifferentismo religioso», un «relativismo filosofico» e un «evoluzionismo teologico» che si accompagnano a «una nuova morale soggettiva senza imperativi assoluti».
Infine Ureta, dopo aver fornito un esempio di questo «cambiamento di paradigma» concentrandosi sull’accesso dei divorziati risposati alla Comunione, rileva che «il denominatore comune del cambiamento di paradigma» introdotto da Francesco è il tentativo di «adattarsi alla Modernità rivoluzionaria e anticristiana», tentativo ampiamente dimostrato dal «rovescio della medaglia», ovvero «la simpatia dei poteri mondani e delle correnti anticristiane» per questo pontificato.
Prima della conclusione, nella quale l’autore parla esplicitamente di «confusione» nella Chiesa e arriva a mettere in conto una possibile «scissione pratica» come conseguenza dell’attuale «divisione virtuale» tra due correnti nettamente contrapposte, Ureta si chiede se via sia una «liceità della resistenza» a un magistero che sotto molti aspetti appare non più cattolico, e la risposta, considerate le argomentazioni precedenti, è ovviamente che una resistenza non solo è possibile, ma doverosa.
Ciò che sostiene Ureta è da tempo al centro dei tentativi di analisi che altri autori conducono in varie forme e ciascuno secondo il proprio stile. Tutto ciò che Ureta spiega e sottolinea con grande chiarezza, ricorrendo a un ricco apparato di citazioni, è verificabile e per molti è fonte di dolore. Alcuni (pochi) osservatori se ne sono accorti subito, altri hanno impiegato più tempo. Sta di fatto che le preoccupazioni di Ureta appaiono giustificate.
Manca solo, direi, un passaggio per andare un poco più in profondità. Occorre chiedersi: perché tutto ciò sta avvenendo? In quale direzione sta andando Francesco? Quale il disegno?
Per cercare di dare una risposta bisogna partire, credo, da un’osservazione, e cioè che, in realtà, fra le tante cose dette e scritte da Francesco si può trovare tutto ciò che Uretra e altri segnalano, ma anche il contrario, o quasi.
Prendiamo, per esempio, i valori non negoziabili. È vero che Bergoglio ha sostenuto che non è più necessario battere sui soliti tasti ed è arrivato a dire che l’espressione stessa, «valori non negoziabili», non la capisce. È vero che ha parlato delle famiglie numerose in termini non propriamente lusinghieri (il famoso «fare figli come conigli»), è vero che non è sceso in campo a difesa della vita nascente con la forza e la costanza dei predecessori e a volte è parso quasi prendere le distanze da chi si batte su questo fronte, però, nello stesso tempo, possiamo trovare sue parole a difesa della famiglia formata da un uomo e una donna, così come contro l’aborto e l’eutanasia.
Quanto a quella che Ureta definisce la «promozione dell’immigrazione», è inutile stare a ripercorrere tutti gli interventi di Francesco a favore dell’accoglienza, però nelle sue parole possiamo notare anche un graduale aggiustamento che lo ha spinto nel corso del tempo a prendere in considerazione le ragioni dei paesi ospitanti e a parlare non più genericamente di «immigrati» bensì di «profughi».
Infine è vero che sotto l’aspetto dottrinale possiamo riscontrare in Francesco una tendenza alla «liquidità», al primato della prassi sulla dottrina e dell’esperienza soggettiva sulla norma generale vincolante, però non mancano i richiami alla centralità di Gesù e alla necessità di non abbandonare la croce.
Insomma, per dirla in due parole un po’ spicce, con l’andare del tempo la vera caratteristica di questo pontificato appare quella di dare al papato una connotazione che, in senso lato, potremmo definire «politica».
Che cosa fanno i politici? Spesso dicono e non dicono, un giorno dicono A e un giorno dicono B, un giorno mettono l’accento più su A e un giorno più su B. La logica politica è quella dell’ambivalenza, a seconda dell’interlocutore di turno e delle circostanze. Per il politico non esiste nulla di assoluto, ma tutto può essere variato. La tipica risposta del politico è un «dipende», e possiamo vedere che il gesuita Bergoglio, in generale, procede proprio così. Esempio tipico la risposta che ha dato nella chiesa luterana di Roma a una domanda sull’intercomunione, quando la sua argomentazione, estremamente confusa, fu in sostanza riassumibile in un «forse sì, forse no, non so, dipende, vedete voi».
In fondo è la stessa logica che ritroviamo nel capitolo VIII di Amoris laetitia con la proposta della morale della situazione, in un documento che in altre pagine innalza invece un vero inno al matrimonio religioso e alla famiglia fondata su di esso.
Ho già avuto modo, in passato, di definire la logica bergogliana quella del «sì, ma anche no; no, ma anche sì». Tutto è fluido, indeterminato. Un giorno abbiamo A e un giorno ecco B, un giorno un po’ più A e un giorno un po’ più B.
Il professor Roberto Pertici in un suo fondamentale saggio messo a disposizione dal blog di Sandro Magister ha opportunamente parlato, a proposito del pontificato di Francesco, di «fine del cattolicesimo romano». Il «cambio di paradigma», nel senso più profondo, non sta tanto nel tentativo, che comunque c’è, di scendere a patti con la Modernità e di piacere ai padroni del pensiero contemporaneo, ma nel processo di destrutturazione del papato che Francesco ha messo in atto fin dall’inizio. Dalla logica ferrea del Dictatus Papae siamo passati alla logica che definisco «politica» e che, come dice Pertici, «finisce per mettere in discussione il principio di autorità». Ma non lo fa per incoscienza o sbadataggine, ma proprio perché intende perseguire questa linea: minimizzare i tratti giuridico-gerarchici, autoritari ed esteriori del munus petrino ed enfatizzarne la portata pastorale, dialogante, antidogmatica, inserita a tal punto nel mondo da far proprie le logiche del mondo stesso.
Il «carattere periferico» (la definizione è ancora di Pertici) della formazione di Bergoglio ha certamente un peso nella concezione che Francesco ha del papato. Una cosa è essere nati e cresciuti in Europa, un’altra cosa è essersi formati, anche dal punto di vista ecclesiale, in Argentina. Pertici dice che Bergoglio è così radicato nel mondo latino-americano da non riuscire a incarnare appieno l’universalità della Chiesa, e anche questo aspetto va tenuto presente per capire il processo di destrutturazione in corso.
D’altra parte l’evidente simpatia con la quale Francesco guarda ai luterani e al mondo protestante è significativa: da quelle parti la destrutturazione, con tutto ciò che essa porta con sé, è già avvenuta; il depotenziamento dell’autorità è già stato attuato; il decentramento è già stato sperimentato.
La vera forzatura da parte di Francesco sta avvenendo sul piano ecclesiologico. Di qui le ripetute sottolineature dell’importanza del «popolo», visto quasi in una dimensione mistica. Al centro non abbiamo più l’auctoritas del papa, la roccia, ma il «cammino» del popolo, il processo sinodale. Di qui anche la preferenza espressa da Francesco per il poliedro rispetto alla sfera: Bergoglio dice di non essere stato mai attratto dalla perfezione, dal rispetto del principio di non contraddizione, dal pensiero strutturato, bensì dalla multiformità, dall’incontro di tendenze diverse, dal multiculturalismo. Infatti, come ha detto tante volte, ritiene che il suo compito sia avviare processi più che prospettare soluzioni. Di qui anche la sua visione della Chiesa «quasi come una federazione di Chiese locali (sono di nuovo parole del professor Pertici) dotate di ampi poteri disciplinari, liturgici e anche dottrinali».
L’indeterminatezza fa parte di questo disegno. Dove deve condurre il «cammino»? Quale l’obiettivo del «discernimento» sempre invocato? Perché dalle periferie si vede meglio? Quali cure devono essere assicurate nella Chiesa «ospedale da campo»? Quale deve essere la direzione della Chiesa «in uscita»? Difficile trovare risposte. Perché più delle risposte a Francesco interessa il «processo».
Insomma, un cambio di paradigma certamente c’è ed è profondo. Ma riguarda, prima di tutto e sostanzialmente, proprio la figura del papa e la natura del pontificato.
Quanto alle riflessioni di Ureta sulla legittimità e la necessità delle critiche al papa, il dibattito è aperto. Con la speranza che l’attuale «divisione virtuale» tra visioni e sensibilità differenti non arrivi mai a una «scissione formale». Perché quella sarebbe la vera tragedia.
Aldo Maria Valli
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