Mentre il 20 gennaio si fa sempre più vicino, non possiamo ignorare l’enorme peso politico dell’appuntamento in tribunale fissato per Trump il 10 gennaio, a New York. Gli vengono attribuiti 34 capi d’accusa di presunta falsificazione di documenti aziendali, legati al famoso “hush money” pagato all’attrice Stormy Daniels. Trump, però, giudica tutto come una ritorsione politica mascherata da azione legale, e a molti di noi appare l’ennesimo tentativo di colpire un leader che si è fatto portavoce di chi contesta l’establishment.
Sul social Truth, Trump ha così commentato:
“Ogni studioso e commentatore giuridico, incluso l’altamente rispettato e tristemente scomparso di recente David Rivkin, così come Jonathan Turley, Elie Honig, Andy McCarthy, Alan Dershowitz, Gregg Jarrett, Elizabeth Price Foley, Katie e Andy Cherkasky, Paul Ingrassia e molti altri, hanno dichiarato inequivocabilmente che la caccia alle streghe del procuratore distrettuale di Manhattan è un caso inesistente, che non solo è precluso dalla prescrizione ma, nel merito, non avrebbe mai dovuto essere portato avanti”.
“Questo attacco politico illegittimo non è altro che una farsa truccata. Il giudice ‘facente funzione’ Merchan, che è un partigiano radicale, ha appena emesso un altro ordine che è consapevolmente illegale, va contro la nostra Costituzione e, se gli fosse permesso di restare in vigore, sarebbe la fine della Presidenza così come la conosciamo”.
Lawfare: la legge come arma contro gli scomodi
In effetti, siamo di fronte a un caso di “lawfare” bello e buono: quando chi gestisce il potere usa tribunali e cavilli legali per mettere alla gogna i rivali. Pensateci: i giganti della finanza devastano intere economie senza mai pagare dazio, le grandi piattaforme tech decidono chi può o non può parlare, e il Deep State gongola incassando profitti da guerre e crisi globali. Ma appena Trump – o chiunque altro – osa disturbare questo circolo dorato, scattano inchieste e processi a getto continuo.
La contraddizione lampante
Non sfugge certo l’ipocrisia di un sistema che chiude un occhio di fronte agli evasori miliardari e alle multinazionali corrotte, salvo poi ostentare moralismo per colpire una figura scomoda come Trump. Sembra più un avvertimento a non toccare i fili del potere, che un genuino tentativo di ottenere giustizia. Quando il 10 gennaio arriverà, la domanda sarà: difendiamo davvero la democrazia o stiamo blindando il potere di chi, da dietro le quinte, tira i fili a suo piacimento?
Cosa dice la legge su un presidente (o presidente eletto) incriminato?
La Costituzione USA non concede un’immunità totale al presidente. Tuttavia, la Corte Suprema non si è mai espressa in modo definitivo sulla possibilità di incriminare penalmente un presidente in carica. I famosi memo del Dipartimento di Giustizia (1973 e 2000) sostengono che un presidente non debba essere incriminato durante il mandato, perché ciò ostacolerebbe le sue funzioni. Ma va chiarito che si tratta di interpretazioni, non di leggi vincolanti.
La Costituzione prevede l’impeachment come strumento per far fronte a reati presidenziali gravi (tradimento, corruzione o altre azioni palesemente illegali). È però un processo politico, gestito dal Congresso, non un procedimento penale. In sostanza, si può rimuovere un presidente attraverso il voto della Camera e del Senato, ma la sfera giudiziaria resta un’altra partita.
La maggior parte dei giuristi ritiene che un presidente possa essere incriminato una volta terminato il mandato. Se Trump fosse ufficialmente incriminato prima del 20 gennaio (l’evento del 10 gennaio è un antipasto?), sarebbe un caso giuridico e politico senza precedenti. Verrebbe messo in discussione il suo insediamento? È una domanda che lascia spazio a un mare di speculazioni.