Essere aperti e formulare giudizi di valore, per cui ha sviluppato un intero vocabolario di eufemismi per evitare la chiarezza e la schiettezza. In fondo, una società aperta per annullare il giudizio ed essere un buon terreno fertile per il mercato.
Fonte: Antonio Catalano
Il nostro mondo occidentale è andato elaborando nel corso del secolo scorso una mentalità “aperta”, dove per aperta è da intendersi più che la predisposizione a capire e comprendere l’altro l’attitudine a liberarsi del peso del giudizio. Nella nostra cultura il comportamento “giudicante” è ormai considerato in modo del tutto negativo.
L’approccio non giudicante è diventato valore in sé. Anche se poi vediamo che spesso – anzi spessissimo, diciamo pure sempre – coloro che ritengono negativo il comportamento giudicante precipitare nel più radicale giudicazionismo quando qualcuno osa mettere in discussione i loro principi.
Frank Furedi, nel suo molto interessante libro “I confini contano” (confini da intendersi non solo come realtà fisiche e geografiche), riporta uno studio del 1998 di Alan Wolfe su ciò che pensano gli americani della classe media in ambito politico, culturale e sociale, in particolare il fatto che questi «sono restii a esprimere un giudizio sul modo in cui agiscono e ragionano le altre persone». Un po’ come canta Lady Gaga nella sua “Born This Way”: una razza umana «che non porta pregiudizi, e nessun giudizio, ma libertà sconfinata». Ed è ovvio che per poter godere di una “libertà sconfinata” bisogna avere una mente “aperta”.
Furedi descrive una società anglo-americana (ma vale anche per noi) che vive profondo disagio nel formulare giudizi di valore, per cui ha sviluppato un intero vocabolario di eufemismi per evitare la chiarezza e la schiettezza. Il termine “inopportuno”, per esempio, di cui si fa molto uso, serve per lo più a evitare la disapprovazione senza cadere nell’aperta condanna.
Chi conosce la scuola dall’interno sa bene come questa pratica è diventata sua cifra caratteristica: “non promosso” per “bocciato”, “problematico” per allievo dal comportamento rompiscatole ecc.
Il giudizio è quindi descritto come fonte di conflitto, non come occasione per sviluppare una comprensione condivisa delle rispettive opinioni; mentre secondo Hanna Arendt «il potere di giudicare si fonda sull’accordo potenziale con altri», giudicare «è una delle più importanti, se non la più importante attività nella quale si manifesti il nostro “condividere il mondo con altri”».
Ma non è che una società educata a non giudicare diventi una società sostanzialmente indotta a considerare valore fondamentale l’indifferenza morale?
Apparente paradosso: chi rifiuta il comportamento giudicante quasi sempre si scaglia con inaudita intolleranza verso chi osa mettere in discussione determinati comportamenti “non giudicanti”. Naturalmente in nome della “non discriminazione”. Lo vediamo molto bene con i sostenitori dell’ideologia “woke”, secondo i quali vai bene se ne accetti i suoi dogmi, non vai più bene, anzi sei da cancellare, se non li accetti. Perché il bene non si discute.
Domanda che nasce dai soliti dubbi. Ma non è che il comportamento “non giudicazionista” è partorito dalla necessità del mercato di favorire la sacralità del flusso di merci capitali e servizi e di non ostacolarne la circolazione per cui serve quella libertà “sconfinata” di cui parla Lady Gaga?
Il vietato vietare della cultura “antiautoritaria” ha partorito nel tempo l’individuo più sottomesso e conformista che si potesse immaginare. Altro che trasgressione! Quando la trasgressione è fine a sé stessa, è senza oggetto, essa diventa il miglior modo di esercitare il conformismo e di adeguarsi al “sistema”.
Contrariamente a quel che si può superficialmente pensare è proprio nella capacità di stabilire confini, limiti, che si sviluppa una personalità forte, capace di affrontare le avversità della vita, che non abbia quella fragilità che ormai accompagna la vita di molti (tranquilli, c’è la psicologia e, se non basta e te lo puoi permettere, la psicanalisi!) e mettiamo su generazioni di “fiocchi di neve”.
Delimitare gli spazi, distinguere i luoghi sono azioni essenziali per condurre le attività umane e costruire istituzioni politiche e sociali (Furedi). L’ordine consiste principalmente nella capacità di distinguere – di avere demarcazioni simboliche – in modo tale da farci conoscere il posto delle cose e come esse si relazionano l’una con l’altra» (Robert Wuthnow).