Il primo a parlarne è lo zoologo francese Guillaume Rondelet, che in teoria sarebbe pure ‘na persona sana di mente. Insegnante di Anatomia all’Università di Montpellier e autore di ottime opere sull’ittiologia, pubblica nel 1544 il suo De piscibus marinis, in quibus verae piscium effigies expressae sunt. Ecco, ehm, come dire: di fronte a un pesce con la mitria e la pianeta non sarei così sicura che si possa parlare di vere effigi… ma sono profondamente grata al Rondelet per aver dato il via a questa leggenda.
E cioè, alla leggenda del pesce-vescovo.
Esso (?) è, a detta dello zoologo, un gigantesco pesce con pinne pettorali molto simili a dita umane, una testa che culmina in una mitria da vescovo e una coda che ricorda gli stivali dei marinai. Secondo lo scienziato, sarebbero stati più d’uno gli avvistamenti di questo buon mostro marino, che pare abitare nei Mari del Nord e non disdegna, di tanto in tanto, d’avvicinarsi alla costa.
Possiamo immaginarlo molto impegnato ad esercitare la cura d’anime su una vasta diocesi marina – ché, come assicura Rondelet, esistono nei mari del Nord anche numerosi pesci-monaci, che hanno “viso umano, anche se decisamente rozzo e malgrazioso”, con una testolina “liscia e ben rasata”. Detti monaci hanno “sulle spalle una specie di cappuccio da monaco; al posto delle braccia, due lunghe pinne, e il corpo finisce in una lunga coda”.
Grossomodo, questi:
Quando Rondelet dà alle stampe la sua opera, la gente giustamente lo prende per cretin gli crede ciecamente, sicché la storia del pesce-vescovo rimbalza da manuale a manuale, trovando spazio negli scritti del naturalista Konrad von Gesner, del chirurgo Ambroise Paré, del botanico Aldrovandi. E, giustamente, anche in quelli di qualche religioso, tipo il gesuita Georges Fournier, che così descrive l’episodio (citato, con piccole discrepanze, anche in tutti gli scritti precedenti) della cattura di un pesce-vescovo sulle coste della Polonia.
Nel mar Baltico, verso la costa di Polonia e di Prussia, fu preso nel 1433 un uomo marino il cui aspetto era in tutto quello di un vescovo: aveva in capo la mitria, la croce in mano, ed ogni altro paramento di cui sogliono rivestirsi i vescovi quando celebrano la santa Messa. La pianeta gli si sollevava facilmente fino al ginocchio, tanto davanti che di dietro. Permise che parecchie persone lo toccasssero, e specialmente i vescovi di quelle contrade, verso i quali, come diede a intendere a gesti, nutriva un profondo rispetto. E benché non parlasse, capiva bene quanto gli si diceva.
Volendo il re rinserrarlo in una torre, fece intendere che ciò non gli aggradava, e quando i vescovi pregarono il re di lasciarlo tornare al mare, egli a gesti ne ringraziò.
Vi fu riaccompagnato dai due porporati camminando tra di loro e appoggiando le mani sulle loro spalle. Entrato in acqua salutò i vescovi e la moltitudine accorsa, e, impartita loro la benedizione con un segno di croce, si tuffò in mare e disparve alla vista.
Assai meno felice fu l’esperienza terrena di un altro pesce-vescovo catturato verso la fine del Cinquecento sulle coste della Germania, come scrive Konrad von Gesner nella sua Historia Animalium. Quest’ultimo prelato, evidentemente dotato di minor tempra, dopo la cattura si ripiegò in una depressione autolesionista rifiutando con ostinazione il cibo che pure gli veniva offerto, e, dopo tre giorni di ostinato digiuno, finì col morire.
Da quella data in poi, gli avvistamenti terminano (io mi immagino che la conferenza episcopale delle diocesi subacquee abbia mandato una circolare consigliando a tutti di stare al largo, eccheccavolo). Ma, seppure con maggior nascondimento, il pesce-vescovo continua a fare capolino molto a lungo… se non altro, nell’immaginazione dei marinai. Da una inchiesta condotta nell’800 tra gli uomini di mare, molti di loro dichiaravano di credere fermamente all’esistenza di questo benevolo mostro marino – e di molti altri meno simpatici, sol per quello.
Naturalmente, molti hanno tentato di trovare una spiegazione a questa leggenda. Il primo a provarci è stato, nel 1850, lo zoologo Japetus Steenstrup, il quale aveva ipotizzato che il “pesce-vescovo” avvistato dai suoi predecessori altro non fosse che un calamaro gigante.
Nel corso dei decenni successivi, sono state avanzate anche altre ipotesi: s’è parlato di trichechi, dungonghi, razze (o, per restare in tema, di pesci-angeli).
Tutte teoria sensate, ci mancherebbe – ma se l’origine della leggenda può essere sicuramente quella, la sua persistenza e la sua stessa ragion d’essere trovano, secondo me, spiegazione in un dato che ha ben poco a che vedere con l’ittiologia. Il pesce-vescovo, secondo me, nasce nella fantasia dei naviganti per rispondere a un bisogno disperato degli uomini di mare: e cioè, quello di credere che qualcosa del genere potesse esistere davvero.
Uno dei miei più cari amici è un marinaio (anzi, un marittimo, ma semplifichiamo per comodità).
Un marinaio italiano del secondo millennio, non un mozzo di una caravella medievale: eppure, ci credereste se vi dico che la sua vita a bordo è dura, così dura che io ogni tanto mi chiedo “ma chi glielo ha fatto fare?”. Da quando lo conosco, ho cominciato a conoscere un mondo che onestamente non avrei mai immaginato, fatto di fatica fisica (tanta), pericoli oggettivi da far stare col cuore in gola, mesi e mesi su una nave che diventa un microcosmo a sé regolato da consuetudini e costumi tutti particolari, e – last but not least – inevitabilmente: solitudine.
Solitudine dalla famiglia e dagli amici, ovvio; ma, mi permetto di dire, solitudine anche dalla Chiesa, per chi ci crede. De André cantava che, in alto mare, “a montar l’asino c’è rimasto Dio; il Diavolo è in cielo e ci si è fatto il nido”: ecco, io non arriverei a questi estremi, ma pensate a quale terribile peso sia, per un credente, non poter andare a Messa per mesi, non potersi accostare all’Eucarestia per mesi.
Non potersi confessare per mesi, nemmeno se ne avresti urgentissimo bisogno.
Si lavora così tanto (e soprattutto: ininterrottamente, senza giorni di riposo) che talvolta capita di perdere il senso del tempo – non presti attenzione al fatto che è domenica; mangi carne un venerdì di Quaresima e te ne dispiaci pure, ma sul momento non t’eri ricordato che fosse un venerdì.
Oggigiorno almeno esiste Internet (…quando c’è campo a bordo), che non eroga i sacramenti ma almeno ti tiene in contatto col mondo, ma quanto sarebbe consolante cullarsi nella dolce convinzione che attorno alle navi nuotino interi conventi di pesci-monaci, coi loro sacerdoti, pronti a sostenere i nostri cari con la preghiera.
Ecco: i pesci-monaci, mi sa che non esistono, però mi consolo in minima parte pensando che i nostri marinai sono, effettivamente, accompagnati da nagivanti molto particolari… cioè, quelli che navigano su Internet.
Forse non lo sapete, ma esiste nella cattolicità una cosa meravigliosa che si chiama l’Apostolato del mare. Gli albori di questa pia opera si hanno nel 1894, quando, in Francia, gli Agostiniani dell’Assunzione si organizzano per fornire assistenza morale e religiosa ai marinai che transitavano nei porti vicini. Qualche anno più tardi, inizia a fare la stessa cosa la Società San Vincenzo nei porti inglesi, ma a dare il maggiore impulso a quest’opera sono sicuramente i Gesuiti, che nel 1899 fondano a Glasgow il primo ramo della Apostleship of the Sea. Negli anni ’20, la Santa Sede riconosce ufficialmente l’opera rendendola internazionale… così come in effetti è.
Cosa fa, concretamente, l’Apostolato del Mare?
Fa quello che può, cioè non molto, ma, ad esempio, stila un elenco di sacerdoti che si mettono a disposizione dei marinai, offrendosi di salire a bordo (e/o di incontrarli in porto) per un veloce rendez vous o per amministrare i sacramenti. E non è poco.
Inoltre, crea attorno ai marinai una bellissima rete di preghiera – ché, se vi iscrivete alla loro pagina Facebook (o mailing list) riceverete periodici promemoria.
In ultimo, fornisce risorse spirituali pensate appositamente per i marinai, come un magazine fatto apposta per loro, o una app con preghiere per i naviganti (che funziona anche senza rete. Creatori di app cattoliche, ma ci pensate che non tutti hanno sempre facile accesso a Internet?).
E ‘nsomma, se non conoscevate le attività di questa opera, andate a darci un’occhiata, soprattutto in quella che è la “Domenica del Mare” (…lo sapevate?), dedicata alla preghiera per marinai e pescatori.
Le preghiere sono una cosa di cui hanno un disperato bisogno, questi lavoratori così lontani da tutto e tutti da ridursi a un puntolino su una mappa azzurra. Se i pesci vescovi non si fan più vedere dopo quella brutta storia del vescovo pinnuto morto suicida, possiamo essere noi a farne i facenti funzione.