Chiaro, essenziale e sintetico l’articolo degli amici dello Studio Livantino, un ottimo vademecum per il Referendum.
Toccati i punti essenziali che ore e ore di discussioni in TV non dicono-
Centro Studi Livantino, 14 settembre 2020 –
1. La riforma costituzionale sulla quale siamo chiamati al voto referendario il 20 e 21 prossimi punta su due aspetti d’impatto sull’opinione pubblica: il risparmio nei costi della politica e un generico snellimento delle procedure parlamentari. In realtà, il risparmio stimato nel bilancio dello Stato non sarebbe così schiacciante, si aggirerebbe difatti intorno ai 285 milioni di euro, pari allo 0,007% della spesa pubblica (cf. come Osservatorio Conti Pubblici, diretto da Carlo Cottarelli), mentre la riduzione del numero dei parlamentari rischia di impoverire la rappresentatività di Camera e Senato con effetti, oltre che sull’elezione del Presidente della Repubblica, sul funzionamento del lavoro istruttorio nelle 14 Commissioni permanenti di ciascun ramo del Parlamento.
A prima vista si tratta di una riforma semplice e limitata: in effetti così è, ma le conseguenze di essa, come il suo significato complessivo, sono di grande rilievo [1].
Il cuore della riforma – la riduzione drastica del numero dei parlamentari – incide sulla rappresentanza, sulla sovranità popolare e sulla democrazia sotto diversi aspetti. Muta il rapporto fra parlamentari e cittadini: oggi vi sono, in rapporto alla popolazione, un deputato ogni 96.000 abitanti circa e un senatore elettivo (senza considerare i senatori a vita e i senatori di diritto a vita) ogni 192.000 abitanti circa. In caso di approvazione definitiva della riforma, l’Italia si troverebbe ad avere una percentuale pari a 0.7, la più bassa fra gli Stati membri dell’Unione europea (seguita dalla Spagna, con 0.8) fra numero di elettori e numero di eletti.
2. Riducendo il rapporto fra cittadini e parlamentari, si incide sulla rappresentanza, sia da un punto di vista quantitativo sia da un punto di vista qualitativo. Quantitativamente aumenta la distanza fra rappresentato e rappresentante: vi sarebbe un deputato ogni 151.200 circa. Il riverbero sulla qualità è evidente, con una diminuzione della possibilità per il cittadino di veder eleggere un “proprio” rappresentante, abbassando il grado di potenziale identificazione del rappresentato con il rappresentante; si restringono le possibilità di scelta e si comprime l’angolo visuale della lente che specchia la realtà e la complessità della società [2].
A un numero ridotto di parlamentari corrisponde ovviamente la riduzione del numero dei componenti delle attuali 14 commissioni – il vero motore dell’attività parlamentare –, con conseguente aggravio di lavoro. Al Senato, addirittura, avremmo commissioni composte da appena 13-14 senatori, con la conseguenza che per approvare una legge, in assenza della richiesta di rimessione in Aula di un quinto dei suoi membri (art. 72 co. 3 Cost.), il voto favorevole di appena quattro senatori (13:2=7 numero legale, 7:2=4 maggioranza richiesta). Si potrebbe rimediare accorpando le Commissioni del Senato, ma una simile modifica andrebbe per simmetria estesa anche alla Camera, e comporterebbe comunque il loro disallineamento rispetto alle attuali corrispondenti strutture ministeriali.
3. Un altro problema deriva dal sistema elettorale oggi in vigore. La già insufficiente rappresentatività verrà ulteriormente distorta da un meccanismo che prevede l’elezione del 37 % dei parlamentari con il sistema maggioritario uninominale a turno unico e una serie di sbarramenti per la restante quota proporzionale. Il risultato sarà la penalizzazione delle minoranze, non solo politiche ma anche etniche, delle forze politiche che al livello regionale saranno in minoranza, delle compagini più piccole. Molti cittadini rimarranno senza rappresentanza, e tutti avranno più difficoltà a rapportarsi con i propri eletti.
Da decenni ci raccontano che va migliorata la governabilità, umiliando la rappresentanza. Sul falso presupposto che fosse necessario rafforzare il ruolo del Governo sono state introdotte e praticate scorciatoiee prassi che hanno condotto alla caduta verticale di ruolo del Parlamento, e della funzione dei parlamentari e di legittimazione della rappresentanza politica. È inutile fare l’elenco di fatti ed eventi susseguitisi in questi decenni. Basterà ricordare, quanto alla crisi della rappresentanza politica, le dissennate e strumentali leggi elettorali maggioritarie, ripetutamente censurate dalla Corte costituzionale; quanto alla neutralizzazione e al dissolvimento del ruolo del Parlamento, la tenaglia costituita dai decreti leggi, dai maxi emendamenti e dall’apposizione del voto di fiducia da parte del governo, per non dire della sua umiliante estromissione non solo dalla discussione, ma anche dalla semplice lettura, delle leggi di bilancio approvate a scatola chiusa.
Il momento più grave di questa deriva lo abbiamo avuto nel periodo del lockdown: mentre le fabbriche continuavano a lavorare, il Parlamento operava al minimo, e si andava avanti a decreti del Presidente del Consiglio, forzando non poco le regole previste per lo stato emergenziale.
4. Il rischio è di confondere rapidità e quantità con efficienza e qualità – “corruptissima re publica plurimae leges”[3] – e non sempre valevole è l’assioma per cui “in pochi si lavora meglio che in tanti”: limitandone i membri, il distratto revisore rischia di sovraccaricare i rimanenti ed ingolfare i lavori delle Camere giacché – quella legislativa – non è l’unica rilevante funzione svolta. Di fronte al dilemma di come conciliare la possibilità di dare voce a tutti (argomento ideologico) con quella di prendere provvedimenti concreti per una società (argomento pragmatico), nasce il compromesso della democrazia rappresentativa, già descritto (con accezione negativa) nel IV secolo a.C. da Aristotele[4]. Ma il problema quantitativo rimane aperto: quale è il giusto numero di rappresentanti per far valere la voce dei cittadini? Non esiste una risposta universale, poiché i fattori rilevanti sono innumerevoli: dal livello medio di istruzione alla portata della rete di informazione, alla distribuzione delle forze politiche). Tuttavia non sono mancati tentativi di ideare modelli teorici atti ad individuare il numero ottimale di rappresentanti; soprattutto in tema di rappresentanza, sposando quel genere di logica potremmo anche sostenere che al fine di massimizzare davvero questa funzione di maggiore rappresentanza e di potenziale maggior responsabilizzazione degli eletti, i parlamentari potrebbero anche essere ridotti a uno solo. Oppure potrebbero essere direttamente sostituiti dal Presidente del Consiglio[5].
Il ‘politico’ come summa del disvalore, del disfacimento della volontà popolare, o generale, la rappresentanza stessa considerata come una macchina ornamentale inutile finiscono per riecheggiare quanto sosteneva a piena ragione Carl Schmitt: “il fatto di definire il nemico come politico e se stessi come non-politici (cioè come scientifici, giusti, obbiettivi, imparziali ecc.) costituisce proprio un modo tipico e particolarmente intensivo di far politica”[6]. La Costituzione in questa chiave di lettura non è più patto, progetto politico comune, ma diventa spazio di potenziale aggressione e di ‘inimicizia’, e strumento politico di una parte.
Daniele Onori
[1] Per una lettura critica in vista del voto si rimanda a https://www.centrostudilivatino.it/referendum-costituzionale-riforma-settoriale-e-rischiosa/ , https://www.centrostudilivatino.it/referendum-da-rousseau-al-m5s-come-ti-taglio-la-democrazia/
[2] A. Algostino, Perché ridurre il numero dei parlamentari è contro la democrazia, Forum di Quaderni Costituzionali – Rassegna, n. 9/2019
[3] Tacito, “Annales”, libro III
[4] Aristotele, Politica, libri IV-VI
[5] Andrea Venanzoni, Contro la retorica delle ‘riforme’ epocali, in www.lacostituzione.info
[6] G. Preterossi, L’ovvia verità del ‘politico’ ,Diritto e ostilità in Carl Schmitt, in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, XXXVIII (2009), pp. 43-74